Plotino e çankara: una questione di punti di vista

 

di Giorgio Giacometti

 

 

Questo articolo, basato sul più fondamentale saggio Meditare Plotino, che approfondisce scientificamente le Enneadi di Plotino come via di realizzazione spirituale, è stato originariamente pubblicato in "Simplegadi", Rivista di filosofia orientale e comparata, V, 2000, n. 1, pp. 11-33

 

 

“E’ e non può non essere” [1] ; “ingenerato, imperituro, […] intero, immobile, senza fine, […] uno, continuo” [2] ; “nomi sono tutte le cose che i mortali hanno posto credendo che fossero vere” [3] .

Con queste e altre parole si affaccia alla storia lo strano “mito” dell’Uno senza secondo, immobile ed eterno. Ne canta una dea, nel VI sec. a. C., ad Elea, nella Magna Grecia, a un “uomo saggio”, Parmenide. Intorno a questo mito si sono affaticati, con esiti che si possono giudicare (fecondamente) aporetici, secoli di filosofica ellenica. Zenone, discepolo di Parmenide, si preoccupa tempestivamente, con i suoi famosi argomenti (uno per tutti: quello di Achille e della tartaruga)[4], di confutare l’opinione curiosamente diffusa secondo la quale le cose sarebbero non una, ma molte, non immobili, ma in divenire. Disgraziatamente, se molteplicità e divenire importano paradossi, la stessa dottrina di Parmenide, così come è stata enunciata, offre il fianco a molteplici confutazioni. Lo dimostra Platone, nel IV sec. a. C. Come affermare, per esempio, l’unità dell’Uno senza distinguere, al suo interno, il suo “essere” dal suo essere “uno”[5]? E come negare ciò che non è [Uno] senza nominarlo, presupporlo, attribuirgli, anche solo per necessità di discorso, di sfuggita, l’“essere”[6]?

Eppure, secoli dopo (VII d.C.), la scuola “filosofica” hindu di Gaudapada e Çankara osa riaffermare la dottrina dell’Uno senza secondo, la dottrina dell’assoluta non dualità o Kevaladvaita. I due maestri affermano di avere dalla loro non solo argomentazioni razionali e dialettiche, di cui pure si valgono con dovizia, ma la stessa çruti, le scritture sacre indiane, e in particolare il Vedanta, ossia il corpus delle Upanishad vediche risalenti al VII-VI secolo a. C. (dunque all’incirca coeve agli albori della filosofia greca).

Lasciamo da parte la tentazione, pur cattivante, di congetturare, disponendoci in prospettiva storiografica, possibili contatti e scambi tra le speculazioni greche e quelle indiane. Resistiamo anche alla tentazione di attribuire le notevoli somiglianze delle rispettive problematiche al comune sostrato linguistico-culturale indoeuropeo (si pensi alla disponibilità, per esempio, in greco e sanscrito di termini affini per designare l’“essere”, la “coscienza”, l’“anima” ecc.). Cediamo, piuttosto, volentieri, alle sirene che ci seducono a praticare una filosofia comparata che osi passare, come attraverso Scogli Cozzanti, le Simplegadi appunto, “attraverso i problemi che, come scintille, scaturiscono” dal confronto tra le elaborazioni dottrinali dell’Occidente e quelle dell’Oriente[7].

Eppure, anche così, anzi proprio praticando una comparazione che non rinunci ad essere, essa medesima, una pratica di filosofia, sembra inevitabile cozzare contro un pròblema, un ostacolo, di ordine metodologico, la cui soluzione è connessa con la possibilità stessa di praticare una filosofia comparata.  Il confronto tra i modi di intendere l’Uno, nei due contesti culturali, quello greco e quello hindu, produce risultati che sembrano inficiarne i presupposti, facendo venire le vertigini. Quello che ne scaturisce, infatti, è non tanto una dialettica tra filosofie, occidentale e orientale, concepite - modernamente - come “sistemi” internamente coerenti, l’uno contro l’altro armati, quanto, piuttosto, una dialettica tra i diversi punti di vista interni a ciascuna di queste “filosofie”: e precisamente i diversi punti di vista a partire dai quali si può guardare, appunto, all’Uno.

Quale il senso di questa dialettica? Per un verso, si tratta di mettere tra parentesi tutte le speculazioni relative a necessarie (presunte) differenze di carattere storico-culturale tra mondo greco e mondo indiano. Qualcuno, del resto, potrebbe sempre osservare: “Se il teorema di Pitagora è uguale a tutte le latitudini, perché non dovrebbe essere lo stesso anche del modo che, in generale, gli uomini (pensanti) hanno di intendere l’Assoluto?”.

Per altro verso, riconosciute le indubbie differenze, in queste tradizioni, nei modi di trattare e di intendere l’Uno e le sue relazioni con il molteplice, appare del tutto inadeguato spiegarle sulla base semplicemente di presupposti di ordine logico, linguistico, culturale, storico.  Spiegazioni di tale natura, infatti, non potrebbero rendere conto della circostanza, sorprendente, che una molteplicità di punti di vista, apparentemente contraddittori l’uno rispetto all’altro, si ritrova non solo in ciascuno dei due orizzonti culturali, non solo nell’ambito di ciascuna determinata dottrina, ma perfino all’interno del medesimo testo, sia questo un dialogo platonico o un commento vedantico a un testo della çruti.

La nostra ipotesi, suggerita, tra gli altri, dagli studi sulla filosofia greca ed ellenistica di Pierre Hadot[8], è che tali diversi punti di vista siano di volta in volta assunti dai diversi maestri, nelle diverse circostanze, allo scopo essenzialmente “maieutico” di trattare il rispettivo argomento secondo le differenti capacità di comprensione del destinatario del testo, generalmente il discepolo della scuola. Le differenze tra le elaborazioni dottrinali, in altre parole, concernerebbero più il “codice” di cui si suppone che disponga colui a cui sono rivolte, che il “messaggio” che esse intendono veicolare (sempre il Medesimo).

Tale ipotesi potrebbe, tra l’altro, permettere, di collegare, senza forzature, i due “monismi” centrali  dei due contesti culturali di riferimento, cioè quello parmenideo-platonico per l’ambito greco e l’Advaita Vedanta per l’ambito hindu, a tutti gli altri “sistemi” filosofici (pluralisti), ellenici e indiani. In essi - si può tentare di dimostrare - l’”Uno senza secondo”, nonostante tutte le confutazioni riferite al modo della sua “affermazione”, continua ad essere sotterraneamente presupposto, come termine di riferimento o, per così dire, come “orizzonte degli eventi”. Tuttavia, per mostrare la plausibilità dell’ipotesi che ci guida, senza estendere arbitrariamente la ricerca, ci limitiamo, in questa sede, a interrogare una serie di testi riferibili prevalentemente alle due scuole che giudichiamo “portanti” delle rispettive culture: quella di Plotino per l'ambito greco e quella di Çankara per quello vedantico.

