Udine, 24 febbraio 2001

La filosofia come pratica di vita e di linguaggio

di Giorgio Giacometti

 

A ciascuna affermazione corrisponde, sempre, da qualche parte, una negazione.
Scrivo "da qualche parte" e non "altrove" per suggerire l'idea che l'"altra scena" non sia tanto un altro determinato luogo, quanto alcunché di indeterminato. (A meno che non sia stata tutta un equivoco la critica mossa in punta di piedi da Derrida a Lacan, nel Fattore della verità, e la correlativa nozione di "disseminazione").
Ma c'è di peggio. Affermare è sempre anche mentire, ingannare, ingannarsi sul conto di. Che cosa significherebbe altrimenti quel famoso "nichilismo" che proviene a noi, creature del XXI secolo, da Nietzsche, Freud, Lacan? Non gli si può, infatti, imputare l'assenza dei valori del nostro tempo, che si può piuttosto imputare all'ignavia del relativismo. (Si tratta di quell'indifferentismo che la Chiesa, come tutti gli altri ismi con cui essa ama etichettare le eresie del nostro tempo, avrebbe ragione di riprendere, se queste "essenze" fossero qualcosa, qualcosa di determinato e di imputabile a qualcuno). I maestri del sospetto ci hanno lasciato in eredità ben altro: l'impossibilità di misconoscere nel dire umano (non in quello divino) la volontà di menzogna che lo promuove, sempre. Ma con ciò - detto senza alcun sordido ammiccamento verso l'ultimo dio, il celebre asino ragliante di Così parlò Zarathustra - proprio per coloro per i quali non è data più speranza, sembra lecito sperare (Benjamin). Perché essi sono nel margine.
Socrate ha reso testimonianza al fatto che una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta. La ricerca della sapienza, la filo-sofia, implica quel tanto di non sapere da cui essa possa trarre il proprio alimento. Che non è se non il respiro del desiderio che ci muove. La nostra anima. Ora, di che cosa ha testimoniato propriamente Socrate, senza poterlo mai, ovviamente, dire? Che la sapienza non consiste se non, paradossalmente, nella ricerca della sapienza. Certo, non nella scimmiottatura hegeliana di una filosofia divenuta sistematicamente sapere, assoluto. Ma proprio nel contrario. E' il buco collocato là dove dovrebbe altrimenti trovarsi il fine / la fine della ricerca. Si tratta, beninteso, di un buco trascendentale, essendo condizione di possibilità della vita come ricerca.
Che cos'è stato, ora, questo nichilismo se non uno sturamento? Il buco del desiderio umano è stato sturato. Ho scritto "sturato", non "suturato", né "saturato". L'incrostazione dell'immaginario lo otturava. Se ne accorse uno che parlava la stessa lingua che parliamo noi, ironizzando sulle magnifiche sorti e progressive del suo secolo superbo e sciocco. Chiacchiera può dirsi, a rigore - e sia pure il rigore del gergo dell'autenticità - , la parola di chi finge di ignorare che si cammina sul margine del precipizio in cui Empedocle si gettò. Ma chi non chiacchiera parla con rigore. Non si può confondere la diffusa confusione dei valori con la loro radicale eversione/sovversione genealogica: operazione di verità, cioè di precisione, di microchirurgia.
La filosofia dei filosofi di pro-fessione, cioè che ne parlano, e ne parlano ex cathedra - da una giusta distanza, cioè, dalla verità - è quasi un sogno, il sogno di un solitario. Non è del tutto masturbazione per il fatto che vi si istituisce una relazione con coloro che ascoltano, che non sono soltanto figure in movimento, ma "persone" (cioè maschere del proprio desiderio). Ciò che la rende onirica è piuttosto il setting. L'architettura dei luoghi dove si svolge e il gioco dei ruoli di chi vi partecipa ne fanno, appunto, un gioco, non dissimile da quello della religione e della politica. In ciò la filosofia dei pro-fessori non sarebbe meno filosofia, se la filosofia stessa, come pratica libera e gratuita, fine a se stessa, effetto del desiderio piuttosto che del bisogno (Aristotele), è gioco. Ma, come gioco del desiderio di un essere umano, essa è quel gioco di cui non v'è nulla di più serio. Nondimeno il "fondamento ridicolo del sistema hegeliano" continua a produrre i suoi cloni (e a mietere le sue vittime).
Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche... Dati i loro pessimi rapporti con l'accademia, essi tentarono, talora in modo buffo, di fare qualcosa di serio, di inattuale: vivere secondo ragione. Sembra un problema di coerenza (morale). Invece è un problema di verità. Esso scaturisce dal sospetto, di cui si diceva, che il discorso sia sempre a rovescio. La testimonianza è allora esperimento e linguaggio per dire ciò che altrimenti sarebbe stato (ancor più) frainteso.
Perché, allora, parlare di ciò di cui si dovrebbe tacere (Wittgenstein)? Perché, se si è eredi non di Parmenide, ma di Epimenide, il furbo, il Cretese, si può ben esclamare: "Io, la Verità parlo", cioè appunto mento. Il trucco sta nel mentire bene. Che non significa "efficacemente". Mentire con verità. Come si può solo vivendo. La filosofia, infatti, o è pratica di vita e di linguaggio - non desiderio di sapere, ma sapere come desiderio - o non è.
Scrivere di filosofia è contraddittorio, va scritto. Non perché vi siano dottrine che possano essere non scritte, ma perché non si può fare in alcun modo della filosofia una dottrina. Questo è il significato della Lettera VII di Platone. Ma come Platone ne ha pur sempre scritto, così lo si può ancor sempre imitare.
A quale scopo? Per delimitare il campo della filosofia come pratica, pratica di vita e di linguaggio. Per dire che essa è altrove: e così, insieme, come le Muse di Esiodo, mentire, perché se ne scrive, comunque, ma anche dire la verità: ciò che se ne dice, infatti, non può mai essere ciò di cui si parla.
Ci vuole una disciplina della mente, che - anche - la scrittura promuove, per disporre il setting trascendentale, cui ambiva il vecchio Kant, all'interno di cui una pratica, quella del filo-sofare, autentico, può prodursi.