È di queste settimana la discussione, sviluppata non solo nel Parlamento italiano, ma anche sui media nazionali, intorno alla proposta di legge “Cirinnà”, la quale, tra le altre cose, propone la cosiddetta step child adoption, ossia la possibilità, per il partner gay del genitore di un bambino, di adottarlo. Come in molti casi del genere, in cui sono gioco complesse questioni bioetiche, il dibattito appare l’opposto di un dialogo. Si assiste allo scontro tra schieramenti, i cui membri non sembrano affatto disposti non dico “a mettere in discussione”, ma neppure ad approfondire (auto)criticamente i presupposti da cui muovono, che assurgono in tal modo a veri e propri dogmi.
- Bisognerà pure rispondere al quesito se sia giusto che coppie gay possano adottare bambini. Tu che ne pensi?
In realtà – di qui l’insensatezza della contrapposizione ideologica tra gli schieramenti a cui facevo riferimento – si tratta di una classica questione teoreticamente indecidibile, come lo sono molte questioni bioetiche.
- Che cosa intendi per “teoreticamente indecidibile”?
Intendo che la questione può, certo, venire decisa praticamente, ad esempio politicamente e giuridicamente, ma nessuno degli argomenti che si possono recare a favore e contro l’adozione di bambini da parte di coppie gay è riconducibile a un fondamento indiscutibile o evidente.
- Ma non è questo il caso, in ultima analisi, di ogni problema filosofico? Non sei tra coloro che sostengono che, alla luce dei “tropi” degli antichi scettici, e dei celebri teoremi del matematico Goedel (che evochi a mio modo di vedere piuttosto scompostamente ), nessuna ipotesi possa essere giustificata fino in fondo?
Hai ragione. Forse ogni problema, quando viene filosoficamente discusso, si rivela in ultima analisi indecidibile, Ma per molte ipotesi è possibile pervenire a fondamenti, se non assolutamente veri, almeno riconosciuti come evidenti dai più, ad esempio su base empirica. È il caso di molte ipotesi cosiddette “scientifiche”. In campo etico, invece, fanno letteralmente “gioco” le diverse prospettive da cui si guarda alla questione, di volta in volta, sollevata. Il che non impedisce di metterla sotto la lente di ingrandimento (filosofica) di un “esame di plausibilità”.
- E nel caso in questione, se sia giusto o meno che coppie gay possano adottare bambini, come si potrebbe svolgere tale esame?
Innanzitutto, vediamo perché si tratta di una questione indecidibile. Tu come la “decideresti”?
- In primo luogo mi chiederei quale sia il bene del bambino. Ciò mi porterebbe ad escludere che coppie gay possano adottare. Secondo me un bambino ha diritto ad avere un padre e una madre, perché questa è la forma naturale della famiglia.
Distinguerei la questione del “bene” da quella della “naturalità” di una condizione. Ammettiamo che, come sostengono molti (ad esempio i cattolici, ispirati, tuttavia, in questa prospettiva, più da Aristotele che dal Vangelo), la famiglia naturale abbia le caratteristiche che tu supponi. Ciò non implica che una condizione naturale sia per forza buona.
- E perché una condizione naturale non dovrebbe essere anche buona?
Ci sono infinite condizioni naturali, ad esempio quelle che scaturiscono dell’evoluzione naturale di naturali malattie mortali, che non sono affatto desiderabili. Grazie… al Cielo, oggi l’evoluzione “culturale” (lato sensu naturale anch’essa), tanto quella delle conoscenze e delle tecniche, quanto quella più generale della civiltà, consente di debellare tali malattie. In generale l’homo sapiens, scaturito dall’homo faber, è tale perché vive non più “secondo natura”, ma “secondo cultura” e può e fa cose buone che “naturalmente” non potrebbe (o non gli verrebbe in mente di) fare.
- Già, ma non tutte le cose tecnicamente possibili sono anche moralmente lecite. Ad esempio, la produzione massiccia di ogm, la clonazione umana, l’affitto di uteri…. Ti sembra che tutte queste pratiche siano buone?