Il vantaggio del taglio dato a questo “esperimento” di lettura, qualora dovesse riuscire, non dovrebbe sfuggire. Se gli autori e i testi interrogati “convengono” nel presentare se stessi e le rispettive dottrine di riferimento non tanto come sistemi filosofici chiusi e logicamente coesi, quanto come “provocazioni” maieutiche internamente aporetiche e differenziate, aperte all’intelligenza del discepolo del tempo come del lettore di oggi, allora non avremmo solo trovato un punto di analogia tra tradizioni differenti, ma una/la condizione di possibilità per quella filosofia comparata, come esercizio del pensiero, sempre attuale, che si tenta e si pratica con zelo sulle pagine di questa rivista.

Nello stesso tempo, dei limiti di tale esercizio ci rende avvertiti l’incontro con testi che, quali supporti scritti e provvisori, nella loro stessa forma letteraria, sempre presuppongono e continuamente rinviano a un magistero orale e, dunque, in definitiva, all’esperienza personale.

 

Per risolvere le apparenti contraddizioni delle Upanishad (spec. della Chandogya), che definiscono il Brahman sia come assoluto, irrelato, privo di attributi (nirguna), sia come causa del mondo empirico (Içvara), qualificato (saguna), ecc., Çankara ricorre alla distinzione tra punto di vista o livello o prospettiva dell’assoluto (paramarthika) e punto di vista o livello o prospettiva del relativo (vyavaharika)[9]. Con tale gesto Çankara da un lato mostra che la pretesa contraddizione, riferita all’Assoluto, in quanto puro effetto linguistico, era apparente[10] (alla medesima cosa sono assegnati attributi bensì contrari, ma non sotto lo stesso rispetto[11]), dall’altro lato che la differenza implicita nell’apparente contraddizione va riferita non già all’Assoluto stesso, ma ai livelli della sua conoscibilità.

“Il Brahman, in verità, è detto avere due forme [dvirupam]: quella che è determinata per le limitazioni dovute alle modificazioni in nomi e forme [namarupa], e quella che, al contrario, è privata di tutte queste limitazioni […]. Sebbene il Brahman sia uno, secondo i testi vedantici [cioè le Upanishad], esso è tale che su di lui si debba meditare come se fosse in relazione con le limitazioni ed è [in pari tempo] tale che deve essere conosciuto come privato di ogni sorta di relazione con le limitazioni”[12]

Le cose che sono da un determinato punto di vista, “sono” appunto solo in funzione di quel punto di vista. Propriamente (cioè in senso “proprio”, in riferimento a se stesse) esse, dunque, piuttosto che “essere”, appaiono (a qualcuno). E’, in “senso” assoluto, (e - come la dea rivelava a Parmenide - non può non essere) solo quel solo punto di vista (il Sé, appunto) a partire da cui tutte le “altre” cose appaiono. Esso, lungi dall’essere qualcosa per qualche altro punto di vista, è piuttosto la condizione di possibilità di tutti i possibili punti di vista (in termini kantiani e husserliani: è coscienza trascendentale). “Null’altro è se non il Sé”[13].

Nel commento alla Bhagavad Gita, Çankara dimostra, mediante un dialogo fittizio tra maestro e discepolo, che quella stessa ignoranza che è qualcosa dal punto di vista del discepolo (cioè di colui per il quale essa è tale), non è e non può essere alcunché dal punto di vista del Sé:

“Di chi è l’ignoranza? Di colui che la vede. Chi la vede? La domanda ‘Di chi è l’ignoranza’ è priva di senso. Come mai? Se percepisci l’ignoranza, percepisci anche chi la possiede […]. Ebbene, l’ignoranza è mia. Allora, conosci l’ignoranza e il Sé che la possiede. Sì, ma non immediatamente. Se conosci per inferenza, come puoi percepire la relazione tra il Sé e l’ignoranza? In verità non puoi percepire il tuo Sé come in relazione all’ignoranza nello stesso tempo in cui conosci l’ignoranza, perché [in questo istante] l’ignoranza, come oggetto di conoscenza, impegna tutta la conoscenza di colui che conosce. [D’altra parte] colui che conosce la relazione tra chi conosce e l’ignoranza non può avere soltanto questa conoscenza [della relazione] indipendentemente [da quella immediata dell’ignoranza]. In tal caso ne risulterebbe inevitabilmente un regresso all’infinito [anavastha]: se, infatti, il conoscitore potesse conoscere [in modo indipendente] la relazione tra l’ignoranza [e il conoscitore], il primo conoscitore dovrebbe essere concepito come un altro conoscitore, quindi [si dovrebbe concepire] un terzo conoscitore [della relazione tra il secondo e il suo oggetto], quindi un quarto e così via. Sicché sarebbe inevitabile il regresso all’infinito. Se invece l’ignoranza e, da questo punto di vista, qualunque altra cosa è solo oggetto di conoscenza, essa sarà sempre solo tale, mentre il conoscitore […] non potrà mai divenire oggetto di conoscenza, né essere affetto da ignoranza, dolore ecc.”[14]. Dal punto di vista di colui che conosce non c’è se non colui che conosce. Colui che ignora e ciò che viene ignorato, da questo punto di vista, non solo non esistono, ma non possono neppure esistere.

La stessa procedura dialogica e, in generale, la relazione tra maestro [guru, acarya] e discepolo, così qualificanti della ricerca spirituale, devono non semplicemente cessare, ma scoprirsi nulle, non essere mai esistite: “Né maestro, né insegnamento, né discepolo, né studio, né te, né me, né questo universo. La coscienza della reale natura del Sé non ammette differenziazioni. Il resto, quest’uno, Shiva, il liberato, io lo sono”[15]. “L’Unico veramente reale è diversificato dall’illusione [maya]; analogamente la luna, che è unica, sembra multipla a colui il cui organo della vista è difettoso, la corda appare come un serpente o un filo d’acqua ecc.”[16].

Conseguito che si abbia il “punto” di vista dell’Assoluto, insieme con ogni differenza viene meno ogni gerarchia, da quella dei tre mondi (triloka), a quella delle caste: “Se una tale incrollabile realizzazione esiste in qualcuno, chiunque egli sia, si trattasse anche di un chandala (un intoccabile) o di un dvija (un bramino, un due volte nato), costui merita di essere onorato”[17].

 

Sorge a questo punto una prima domanda di carattere ermeneutico. Lo schema dei due livelli di conoscenza (quello dell’Assoluto e quello del relativo), suggerito dal Vedanta çankariano, può essere adottato per rendere ragione anche delle (apparenti) antinomie nella determinazione dell’Uno nel contesto greco, in particolare platonico (si pensi alla trattazione del Parmenide, che rappresenta forse i vertici della dialettica classica) e neoplatonico?

In Plotino (III sec. d. C.) possiamo rintracciare, in effetti, un analogon dello schema dei due livelli del Vedanta. Si tratta dello schema dei due stati potenziali dell’“anima”: quello di colui che è separato dal proprio oggetto e quello, coincidente con l’Uno o l’Assoluto, di colui che è tutt’uno con esso.