A me no, ma certo non perché queste pratiche non sono naturali.…
- E perché, allora?
Per altre ragioni, evidentemente. Ad esempio: perché potrebbero rendere infelici coloro che le esercitassero o altri che, a causa loro, le subissero. O perché potrebbero danneggiare l’ambiente…
- E, se assumiamo il criterio del “rendere felici”, come giudicare l’ipotesi dell’adozione di bambini da parte di coppie gay?
Appunto come teoreticamente indecidibile! Per valutarla a fondo, infatti, secondo il criterio della “massima felicità”, dovremmo poter “misurare” la felicità tanto dei bambini che sarebbero adottati da queste coppie, quanto quella dei loro genitori (possono esserci, infatti, bambini felici con genitori infelici e viceversa? ), e confrontare questa felicità con la felicità dei figli di coppie eterosessuali (e dei loro genitori)….
- E perché non potremmo fare proprio questo confronto?
Certo, potremmo tentarlo. Ma la “misurazione” sarebbe inesorabilmente empirica, avrebbe mero valore statistico, darebbe risultati diversi sulla base di criteri diversi, presupporrebbe una chiara nozione di “felicità” che invece manca… Insomma, non si potrebbe pervenire ad alcunché di oggettivo.
- Ma tu parlavi prima di un possibile “esame di plausibilità” delle prospettive di chi difende il diritto dei gay, quando formano coppie, di adottare bambini.
Certo, possiamo discutere, ad esempio, la sensatezza o meno della rivendicazione da parte dei gay (accoppiati) di uno specifico o “speciale” diritto alla prole.
- Se non erro alcuni, (ad esempio Neri Pollastri, nel suo blog) contestano alle coppie omosessuali, in quanto “coppie”, questo speciale diritto…
E come dare loro torto? Non si nega, infatti, a queste coppie un generico diritto ad avere figli, ma si contesta l’esistenza di un loro “diritto” specifico, in quanto coppie gay, superiore, ad esempio, a quello dei single.
- E perché glielo si dovrebbe contestare?
Partiamo dalle seguenti ipotesi: 1. anche un single (uno zio ecc.) potrebbe fare la felicità di un bambino, se lo potesse adottare (chi potrebbe negarlo, in via assoluta?); 2. esiste un “generico” diritto alla felicità (sancito p.e. dalla Costituzione americana e implicitamente riconosciuto dalla filosofia, almeno nella versione aristotelica, a ciascun essere umano in quanto tale); 3. la felicità di un genitore (anche adottivo) non sarebbe piena se non vi corrispondesse la felicità del proprio figlio e viceversa (quest’ultima ipotesi, già sopra evocata, si basa su mie riflessioni circa l’inconsistenza della contrapposizione egoismo-altruismo che – mi rendo conto -dovrebbero essere ulteriormente approfondite e discusse…).
- Ammettiamo queste ipotesi. E allora? Su queste basi mi sembra che una coppia omosessuale possa ancora rivendicare il diritto all’adozione, non meno di un single ben intenzionato (l’ipotetico “zio”, preferibilmente non pedofilo!).
Non meno, ma neppure più! In altre parole non si tratterebbe di uno specifico diritto, riferito ai gay in quanto accoppiati, ma di una legittima aspirazione dei gay semplicemente in quanto persone (dal momento che non è più naturale per una coppia gay procreare che per un single). Si può, al riguardo, evocare la sottile distinzione giuridica (tipica a mia conoscenza del solo diritto italiano) tra “diritto soggettivo” (all’adozione; da contestare, sotto questo profilo, agli omosessuali, “in quanto coppia”) e “interesse legittimo” (alla medesima adozione). Questo interesse legittimo, bada, potrebbe essere loro riconosciuto non solo come individui. ma anche come coppia che desidera “realizzarsi” adottando piuttosto che in qualsiasi altro modo (partorendo “libri”, “teorie” ecc.), con la stessa libertà e creatività di cui dànno prova, del resto, anche molte coppie eterosessuali (che, pur potendo procreare, preferiscono adottare o “procreare” teorie, come i coniugi Curie).