L'anima dell’uomo, dice Plotino secondo la testimonianza di Porfirio, è scissa in due parti di cui “la parte che conosce, quanto più conosce [...] diventa una cosa sola con l’oggetto conosciuto. Infatti se rimanessero due, il soggetto sarebbe diverso dall'oggetto, sicché l'uno sarebbe in certo modo accanto all'altro e l'anima non avrebbe ancora superato questa duplicità[18]. “Nell'anima virtuosa l'oggetto conosciuto diventa identico al soggetto in quanto essa aspira all'intelligenza. è evidente che nell'intelligenza soggetto e oggetto sono il medesimo, non per affinità, come nelle anime migliori, ma per essenza, in quanto [come diceva Parmenide] ‘essere e intendere sono il medesimo’. Il soggetto non differisce dall'oggetto altrimenti dovrà esserci a sua volta qualcos'altro, in cui l'uno non differisca dall'altro”[19]. “Se [l’anima] è in stato di purezza nell'intelligibile […] essa è le cose che sono [oggetto della sua intelligenza][…] Essa deve necessariamente giungere all'unificazione [ènosis] con l'intelligenza”[20]. “Uno è divenuto intelligenza quando, abbandonate le altre […] cose che gli appartenevano, guarda l'intelligenza, cioè guarda se stesso per mezzo di se stesso. Egli è dunque intelligenza e vede se stesso”[21].

Le sintesi “vulgate” della dottrina neoplatonica potrebbero farci leggere in questi passi e in altri affini un riferimento a un livello di conoscenza, quello proprio dell’intelligenza o noûs, che, rappresentando la “seconda ipostasi”, rimarrebbe ancora inferiore a quello riferibile all’“Uno senza secondo”. Ma si osservi: il punto di vista a cui Plotino si riferisce in questi passi differisce da ogni altro per il fatto di implicare l’unità del soggetto conoscente e dell’oggetto conosciuto, che è proprio la condizione specifica di non dualità propria dell’Uno. L’ambiguità della terminologia, con il frequente ricorso al termine indicante l’“intelligenza”, che implica la duplicità dell’”intelligente” e dell’”intelligibile”, è inevitabile: la dottrina è pur sempre esposta a discepoli e a lettori che, essendo fuori dall’Uno (proprio in quanto si “credono” appunto discepoli e lettori), hanno bisogno di avvicinarsi all’“illuminazione” per via di opportune metafore, immagini, ricavate dal contesto della loro esperienza.

In generale, possiamo chiederci se l’intero “edificio” delle ipostasi di Plotino (Uno, intelligenza, anima) non viga solo per coloro che sono separati dall’Uno e non assolva complessivamente una funzione “maieutica”. Ciascuna ipostasi non cesserà, forse, di esistere allorché si sia “pervenuti” (ennesima metafora) a quella superiore? Indizi espliciti di tale dinamica li offre Plotino stesso, come quando nega, per esempio, che le anime “liberate” conservino la minima traccia di memoria dell’universo sensibile[22].

Sembra, dunque, che anche la dottrina neoplatonica ammetta almeno una duplicità di livelli di conoscenza: quello dell’“anima” che differisce dal proprio oggetto e, pertanto, è irretita nel mondo sensibile, e quello dell’anima che, obbedendo fino in fondo all’imperativo del dio di Delfi “Conosci te stesso”, coincide con il proprio Sé e vi scopre l’Assoluto.

Che la dottrina a cui ci riferiamo possa rappresentare, ben al di là della scuola strettamente platonica, per così dire, il “basso continuo” della filosofia greca classica lo attesta a più riprese Plotino stesso, come quando afferma: “I nostri ragionamenti non sono una novità, né datano da oggi, ma sono stati fatti da gran tempo sia pure non esplicitamente. I nostri ragionamenti attuali si presentano solo come interpretazioni di quegli antichi con testi che ci garantiscono che queste dottrine sono antiche, proprio attraverso gli scritti di lui, di Platone. Prima di lui, anche Parmenide toccò la dottrina enunciata”[23]. Ancora, con chiaro riferimento all’Uno senza secondo: “Fu detto giustamente: ‘pensare ed essere sono il medesimo’ [Parmenide], ‘la scienza delle cose immateriali è identica al suo oggetto’ [Aristotele], e ‘investigai me stesso’ [Eraclito]”[24].

Sembra, dunque, legittimo verificare, in entrambi gli orizzonti culturali a cui ci riferiamo, quello greco e quello hindu, che cosa consegue dall’applicazione dello schema della duplicità dei livelli di conoscenza alla “lettera” delle dottrine stesse da cui l’abbiamo tratto.

 

Sorge subito un problema. Come è possibile, in generale, ricorrere all’escamotage dello schema della dualità dei punti di vista, in un orizzonte di pensiero che non ammette se non l’esistenza dell’Uno senza secondo?

La questione non è, a ben vedere, se non un caso particolare della domanda fondamentale di Agostino “si Deus unde malum?”. Se consideriamo la manifestazione del mondo come degradazione della perfezione dell’Uno e ammettiamo, quindi, contro l’intenzione del Santo, che la “creazione” sia designata come malum, proprio questo malum appare la condizione della duplicità dei livelli di conoscenza e, più in generale, della pluralità dei punti di vista sia sull’Uno che sul molteplice.

Come è noto, l’Advaita Vedanta, non potendo attribuire al Sé la causa di qualcosa che non esiste, ricorre alla nozione di maya, potenza demiurgica e ingannatrice, per rappresentare la “causa” della parvenza illusoria del mondo, della dualità, della molteplicità; dunque, della stessa dualità e molteplicità dei punti di vista sul tutto. Se si domanda quale sia, in radice, la causa di maya la risposta è inequivocabilmente che essa è l’ignoranza (avidya).

Che in generala l’ignoranza (non, per esempio, la perversione della volontà o il caso) sia la causa del male non vale solo per l’Advaita Vedanta (per il quale il male si identifica essenzialmente con l’illusione della dualità), ma, come è noto, vale, in generale, per la cultura hindu e per le tradizioni che ne sono scaturite, come quella buddhistica. E’ altrettanto noto che questo motivo, come quello, parallelo, del valore della conoscenza (jnana, gnôsis) per la salvezza corrisponde puntualmente (e certo non a caso) alla visione greca classica, dal cosiddetto intellettualismo etico di Socrate al razionalismo stoico. Ma è in Plotino che tale motivo rivela la sua sotterranea, ma stretta connessione con quello della non dualità: “Riguardo alla parte razionale dell’anima si dirà […] che il suo vizio è l’ignoranza [qui: ànoia; altrove: amathìa]”) […]. [Viceversa] obbedire alla ragione è come un vedere, in cui non si riceve una forma, ma si vede e si è in atto [tutt’uno con] ciò che si vede[25].

Se la verità è quella della non dualità, l’ignoranza di questa si accompagna all’illusione connessa al mondo sensibile e molteplice, da cui “ormai” sembra impossibile prescindere, anche solo per parlare della sua non esistenza. Tuttavia anche attribuire la causa dell’illusione all’ignoranza, come è ovvio, non risolve, ma si limita a spostare il problema. Quale la causa dell’ignoranza?