- Insomma la pretesa delle coppie gay al diritto all’adozione non ti sembra in alcun modo più legittima di quella dei single…
Tu che ne dici? Sarebbe plausibile che tale pretesa avesse qualche maggior fondamento? Direi di no. Se è questo quello che sostiene Neri Pollastri, nella misura in cui lo sostiene, possiamo sottoscrivere i suoi argomenti.
- Parli come se vi fossero altri aspetti delle tesi di Pollastri che ti convincono di meno.
Non ti sfugge nulla! Meno convincente mi sembra la sua teoria secondo la quale una coppia eterosessuale si costituirebbe originariamente al fine di procreare, soprattutto se tale teoria pretende di fondarsi su dati culturali piuttosto che naturali. Come lo stesso Pollastri riconosce, tale fine va, infatti, inteso anche metaforicamente (come nell’esempio dei coniugi Curie). Ma, se così è, allora – contro quello che Pollastri vorrebbe dimostrare – anche una coppia omosessuale si potrebbe legittimamente dare il fine di adottare bambini (che non è che una “metafora” della procreazione). Si tratterebbe di un modo come un altro di rendere felici i “figli degli altri”, come lo stesso Pollastri si esprime.
- Va beh… Comunque, se anche le coppie gay avessero formale accesso all’adozione, vi sarebbero comunque criteri di “priorità” (disponibilità economica della coppia ecc., ma, perché no, l’essere o meno eterosessuale, ossia “tradizionale”) per assegnare gli adottandi, criteri che potrebbero vedere tali coppie svantaggiate (come vedrebbero svantaggiati i single). Anzi, per la relativa “scarsità” di adottandi in rapporto a chi fa richiesta di adozione, ciò potrebbe comportare l’esclusione di fatto dei gay (come dei single) dall’adozione!
Senz’altro. Ciò soddisferebbe le esigenze di coloro che, come sembravi ritenere tu poco fa, considerano più naturale per un bambino avere un padre e una madre invece che due genitori dello stesso sesso.
- Ma non ti scandalizzerebbe questa esclusione di fatto?
No, se essa derivasse da criteri storico-empirici volti a garantire la massima felicità possibile di tutti e il successo dell’adozione. Anche coloro che non conferiscono particolare valore alla “natura” e considerano che siamo ormai solo principalmente il frutto della nostra “cultura”, ammettono generalmente che le nostre società non sono ancora pronte a consentire ai bambini che abbiano genitori dello stesso sesso (come pure un solo genitore) di condurre una vita mediamente altrettanto felice di quella condotta dai bambini adottati da famiglie “normali”…
- È questo il senso in cui, all’inizio, dicevi che la questione dell’adozione di bambini da parte di coppie gay, in sé teoreticamente indecidibile, potrebbe venire “decisa praticamente, ad esempio politicamente e giuridicamente”? Si potrebbe, per esempio, ammettere in via di principio il diritto all’adozione da parte di queste coppie, salvo poi escluderla nei fatti, introducendo stringenti criteri di priorità nella selezione dei potenziali genitori adottivi?
Potrebbe essere una soluzione, così come, in circostanze differenti, si potrebbe tanto escludere del tutto la step child adoption, quanto autorizzarla e, perfino, incoraggiarla. Proprio l’interesse dei bambini o, vorrei dire, l’amore per loro, dovrebbe suggerire non di farne una questione ideologica, ma di ricercare con pazienza (attraverso studi e ricerche il più possibile spassionati e “oggettivi”) quello che potrebbe essere per i bambini il loro “meglio” (che spesso, come per tutti, assume il volto non dell’ “ottimo”, ma del “male minore”). Nella consapevolezza dell’opinabilità degli stessi presupposti teorici delle diverse prospettive anche scientifiche (per esempio pediatriche, pedagogiche ecc.) in gioco. E nella consapevolezza che non si dà felicità di un “vero” genitore che non risuoni (morfogeneticamente?) con la felicità del suo bambino e viceversa….
Questo tuo atteggiamento ricorda quello di Ponzio Pilato. Di fatto, così dicendo, tu te ne lavi le mani e rinvii una scelta etica, giuridica e politica di fondo a non meglio precisate ricerche di psicologia empirica…
Scusa per l’incursione nel tuo blog, Giorgio, ma sono veramente stupito da quanto scrivi (assumo per scontato che la forma del dialogo sia una scelta espressiva e quindi attribuisco interamente a te quanto leggo). Anzitutto sono esterefatto dalla scelta dell’argomento: una lettura anche sommaria del disegno di legge Cirinnà dovrebbe portare a riconoscere come nocciolo teoretico non la step child adoption, bensì il superamento del concetto tutto culturale di «famiglia» a favore del concetto, altrettanto culturale ma più storicamente fondato, di «unione».
I due schieramenti, che tu ritieni dogmatici ed ideologici, hanno in realtà posizioni teoreticamente ben distinte. L’uno sostiene la naturalità della famiglia (intesa come madre + padre + eventuali figli), l’altro sostiene la sua assoluta innaturalità, il suo carattere culturale, quindi dipendente dalle epoche. La posizione di terzietà che tendi ad assumere nel tuo intervento non pare fondata. Ti dimostri in realtà molto vicino al primo schieramento, quando affermi: «secondo me un bambino ha diritto ad avere un padre e una madre, perché questa è la forma naturale della famiglia».
Dove trovi questa forma naturale? Non c’è bisogno di leggere Platone o Aristotele. Chiedi agli aborigeni o ad una popolazione del Borneo cos’è la famiglia: ammesso che ti capiscano, probabilmente la tua domanda li farà sorridere. Ma guarda anche la nostra società: ormai di questa forma «naturale» si trovano poche tracce. Di naturale c’è solo una madre che mette al mondo un bambino.
Ma veniamo pure alla step child adoption. Che ragionamento fa il Legislatore (ammesso che questa legge passi, come è molto probabile) riconoscendo al/alla partner gay di un genitore / di una genitrice il diritto di adottarne il figlio? Sgombriamo anzitutto il campo dai fraintendimenti: la felicità non c’entra. Due eterosessuali possono essere in linea di principio pessimi genitori quanto due omosessuali, senza che la cosa sia giuridicamente significativa. Il diritto alla felicità dell’adottante sarebbe comunque giuridicamente subordinato al diritto alla felicità dell’adottato.
Nella prassi si possono dare due casi:
a) coppia lesbica in cui una delle donne è la madre naturale del bambino. In questo caso il padre non lo troverai mai. La madre (fecondata da un uomo o artificialmente) può dirti che si è fatta mettere incinta da uno sconosciuto incontrato in discoteca, senza che questo ne infici lo statuto di madre.
b) Coppia omosessuale che, ricorrendo all’estero alla maternità surrogata (il cosiddetto «utero in affitto»), riesce ad avere un figlio. In questo caso, per la verità statisticamente molto remoto, il padre è uno dei due uomini e non saprai mai chi è la madre.
In entrambe le situazioni abbiamo un unico genitore. Se questo muore, il bambino viene prelevato e dato in adozione a chi ne fa richiesta. Il Legislatore riconosce invece valore al contesto di unione in cui il bambino si è fino a quel momento sviluppato, ravvisandone una continuazione nel partner non genitore. Ciò facendo ritiene di tutelare lo sviluppo del bambino (a meno che, ovviamente, non vi siano condizioni ostative, ma queste sussistono anche per le coppie eterosessuali). A me sembra un principio teoreticamente e giuridicamente fondato.
Quando ne avrò occasione – perché al momento sono in aspettativa – chiederò al tuo collega di consulenza filosofica Zampieri se la pensa come te.
Caro Luca, piacere risentirti.
Due precisazioni innanzitutto:
1. Non ho mai pensato che la “stepchild adoption” fosse il cuore della “legge Cirinnà”. Soltanto: ho preso a pretesto la centralità che questo tema ha acquisito nel dibattito massmediatico per proporre la riflessione dialogata che hai letto.