Le “spiegazioni” dell’origine del mondo, con la pluralità dei punti di vista che esso propone, offerte dalle dottrine essenzialmente monistiche a cui ci riferiamo, sono state giudicate, in generale, piuttosto deboli. Il che non dovrebbe stupire se ci poniamo, appunto, nella logica dei “punti di vista”. Da quale punto di vista, infatti, dovremmo spiegare l’origine del mondo? Non da quello dell’Assoluto, per il quale il mondo non esiste; né da quello del mondo, poiché si cadrebbe immediatamente nell’aporia di pretendere di spiegare qualcosa (il molteplice) ricorrendo a “cose” che presuppongono ciò che si vuole spiegare (il ragionamento che implica la molteplicità dei concetti, il tempo in cui si svolge, il destinatario della dimostrazione ecc.). La “causa” del mondo, in quanto illusione, dunque, sembra collocarsi logicamente in un necessario “punto cieco” della dottrina.

Perciò l’Advaita Vedanta preferisce tacerne. Plotino vi allude, invece, ricorrendo a una serie di metafore, quella della processione, dell’emanazione, dell’illuminazione, della generazione ecc., che tuttavia, come è stato ben notato, in effetti, non “spiegano” propriamente nulla.

Si può dire, a questo punto, che il tentativo neoplatonico di “dedurre” il mondo e di istituire la gerarchia delle ipostasi rappresenti una differenza, a livello di struttura concettuale, del sistema greco rispetto al parallelo hindu? Dovremmo, forse, associare il neoplatonismo piuttosto che al Kevaladvaita di Çankara a qualche altro “sistema” come p.e. al Viçishta Advaita di Ramanuja (XI-XII sec. d. C.) che afferma l’“Unità-nella-differenza” e giunge, in qualche modo, a “spiegare” la “creazione” attribuendone la causa a un dio personale? Ma la nostra ipotesi è che le affermazioni di volta in volta pronunciate dal “maestro”, sia questi Plotino o un suo “corrispondente” hindu, dipendano necessariamente dal modo e dal grado di comprensione del rispettivo discepolo. Egli parlerà, per esempio, discorsivamente, del mondo delle idee e delle loro relazioni (seconda ipostasi) solo a colui che non fosse ancora capace di intendere l’Uno (prima ipostasi) in via estatica; ad altri ancora si rivolgerà additando nell’amore e nella musica la “vera” via di salvezza ecc. Possiamo davvero escludere, anche in questo caso, che l’apparente “differenza” nella dottrina della “creazione” sia da attribuire, piuttosto che alla struttura logico-concettuale di ciascun “sistema”, al contesto culturale in cui determinate tesi sono avanzate, ai loro diversi destinatari, alle circostanze particolari dell’insegnamento ecc.? Non appare alquanto sterile confrontare i diversi “sistemi” per sorprenderne le contraddizioni interne e/o reciproche, quando di apparenti contraddizioni ciascuna singola dottrina addirittura pullula, all’interno del medesimo trattato? In fin dei conti ogni maestro tenta di parlare, assumendo di volta in volta il punto di vista del discepolo, di qualcosa di cui, al limite, è contraddittorio il fatto stesso di pretendere di dire alcunché.

Accanto alle differenze, del resto, vi è anche un’analogia, tra Çankara e Plotino, quando tentano di giustificare l’apparenza del mondo, con la molteplicità dei punti di vista che implica. Non a caso si tratta di un argomento dall’evidente significato pratico-pedagogico.

La manifestazione illusoria della molteplicità, nell’interpretazione che Çankara fornisce di un passo della Brhadaranyaka Upanishad (“Sotto ogni forma [il Sé] si concretò e ogni sua forma fu destinata ad essere veduta”), è giustificata come occasione per la conoscenza del Sé [atman], il quale, se non vi fosse manifestazione, rimarrebbe ignoto[26]. Si confronti l’osservazione di Plotino: “All’anima è possibile […] conoscere più chiaramente, attraverso il raffronto con il suo contrario, ciò che è bene. Poiché l’esperienza del male porta a una conoscenza [gnôsis] più precisa del bene”[27]. Plotino argomenta sulla base della teoria arcaica, che risale almeno a Eraclito, secondo la quale non si dà propriamente conoscenza di una cosa in chi non conosca altrettanto bene il suo contrario. La tradizione arriva fino a Schelling, che la riprende da autori come Jakob Böhme, Franz Baader ecc.: “Ogni essere può rivelarsi soltanto nel suo opposto”[28].

Il significato puramente pratico della “spiegazione” del “male” apparirà chiaro se si riflette che, sul piano puramente logico, essa presuppone contraddittoriamente quel bisogno di conoscenza, dunque quella carenza, quell’ignoranza, che andrebbero appunto spiegati. Infine, questa conoscenza dell’Uno, conseguita dialetticamente mediante la conoscenza del contrario, non può essere l’ultima parola della dottrina, dal momento che una volta realizzato, il Sé presuppone l’oblio della stessa manifestazione corporea dalla quale, apparentemente, è sorto: “Così questa calma serena, che sorge dal corpo, una volta raggiunta la luminosità suprema, si realizza nel suo vero aspetto: è il Sé [atman]. Esso là si muove, scherzando, giocando, godendosela con donne, carri, parenti, non ricordandosi della sua appendice che è il corpo”[29]. Nella radicale interpretazione çankariana, il passo significa che dal punto di vista acquisito nella realizzazione del Sé, la manifestazione corporea non c’è propriamente mai stata. Come potrebbe, dunque, essere (stata) necessaria ai fini della rivelazione del Sé a se stesso? La spiegazione del molteplice quale condizione della conoscenza dell’Uno, offerta da Plotino e Çankara, sarà dunque valida (a fini etico-pedagogici) solo per quelli stessi per i quali, come dice Plotino, “l'esperienza del male porta a una conoscenza più precisa del bene”[30].

L’allusione, nel passo upanishadico appena citato, al gioco del Sé è tuttavia preziosa. Come ha osservato Piantelli, “la libertà infinita” di colui che si riconosce tutt’uno con il Sé “non è solo uno spogliarsi della condizione di schiavitù illusoria […] ma è pienezza di possibilità di manifestazione divina”[31]. “Il saggio fruisce, in quanto Brahman, di tutto ciò che vuole simultaneamente […] in un unico istante, mediante un’unica percezione eterna simile alla luce del sole”[32]. In questo gioco (lila) c’è spazio anche per l’universo visibile, considerato tuttavia nella consapevolezza del suo carattere illusorio: il Sé “vede l’universo come una città riflessa in uno specchio[33]. Se le spiegazioni finora avanzate del prodursi dell’illusione non sono del tutto soddisfacenti dal punto di vista logico, possiamo abbandonare il nostro arsenale di concetti e guardare al mondo del molteplice nella serena prospettiva del gioco del Sé.