2. Hai ragione ad attribuirmi la paternità di alcune affermazioni fatte nel dialogo. Ma la tesi della “naturalità” della famiglia eterosessuale, se leggi con attenzione, è “partorita” dal mio interlocutore immaginario, non da me. L’ho introdotta al solo scopo di smontarla o, comunque, di svilupparla in termini di “ammesso e non concesso”, per vedere dove essa poteva condurre.
Sono d’accordo con te che il Legislatore con la “stepchild adoption” vorrebbe tutelare i minori, garantendo una certa continuità nell’accudimento, nel caso di morte del loro genitore naturale, consentendo al “partner gay” del genitore morto di adottarli.
Il problema è che pochi, a me pare, si sono concentrati sulla questione se sia meglio che i bambini (per il loro bene) continuino a vivere con questo genitore “adottivo” o altrimenti, per brandire ideologicamente il concetto di “natura” o, anche, quello di “cultura”.
Converrai che non tutto ciò che è tecnologicamente possibile e culturalmente accettato da qualcuno (per esempio la diffusione massiccia di cibi ogm o la clonazione umana) è anche desiderabile.
Se si dimostrasse, ad esempio, che bambini “stepchild-adopted” trovassero difficoltà insormontabili a integrarsi in una società mal disposta nei loro confronti, si dovrebbe riflettere molto pragmaticamente se sia il caso o meno di introdurre un automatismo nella “stepchild adoption” piuttosto che, ad esempio, consentire a un giudice di effettuare le sue valutazioni caso per caso (considerando – poniamo – il concreto legame affettivo maturato in seno al nuovo modello di famiglia ecc.).
Tendenzialmente inclinerei a credere che, in Italia, forse un automatismo potrebbe essere preferibile della discrezionalità di un giudice e anche a credere che forse sarebbe preferibile “forzare” culturalmente, consentendo queste adozioni, anche se i bambini in determinate aree del Paese o presso determinati ceti dovessero “sul momento” soffrirne socialmente.
Ma questa mia “credenza” resta tale (come le credenze altrui), in assenza di studi empirici adeguati sul tema, che pochi hanno recato per suffragare le rispettive argomentazioni (almeno a livello di dibattito massmediatico).
Ciao Giorgio, ho ben compreso l’andamento del dialogo: ancora qualcosa rimane della formazione filosofica. La mia critica è casomai che, volendo assumere la tesi del tuo immaginario interlocutore (naturalità della famiglia) per smontarla, finisci in realtà per legittimarla, seppur in modo residuale. Invece di minarla alla radice (la famiglia non è naturale), sposti il ragionamento su: a) se una cosa naturale o culturale sia anche buona; b) come si crea la felicità.
Prescindiamo dal dibattito mediatico: il solo fatto di assumere queste problematiche in una prospettiva filosofica implica il riconoscimento di una loro dignità al di là dei media e delle stesse posizioni delle forze politiche. Quindi lo sforzo dovrebbe essere quello di cogliere il nocciolo teoretico della questione.
In riferimento ai figli di un genitore gay non mi convince il ragionamento «non tutto ciò che è tecnologicamente possibile e culturalmente accettato da qualcuno è anche desiderabile». Il dato di fatto è che ci sono e continueranno ad esserci questi bambini: essi sono naturali, almeno nel senso che la vita è naturale. Dunque, a meno che tu non ti voglia porre in termini prescrittivi (che ne facciamo: li eliminiamo?), siamo logicamente oltre la prospettiva della desiderabilità.
Tu chiami in gioco il diritto alla felicità con esplicito riferimento alla Costituzione statunitense (anche se, per la verità, si tratta della Dichiarazione d’indipendenza). Questo ti porta a chiederti se qualcuno debba giudicare o meno quanto il bambino sia o possa essere felice ed a rimandare in definitiva a studi empirici capaci di determinare il grado di felicità. Con questo criterio non sarebbe passato nemmeno il primo emendamento alla Costituzione statunitense: saremmo ancora qua a chiederci se uno schiavo reso libero potrebbe soffrire della sua libertà in una società ostile. Le leggi, anche quelle fondamentali, non creano la felicità. Esse nel migliore dei casi cercano di stabilire le condizioni in cui la felicità può darsi, fermo restando che la felicità dipende da molteplici fattori e si può essere infelici anche nella società più democratica del mondo.
Considero il disegno di legge Cirinnà, in questo e in molti altri suoi aspetti, adeguato da punto di vista storico-culturale (senza voler riproporre, ovviamente, nessuna filosofia della storia).
Vedo che il confronto sul tema ti appassiona e, soprattutto, godo nel vedere che ti appassiona forse ancora di più il fatto di trattarne filosoficamente o teoreticamente.
La discussione davvero intrigante di che cosa sia il “nòcciolo teoretico” di una questione, ammesso che qualcosa del genere “esista”, ci porterebbe, tuttavia, un po’ lontano (vi si dovrebbe dedicare un articolo apposito, se non un intero trattato!).
Basti dire che non credo che il filosofo abbia il compito di cogliere, definire e argomentare “per primo” questo ipotetico “nòcciolo” (magari su basi storico-culturali, dall’alto della sua “formazione accademica” o “scientifica”), ma piuttosto che, mettendo in luce socraticamente le aporie delle diverse “tesi” avanzate al riguardo (da chicchessia, meglio se da un proprio interlocutore in carne e ossa nel contesto, ad es., di una consulenza filosofica), egli debba piuttosto avvicinare l’ascoltatore, il lettore o… se stesso a qualcosa come un'”insight” (o, se preferisci, a un’azione. un gesto), non altrimenti giustificabile. In estrema sintesi credo che il compito della filosofia sia un compito essenzialmente catartico, decostruttivo…
Venendo alle tue puntuali osservazioni.
Certo, i bambini ormai sono nati e ormai vivono in quel determinato contesto “familiare” (ma è davvero tale?). La questione, ovviamente, non riguarda l’eventuale “soppressione” dei bambini medesimi, ma soltanto la loro migliore “collocazione”, la stessa di prima (dunque, viva la “stepchild adoption”!)….”verosimilmente”, ma anche “necessariamente”?
Al criterio vagamente benthamiano (per parlare dottamente) della massima felicità (certo, difficile da rendere davvero operativo, come nel post originario riconoscevo) tu, evocando il caso dello “schiavo”, sembri contrapporre un criterio legato al “diritto” soggettivo (in termini dotti e se si potesse porre la questione su un piano esclusivamente etico: a un criterio eudemonistico un criterio deontologico): per lo schiavo il diritto di fruire, in quanto essere umano, della libertà personale; per il bambino il diritto di continuare a godere della cura del “compagno del proprio genitore naturale”.
Ma si tratta di due “diritti” equivalenti?
I minori sono per definizione bisognosi di “tutela” al punto che per garantire i loro diritti fondamentali a volte sono “tolti” alle stesse famiglie naturali e affidati ad altri.
La vera domanda quindi è se il fatto di affidare il minore al compagno del genitore naturale (magari scomparso), piuttosto che ad altri, sia la soluzione migliore anche sotto il profilo della tutela dei loro diritti (se non accetti il criterio eudaimonistico).
Risorge quindi la domanda di che cosa faccia di una “famiglia” una famiglia giuridicamente, oltre che socialmente, riconosciuta e capace di assolvere la propria funzione in rapporto ai minori che le sono affidati, ammesso e non concesso che il minore abbia il diritto di averne una “intera” (e non possa accontentarsi dell’ipotetico “zio” a cui facevo riferimento nel post originario).
Ammettiamo che la questione – su questo sembriamo abbastanza d’accordo – sia più “culturale” che “naturale”.
Ma questo non risolve affatto il problema, dal momento che la cultura ad esempio “cattolica” è molto influente e nega ciò che altre espressioni della “cultura” viceversa affermano riguardo a “che cosa una famiglia (capace di far crescere minori) sia”.