A tale punto di vista fa riscontro quello di coloro che sono irretiti in questo gioco, prendendolo terribilmente, troppo sul serio, confondendo le immagini virtuali restituite dallo specchio con la realtà; eppure rimanendo nondimeno, senza saperlo, tutt’uno con il Sé. Di questo tratto offre un’efficace rappresentazione Plotino: “Le anime degli uomini […] avendo visto le loro stesse immagini, per così dire, nello specchio di Dioniso, balzarono laggiù dalle regioni superiori; ma esse non sono tagliate fuori dal loro principio e dall’intelligenza”[34]. Lo specchio ingannevole è ciò che la tradizione greca chiama “materia” [hyle] la quale “consiste in una totale mancanza d’essere. In tutto ciò che promette essa mentisce: se è immaginata grande, è piccola; se è maggiore, è minore, e l’essere che immaginiamo di lei è un non essere, simile a un gioco fugace, ed illusorio è quanto crediamo esistere in lei, mero fantasma in un fantasma, proprio come in uno specchio in cui l’oggetto appare in luogo diverso da quello in cui realmente si trova”[35]. Come nella tradizione vedantica l’identificazione erronea con il corpo vivente (nei suoi cinque aspetti) è paragonata, in Plotino, a quella di un attore con il proprio personaggio. “E' necessario che gli animali si divorino tra loro [...] Il morire è un cambiare di corpo, come l'attore cambia di abito [...] Gli uomini si armano gli uni contro gli altri perché sono mortali; e i loro ordinati combattimenti che assomigliano a danze pirriche, ci mostrano che gli affari degli uomini sono semplicemente dei giochi e che la morte non è nulla di terribile [...]. Come sulle scene del teatro, così dobbiamo contemplare le stragi, le morti [...] come fossero tutti cambiamenti di scena e di costume, lamenti e gemiti teatrali [...][36]. Non è la vera anima interiore, ma un'ombra dell'uomo esteriore quella che si lamenta e geme e sostiene le sue parti su questo vario teatro che è la terra tutta. Tali sono le azioni dell'uomo che sa vivere soltanto una vita inferiore ed esteriore e non sa che le sue lacrime e i suoi affari sono un puro gioco [...] Coloro che non conoscono ciò che è serio prendono sul serio i loro giochi e sono giocattoli essi stessi[...] Anche i fanciulli piangono e si lamentano per cose che non sono mali”[37].

 

Il mondo molteplice, con la pluralità dei punti di vista che implica, non ammette, dunque, una vera e propria spiegazione. Non è possibile, se non abbandoniamo il terreno razionale, andare oltre Platone che, come abbiamo accennato, dimostra l’impossibilità di negare in modo assoluto il non essere, l’”altro” rispetto all’Uno; “altro” che, difatti, ritorna sempre come parvenza, fantasma, gioco. Non è dunque neppure possibile, nonostante il monismo di fondo, negare la differenza tra i due livelli fondamentali di conoscenza: quello dell’Assoluto e quello del relativo. In quest’ultimo il Sé gioca e gli altri (ma quali altri?) cadono irretiti. Il che ci consente di esporre il cuore della nostra ipotesi. Dal momento che la stessa “dottrina”, in quanto insegnamento rivolto a chi non sa ed è irretito dall’illusione, presuppone ineluttabilmente quest’illusione stessa e il punto di vista che le corrisponde, è logico attendersi che gli stessi enunciati dottrinali, maieuticamente, vi si adeguino.

Nel dialogo socratico chi parla “fonda la propria risposta su ciò che l'interlocutore [cioè il discepolo] riconosce di sapere egli stesso”[38]. Alla tradizione socratica si ispira tutta la tradizione platonica (e non solo) fino a Plotino. “Se Porfirio non mi interrogasse io non avrei da risolvere problemi e così non avrei da dire nulla che potesse essere scritto[39].

Çankara, dal canto suo, afferma: “Poiché i più ignoranti fra gli uomini lo prendono in tutta sicurezza per se stessi, per adeguarsi alla comprensione di costoro dapprima si mostra come Sé il corpo fatto di cibo, che Sé non è; in un secondo momento un altro, che è più intimo di quello, indi un altro, ancora più intimo […] procedendo in tal modo dal precedente al successivo, che neppur esso è il Sé, ma si lascia considerare tale propedeuticamente[40]. La conoscenza stessa, in quanto attività, è propedeutica, essendo contraddittoria con la “quiete” del Sé: “Si constata che la conoscenza è altra da sé e che i saggi comunicano ad altri la conoscenza del Sé che costoro recepiscono. Infatti la conoscenza e l’ignoranza vanno poste a livello di nome e forma [namarupa]: esse non sono attributi del Sé […] Essi sono immaginati nel Brahman, sebbene non sussistano in esso, come notte e giorno nel sole”[41].

L’attenzione per il punto di vista del discepolo a cui il maestro si rivolge spiega, per esempio, come a Çankara, che nega in generale l’utilità della devozione per il conseguimento della liberazione, possano essere stati attribuiti, con apparente contraddizione, numerosissimi testi devozionali, destinati, verosimilmente, alle anime più semplici. Analogamente, le differenze tra i “dialoghi della maturità” di Platone, incentrati sulla teoria delle idee, e i dialoghi cosiddetti “dialettici”, che conterrebbero una sorta di “autocritica” del filosofo greco, potrebbero ben essere ricondotte, piuttosto che a una pretesa “evoluzione” di Platone, all’esigenza, tutta pedagogica, di disporre di testi differenziati a seconda del grado di “iniziazione” all’Accademia dei rispettivi destinatari. In generale la forma stessa dei dialoghi platonici, specie di quelli aporetici, suggerisce la loro apertura ai diversi punti di vista che di volta in volta Platone mette in scena (certo, per correggerli).

Perfino nella critica, talora aspra, agli altri sistemi Çankara non sembra respingere in quanto tale il punto di vista (darçana) relativo che essi incorporano. Esso, infatti, potrebbe adattarsi perfettamente al grado di comprensione della realtà di cui sono capaci coloro che vi aderiscono. Molti insegnamenti del Buddha o del samkhya, come è noto, si attagliano perfettamente a determinati aspetti della dottrina vedantica. I suoi strali si concentrano sulla pretesa di taluni maestri di ridurre l’intera verità al proprio sistema, impedendo quindi quella “relativizzazione del relativo” che costituisce l’accesso all’Assoluto: “[Non possono percepire, in verità, il Sé] quei logici [appartenenti alla scuola nyaya] il cui cuore è gonfio di presunzione e che non vedono verità che nel loro proprio sistema”[42]. Ad analoghe esigenze antidogmatiche ha soddisfatto, verosimilmente, la vivace polemica dell’Accademia platonica del periodo cosiddetto “scettico” (Arcesilao, Carneade) contro le pretese “assolutistiche” di certo stoicismo.

 

Il linguaggio, in generale, come sapeva Empedocle[43], implica il punto di vista del relativo, se non altro perché presuppone che vi sia chi parla, ciò di cui si parla e colui a cui si parla (emittente, referente, destinatario, secondo il noto modello di Jakobson). E’ perciò perfettamente conseguente che non vi siano parole adeguate per esprimere l’Assoluto. Le parole, anzi, gli si sovrappongono con effetti fantasmatici, producendo identificazioni illusorie (upadhi)

“Poiché egli è il Sé intimo a ciascuno, la presa di coscienza di lui è detta attingimento soltanto impropriamente […]. Chi attinge consegue in verità qualcosa che non era ancora stato attinto, che non è in lui ed è altro da lui”[44]. “La conoscenza del Brahman si consegue allorché si cessa di identificarlo con quanto è altro da lui: non è necessario attingere l’identità con esso, poiché questa sussiste di già: tale identità con esso appartiene a ciascuno, ma appare in rapporto ad altro […]. Quando cade l’identificazione con altro, rimane che si è il Sé, il che è detto affermando che si conosce Se stessi. Ma il Sé, essendo inattingibile da qualsiasi mezzo di conoscenza, è in verità inconoscibile[45].

Come il linguaggio in generale presuppone quella molteplicità che contraddice il nucleo della dottrina del Kevaladvaita, così la stessa çruti, la scrittura sacra, i Veda , le Upanishad ecc., in quanto materiati di parole, assolvono una funzione provvisoria. Se, a un determinato livello, “l’ignoranza circa il Sé è rimossa dalla conoscenza che sorge dall’insegnamento  dei testi autorevoli[46], in prospettiva assoluta “non essendoci legame, non può esservi neppure liberazione, sicché i testi autorevoli non hanno senso[47].

Secondo Plotino “bisogna che i miti, se sono davvero tali, separino nel tempo le cose che raccontano e distinguano gli uni dagli altri molti esseri che si trovano insieme e sono distinti soltanto per grado e potenza: perfino certi ragionamenti [di Platone, nel Timeo] parlano di generazioni di cose ingenerate e distinguono esseri che stanno assieme. Ma i miti, dopo aver istruito secondo le loro possibilità, permettono a chi li ha compresi di riunire le parti”[48].

Il linguaggio, intriso di miti, è segno di una deficienza. “[L’anima] vede in silenzio ciò che esprime: ciò che essa ha espresso una volta, non l’esprime più, ma ciò che essa esprime, lo esprime per sua deficienza, in quanto ricorre alla ricerca per imparare ciò che già possiede[49]. Si pensi, allora, all’importanza dei gesti e del silenzio nella relazione con il guru in ambito hindu e si confronti il seguente passo di Plotino: “Anche quaggiù noi riusciamo a comprendere spesso persino chi tace, da un semplice sguardo”[50].

L’Uno senza secondo è, per tutto questo, necessariamente ineffabile (àrrheton)[51]. Non essendo ciò di cui si possa parlare, non essendo neppure qualcosa che per definizione si possa intendere o pensare[52], Plotino deve indicarlo per mezzo di immagini di cui non si stanca mai di denunciare l'insufficienza, quali uno o bene o principio o origine (arché) o, perfino, (autò). “Forse anche il nome uno non è altro che la negazione del molteplice [...]. Se l'uno, sia come nome che come cosa designata, avesse un senso positivo, esso sarebbe meno chiaro che se non gli si desse alcun nome”[53]. “Qualora questo indivisibile assoluto dovesse dire (ciò che è) se stesso, dovrebbe in primo luogo dire le cose che non è: in tal modo, per essere uno, sarebbe anche molti. Se dicesse ‘sono questo’ e con ‘questo’ intendesse qualcosa di diverso da sé, direbbe il falso; se invece intendesse qualcosa di accidentale, direbbe di essere molti oppure direbbe ‘sono sono’ e ‘io io’”[54]. “Poiché nulla possiamo dire di lui […] dentro i limiti del possibile cerchiamo di dare, così fra noi, un cenno su di lui”[55].

Il Sé è, a rigore, al di là sia della conoscenza, sia della non conoscenza, come afferma Çankara: “Il conosciuto è tutto ciò che è manifestato, ossia ciò che può essere conosciuto in qualche parte, in qualche modo e da qualcuno. Il Brahman è altro dal conosciuto. E’ dunque ciò che non è conosciuto? […] In risposta è detto: è al d là di ciò che non è conosciuto, ossia al di là del contrario del conosciuto […]. Ora non c’è che il proprio sé che possa essere altro sia dal conosciuto [perché non è mai oggetto, ma solo soggetto di conoscenza], sia dal non conosciuto [perché ne faccio pur sempre esperienza]: dunque il Sé è il Brahman[56].

 

Se il linguaggio, il ragionamento, lo stesso dialogo tra maestro e discepolo presuppongono quella dualità che vorrebbero trascendere, la sola “via” per la conoscenza che rimanga può essere quella dell’esperienza personale, che è anche la sola legittimazione possibile dell’autentico magistero. “Solo la conoscenza impartita da coloro che hanno fatto esperienza dell’essere è efficace, nessun’altra”[57].

Se le cose stanno in questi termini, possiamo davvero pretendere di effettuare confronti tra “filosofie” di diverse longitudini, come quelle in questione, concependole come sistemi concettuali internamente coerenti, per sorprenderne contraddizioni interne e/o reciproche? Ancora più radicalmente: a quale titolo la nostra scienza, fatta essenzialmente di informazioni e inferenze, può essere considerata sufficiente alla comprensione e al confronto di parole, testi, dottrine la cui intelligenza esige, per loro stessa avvertenza, ben altra esperienza? Non rischiamo di “riconoscere” analogie, differenze, apporti, scambi, identità di concetti solo là dove ce li mettiamo noi, guidati dall’ambiguità dei termini e delle loro traduzioni, irretiti dal linguaggio e dai suoi idola di baconiana memoria?

Un confronto tra queste dottrine, sollecitato dai pochi spunti che ci hanno guidato e i cui risultati abbiamo offerto su queste pagine, può essere solo occasione, come si diceva, per riprendere le fila di un filosofare “in proprio”, di cui testi e contesti attraversati costituiscano, certo, la provocazione maieutica, ma dei cui esiti dialettici e problematici possiamo essere responsabili solo noi stessi. Essi saranno tanto più validi quanto maggiore sarà la consapevolezza che abbiamo raggiunto e quanto maggiore sarà la nostra capacità di suscitare in altri l’analoga.

Oltre - per quanto sia banale ripeterlo, è sempre forte la tentazione di dimenticarselo - si apre lo spazio di un’esperienza radicale, affidata a una ricerca che non può essere, costitutivamente, soltanto intellettuale. Del resto, finché a questa ci limitiamo, di tale ulteriorità ci ricordano le continue aporie in cui non cessiamo di imbatterci.

è noto che i maestri di tutte le tradizioni possono solo indicare la strada che ciascuno deve poi percorrere con le proprie gambe. Concludiamo, allora, questo contributo con una rassegna delle “indicazioni stradali” dei maestri di cui abbiamo, sin qui, seguito le orme. Esse sono altrettanti inviti a ripercorrere da se stessi, senza più appoggiarsi alle parole o ai concetti, la scala di Giacobbe dei “punti di vista” sull’Uno. E ciò allo scopo di conseguire, da ultimo, quel punto di vista dell’Uno che - secondo la celebre immagine proposta da Niccolò Cusano - coincide necessariamente con ogni altro punto dell’infinita circonferenza del tutto, della quale è, anche, il centro.