“Buttarla nel giuridico”, ossia farne una questione di “diritti” mi sembra che rischi, in realtà, di avvitare la questione su se stessa, tautologicamente, in assenza di criteri extragiuridici (come quello eudaimonistico, ma sono aperto a ogni altra ipotesi…) per riconoscere e assegnare i diritti in questione.
Se consenti, rispondo per punti.
1) «… mettendo in luce socraticamente le aporie delle diverse “tesi” … consulenza filosofica … compito essenzialmente catartico, decostruttivo»
Vedi, questo è proprio l’atteggiamento che mi lasciava interdetto nel tuo primo intervento – in cui in realtà non riuscivi a decostruire nessuna tesi – e che ritrovo spesso in voi della consulenza filosofica. Il compito catartico-decostruttivo presuppone un piano “altro” rispetto a quello dell’interlocutore, se non altro per l’intenzione di condurre il ragionamento verso lo svelamento di aporie. Ma questa alterità come viene raggiunta? Il tuo collega Zampieri concepisce perfino una consulenza filosofica che aiuterebbe a vivere meglio … una bella pretesa! E, poi, fondata su che cosa?
Non ti pare, inoltre, che tutto ciò sia un po’ noioso? Non è meglio calarsi nel mondo ed affrontare le sue sfide, come per esempio quella di cui stiamo qui discutendo e che attraversa potentemente da settimane l’intera cultura italiana?
2) «tu, evocando il caso dello “schiavo”, sembri contrapporre un criterio legato al “diritto” soggettivo … a un criterio eudemonistico un criterio deontologico)»
Certo che il criterio è deontologico: viene riconosciuto il diritto del bambino a svilupparsi in modo armonico e si ravvisa come contesto di sviluppo armonico l’unione (non necessariamente la famiglia) in cui il bambino, per le ragioni e nei modi più diversi, è venuto a trovarsi. Nel caso di un bambino con un solo genitore e qualora il genitore muoia, si riconosce nel partner sopravvivente la continuazione di quel contesto di unione. Principio sesto della Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo: il fanciullo «deve, per quanto possibile, crescere sotto le cure e la responsabilità dei genitori e, in ogni caso, in atmosfera d’affetto».
3) «I minori sono per definizione bisognosi di “tutela” al punto che per garantire i loro diritti fondamentali a volte sono “tolti” alle stesse famiglie naturali e affidati ad altri.»
Questa supervisione dello Stato continuerebbe a sussistere. Ma essa entra in gioco, anche per le famiglie, qualora vengano meno in modo accertato le condizioni per lo sviluppo armonico del bambino. Non opera alla fonte, ma ex post.
4) « Ammettiamo che la questione sia più “culturale” che “naturale” … Ma questo non risolve affatto il problema, dal momento che la cultura ad esempio “cattolica” …»
Non dare per scontata l’unitarietà del mondo cattolico: leggiti per esempio la lettera sul Cirinnà dei 132 dirigenti scout ai vertici dell’Agesci.
Ciò detto, non mi nascondo dietro ad un dito. Gli orientamenti culturali sono diversi, ma bisogna con coraggio scegliere, privilegiare quello prevalente. Per tornare all’esempio del primo emendamento alla Costituzione statunitense: non solo molti repubblicani, ma anche molti democratici erano contrari all’abolizione della schiavitù. Chi ha fortemente voluto quell’emendamento (soprattutto Lincoln) ha ritenuto però che i tempi fossero culturalmente maturi, compiendo un passo fondamentale nella storia dell’umanità.
Caro Luca Manfrin, leggo solo ora le sue risposte al “dialogo” e sono d’impulso spinto a segnalarle, pur così tardivamente, la mia piena condivisione per le sue osservazioni chiarissime efficaci e appassionate.
È una grande soddisfazione incontrare, nella casualità del girovagare on line, spunti di riflessione che aiutano e rasserenano
Mille grazie
Riccardo Gramatica