 

Per passare dal punto di vista del relativo a quello dell’Assoluto il Vedanta suggerisce il metodo vichara o della distinzione[58], di cui, nel nostro tempo, è stato maestro Ramana Maharshi quando invitava a domandarsi ostinatamente “Chi sono io?”. Lo scopo di questa indagine non è quello di andare altrove o di scoprire cose diverse da quelle che sono, ma solo quello di trasformare il proprio sguardo: “Trasformando la visione ordinaria in una visione di conoscenza, si deve guardare al mondo come al Brahman[59]. Analoga la situazione in ambito greco, nel solco della tradizione ispirata all’imperativo di Apollo: “Conosci te stesso”. “Iniziando questa ricerca, noi obbediamo al precetto del dio che ci comanda di conoscere noi stessi. Se vogliamo cercare e trovare ogni altra cosa, è giusto che ricerchiamo chi è colui che ricerca”[60]. “Bisogna credere certamente che alcuni antichi e fortunati filosofi abbiano scoperto la verità. Giova però esaminare chi mai l'abbia veramente raggiunta e in che modo anche noi possiamo riconoscerla[61]. “Eraclito, che ci invita alla ricerca [...], ci ha offerto immagini, ma non si è curato di renderci chiaro il suo lògos, forse perché bisogna che ciascuno cerchi da sé, come egli stesso aveva trovato cercando”[62].

Se non si tratta di andare da qualche parte, ma solo di conoscere se stessi, la ricerca deve avere carattere di spoliazione, di purificazione. Ma non allo scopo di negare tutto, bensì proprio in quello, letteralmente, di scoprirlo. “Se appartenessero a qualche cosa altra da sé, a che cosa servirebbero le qualificazioni negative a partire da ‘non grossolano’, dal momento che tale ipotetica cosa non sarebbe conoscibile? Se invece si tratta di sé, allora grossolanità, ecc., sono negate di sé. Sappi pertanto che il significato della çruti ‘non grossolano’ ecc. è la negazione di ciò che ci è erroneamente aggiunto; se ciò fosse negato d’altro che se stessi, ne risulterebbe una descrizione di nulla”[63]. “Essendo il sommo Brahman la sola cosa, è impossibile che la liberazione sia qualcosa di meramente negativo, un venire meno di legami come quando i ceppi sono spezzati […]. Non vi è altra cosa ad essere legata, la cui liberazione dai legami, come da ceppi, possa essere riconosciuta come liberazione”[64].

In Plotino il movimento è analogo: “Tu eri già tutto, ma poiché qualche cosa ti si è aggiunta in più del tutto, tu sei diventato minore del tutto per questa aggiunta stessa. Tale aggiunta non aveva nulla di positivo (infatti che cosa si potrebbe aggiungere a ciò che è tutto?), era interamente negativa. Chi diventa qualcuno non è più il tutto, gli aggiunge una negazione. E ciò dura finché non si scarti tale negazione. Dunque, il tutto ti sarà presente [...] Non ha bisogno di venire per essere presente. Se non è presente, è perché tu ti sei allontanato da lui. Allontanarsi, non significa lasciarlo per andare altrove, poiché è lì; ma è voltargli le spalle quando è presente[65].

“Chi vuol conoscere la sua natura deve batter via le cose aggiunte”[66]. “Anzitutto elimina il corpo dall'uomo, e perciò anche da te stesso; elimina poi anche l'anima che lo plasma e, insieme, la sensibilità, nonché le passioni e le ire e le altre futilità che ci fanno piegare verso ciò che è mortale. Quello che rimane è ciò che noi abbiamo chiamato immagine dell'intelligenza”[67]. “Uno è divenuto intelligenza quando, abbandonate le altre […] cose che gli appartenevano, guarda l'intelligenza, cioè guarda se stesso per mezzo di se stesso. Egli è dunque intelligenza e vede se stesso”[68]. “Quando l'anima riesca a raggiungerlo ed egli venga a lei, o meglio, le manifesti la sua presenza [...] allora essa lo vede apparire improvvisamente in sé: […] essi non sono più due ma una cosa sola”[69]. “L'anima […] spegnendo ogni conoscenza, […] spegnendo altresì la conoscenza di se stessa, deve abbandonarsi alla contemplazione di lui”[70]. Plotino parla, in immagine, di uno stare fuori di sé (èkstasis), di una semplificazione (àplosis), di una fuga da solo a solo[71].

L’intuizione che soggiace a questi “reportages” dello spirito ha sostenuto, come si sa, in ambito cristiano, la tradizione mistica, che infine è rifluita nella sintesi filosofica schellinghiana: “Non è affatto possibile una conoscenza condizionata di un incondizionato[72]. “Quelli che vogliono giungere all’idea dell’Assoluto attraverso la descrizione che ne dà il filosofo cadono necessariamente in errore”[73]. Ancora: “La filosofia non ha tanto lo scopo di dare all’uomo qualcosa, quanto piuttosto di separarlo, per quanto possibile, da tutto quanto gli proviene dal contingente”[74].

Il solo che può conoscere il Sé è lo stesso Sé, mediante Sé. Naturalmente tutto questo ci può essere illustrato solo per immagini. “Per la sua illuminazione un lampo non ha bisogno di un altro lampo per brillare”[75]. “In quell'istante bisogna credere di aver visto, quando l'anima coglie, improvvisamente, la luce. Poiché questa luce proviene da lui (autòs, Sé), o meglio è lui stesso. In quell'istante bisogna credere che egli sia presente, allorché, come un altro dio, avvicinandosi alla casa di chi lo ha invitato, lo illumini; e se non si avvicina, non lo illumina. è così: un'anima non illuminata è priva di Dio; ma se è illuminata, possiede ciò che cercava. Questo è il vero fine dell'anima: toccare quella luce e contemplarla mediante quella luce stessa, non con la luce di un altro, ma con quella stessa con la quale essa vede. Poiché la luce, dalla quale è illuminata, è la luce stessa che essa deve contemplare. Nemmeno il Sole si vede mediante una luce diversa. Ma come questo può avvenire? Elimina ogni cosa.”[76]

 

 



[1] Parmenide, Sulla natura, fr. 3 (Diels-Kranz), v. 3.

[2] Ivi, fr. 8, vv. 3-6.

[3] Ivi, fr. 8, vv. 38-39.

[4] Zenone, fr. 26 in Aristotele, Fisica, VI, 239b14.

[5] Cfr. Platone, Parmenide, 142b ss.

[6] Cfr. Platone, Sofista, 238a-239a.

[7] Cfr. G. Pasqualotto, “Simplegadi”, I, 1, 1996, p. 5.

[8] Cfr. P. Hadot, tr. Esercizi spirituali e filosofia antica, Torino, Einaudi 1988.

[9] Immediato il parallelismo con la distinzione spinoziana tra la visione sub specie aeternitatis e quella sub specie societatis.

[10] Possiamo ricordare al riguardo l’acuta osservazione di Hofstadter, citata nello scorso numero di questa rivista, secondo la quale di quelle che la logica formale considera tecnicamente contraddizioni non è possibile propriamente fornire alcun esempio empirico, che non possa essere altrimenti risolto (cfr. D. Hofstadter, Gödel, Escher, Bach, tr. Milano.1984, pp. 193 ss).

[11] Cfr. Aristotele, Metafisica, V, 3, 1005b11 ss.

[12] Çankara, Bhahmasutrabhashya, 1, 1, 11 [Ascriviamo a Çankara convenzionalmente tutti gli scritti che gli sono attribuiti, essendo le questioni relative alla loro paternità affatto indifferenti all’ordine di considerazioni svolte in questo contributo]

[13] Çankara, Vivekacudamani, 388.

[14] Çankara, Bhagavadgitabhashya, 13, 2, 16

[15] Çankara, Dashashloki, st. 7.

[16] Çankara, Mandukya Karika bhashya, 3, 19.

[17] Çankara, Manishapancakam, 1.

[18] Plotino, Enneadi, III, 8, 6, 15. Cfr. anche V, 1, 12, 5.

[19] Plotino, Enneadi,III, 8, 8, 1. Si confronti questa proibizione del regressus ad infinitum con quella perfettamente corrispondente attribuita a Çankara e citata poco sopra.

[20] Plotino, Enneadi, IV, 4, 2, 20

[21] Plotino, Enneadi, VI, 3, 4, 25

[22] Cfr. p.e. Plotino, Enneadi, IV, 4, 1.

[23] Plotino, Enneadi, V, I, 8.

[24] Plotino, Enneadi, V, 9, 5, 25. Su questa continuità di motivi classici in Plotino vedi W. Beyerwaltes, Plotino, Milano, Vita e Pensiero 1993, pp. 29-36.

[25] Plotino, Enneadi, III, 6, 2, 23-35.

[26] Cfr. Çankara, Comm. a Brhadaranyaka Upanishad, 2, 5, 19.

[27] Plotino, Enneadi, IV, 8, 7, 13-18.

[28] Schelling, Ricerche sulla libertà (1809), Sämtliche Werke, hrsg. K. F. A. Schelling. Stuttgart, Cotta 1856-61, vol. VII, p. 373.

[29] Chandogya Upanishad, 8, 12, 3. Per Plotino cfr. n. 22.

[30] Cfr. Plotino, Enneadi, IV, 8, 7, 15.

[31] M. Piantelli, Çankara e il Kevaladvaita, Roma, Asram Vidya 1998, p. 278.

[32] Çankara, Comm. a Taittiriya Upanishad, 2, 1.

[33] Çankara, Dakshinamurti stotra, 1.

[34] Plotino, Enneadi, IV, 3, 12, 1-4.

[35] Plotino, Enneadi, III, 6, 7, 20-25.

[36] Non può non venire in mente, al riguardo, l’episodio centrale della Bhagavad Gita, l’insegnamento di Krishna ad Arjuna: questi non potrebbe uccidere i suoi parenti, nemmeno se lo volesse, poiché non si può uccidere il Sé.

[37] Plotino, Enneadi,II, 2, 15. Sulla vita come spettacolo teatrale di cui il demiurgo è il poeta o artefice cfr. anche II, 2, 17.

[38] Cfr. Menone, 75c-d.

[39] Porfirio, Vita Plotini, 13, 15.

[40] Çankara, Comm. a Taittiriya Upanishad, 2, 5.

[41] Çankara, Comm. a Taittiriya Upanishad, 2, 8, 5.

[42] Çankara, Mandukya Karika bhashya, 2, 35.

[43] A proposito di “nascita” e “morte”, che non sono, in verità, per Empedocle, se non aggregazione e disgregazione di elementi il filosofo afferma: “Così [i mortali] dànno i nomi come è stato sancito, e a questa norma io pure acconsento [scil.: per farmi capire]” (fr. 9, v.5).

[44] Çankara, Comm. a Katha Upanishad, 1, 3, 11.

[45] Çankara, Comm. a Brhadaranyaka Upanishad, 4, 4, 20.

[46] Çankara,  Comm. a Brhadaranyaka Upanishad, 4, 4, 6.

[47] Çankara, Upadeshasahasri, 2, 16, 59.

[48] Plotino, Enneadi, III, 5, 9, 20.

[49] Plotino, Enneadi, III, 8, 6, 28-30

[50] Plotino, Enneadi, IV, 3, 18, 15.

[51] Cfr. Plotino, Enneadi, V, 3, 13; V, 5, 6, 20: “Noi siamo travagliosamente incerti sulle parole che dobbiamo adoperare e parliamo dell'ineffabile ed escogitiamo nomi con il desiderio di denominarlo, come ci è possibile, a noi stessi”. Cfr. anche VI, 9, 4, 10.

[52] Plotino arriva a dire che l'intelligenza stessa, in ossequio al principio secondo cui solo il simile può conoscere il simile, lo contempla “mediante la non intelligenza che è in lei” (Enneadi, V, 5, 8, 20).

[53] Plotino, Enneadi, V, 5, 6, 25.

[54] Plotino, Enneadi, V, 3, 10, 30.

[55] Plotino, Enneadi, V, 3, 13, 5.

[56] Çankara, Comm. a Kena Upanishad, 1, 4.

[57] Çankara, Bhagavadgitabhashya, 4, 34, 1.

[58] Cfr. Çankara, Aparokshanubhuti, 12.

[59] Çankara, Aparokshanubhuti, 116.

[60] Plotino, Enneadi, IV, 3, 1, 1. Anche il cd. non sapere socratico, come condizione di partenza della ricerca meditativa, è tematico in Plotino (cfr. V, 5, 1, 55)

[61] Plotino, Enneadi, III, 7, 1, 10.

[62] Plotino, Enneadi, IV, 8, 1, 10.

[63] Çankara, Upadeshasahasri, 2, 3, 2-3.

[64] Çankara, Comm. a Brhadaranyaka Upanishad, 4, 4, 6.

[65] Plotino, Enneadi, VI, 5, 12, 15.

[66] Cfr. Plotino, Enneadi, I, 1, 12, 10.

[67] Plotino, Enneadi, V, 3, 9.

[68] Plotino, Enneadi, VI, 3, 4, 25.

[69] Plotino, Enneadi, VI, 7, 34, 1.

[70] Plotino, Enneadi, VI, 9, 7, 15. Cfr. anche VI, 8, 21, 25.

[71] Cfr. Plotino, Enneadi, VI, 9, 11.

[72] Schelling, Filosofia e religione (1804), cit. vol., VI, p. 21

[73] Ivi, p. 21.

[74] Ivi, p. 26.

[75] Çankara, Atmabodha, 28.

[76] Plotino, Enneadi, V, 3, 17, 15-38.