La filosofia come pratica di vita e di linguaggio
di Giorgio Giacometti
A ciascuna affermazione corrisponde, sempre, da qualche parte, una negazione.
Scrivo "da qualche parte" e non "altrove" per suggerire
l'idea che l'"altra scena" non sia tanto un altro determinato luogo,
quanto alcunché di indeterminato. (A meno che non sia stata tutta un
equivoco la critica mossa in punta di piedi da Derrida a Lacan, nel Fattore
della verità, e la correlativa nozione di "disseminazione").
Ma c'è di peggio. Affermare è sempre anche mentire, ingannare,
ingannarsi sul conto di. Che cosa significherebbe altrimenti quel famoso "nichilismo"
che proviene a noi, creature del XXI secolo, da Nietzsche, Freud, Lacan? Non
gli si può, infatti, imputare l'assenza dei valori del nostro tempo,
che si può piuttosto imputare all'ignavia del relativismo. (Si
tratta di quell'indifferentismo che la Chiesa, come tutti gli altri ismi
con cui essa ama etichettare le eresie del nostro tempo, avrebbe ragione
di riprendere, se queste "essenze" fossero qualcosa, qualcosa di determinato
e di imputabile a qualcuno). I maestri del sospetto ci hanno lasciato in eredità
ben altro: l'impossibilità di misconoscere nel dire umano (non in quello
divino) la volontà di menzogna che lo promuove, sempre. Ma con ciò
- detto senza alcun sordido ammiccamento verso l'ultimo dio, il celebre asino
ragliante di Così parlò Zarathustra - proprio per coloro
per i quali non è data più speranza, sembra lecito sperare (Benjamin).
Perché essi sono nel margine.
Socrate ha reso testimonianza al fatto che una vita senza ricerca non è
degna di essere vissuta. La ricerca della sapienza, la filo-sofia, implica quel
tanto di non sapere da cui essa possa trarre il proprio alimento. Che non è
se non il respiro del desiderio che ci muove. La nostra anima. Ora, di che cosa
ha testimoniato propriamente Socrate, senza poterlo mai, ovviamente, dire? Che
la sapienza non consiste se non, paradossalmente, nella ricerca della sapienza.
Certo, non nella scimmiottatura hegeliana di una filosofia divenuta sistematicamente
sapere, assoluto. Ma proprio nel contrario. E' il buco collocato là dove
dovrebbe altrimenti trovarsi il fine / la fine della ricerca. Si tratta, beninteso,
di un buco trascendentale, essendo condizione di possibilità della vita
come ricerca.
Che cos'è stato, ora, questo nichilismo se non uno sturamento? Il buco
del desiderio umano è stato sturato. Ho scritto "sturato",
non "suturato", né "saturato". L'incrostazione dell'immaginario
lo otturava. Se ne accorse uno che parlava la stessa lingua che parliamo noi,
ironizzando sulle magnifiche sorti e progressive del suo secolo superbo
e sciocco. Chiacchiera può dirsi, a rigore - e sia pure il rigore
del gergo dell'autenticità - , la parola di chi finge di ignorare che
si cammina sul margine del precipizio in cui Empedocle si gettò. Ma chi
non chiacchiera parla con rigore. Non si può confondere la diffusa confusione
dei valori con la loro radicale eversione/sovversione genealogica: operazione
di verità, cioè di precisione, di microchirurgia.
La filosofia dei filosofi di pro-fessione, cioè che ne parlano, e ne
parlano ex cathedra - da una giusta distanza, cioè, dalla verità
- è quasi un sogno, il sogno di un solitario. Non è del tutto
masturbazione per il fatto che vi si istituisce una relazione con coloro che
ascoltano, che non sono soltanto figure in movimento, ma "persone"
(cioè maschere del proprio desiderio). Ciò che la rende onirica
è piuttosto il setting. L'architettura dei luoghi dove si svolge
e il gioco dei ruoli di chi vi partecipa ne fanno, appunto, un gioco, non dissimile
da quello della religione e della politica. In ciò la filosofia dei pro-fessori
non sarebbe meno filosofia, se la filosofia stessa, come pratica libera e gratuita,
fine a se stessa, effetto del desiderio piuttosto che del bisogno (Aristotele),
è gioco. Ma, come gioco del desiderio di un essere umano, essa è
quel gioco di cui non v'è nulla di più serio. Nondimeno il "fondamento
ridicolo del sistema hegeliano" continua a produrre i suoi cloni (e a mietere
le sue vittime).
Kierkegaard, Schopenhauer, Nietzsche... Dati i loro pessimi rapporti con l'accademia,
essi tentarono, talora in modo buffo, di fare qualcosa di serio, di inattuale:
vivere secondo ragione. Sembra un problema di coerenza (morale). Invece è
un problema di verità. Esso scaturisce dal sospetto, di cui si diceva,
che il discorso sia sempre a rovescio. La testimonianza è allora esperimento
e linguaggio per dire ciò che altrimenti sarebbe stato (ancor più)
frainteso.
Perché, allora, parlare di ciò di cui si dovrebbe tacere (Wittgenstein)?
Perché, se si è eredi non di Parmenide, ma di Epimenide, il furbo,
il Cretese, si può ben esclamare: "Io, la Verità parlo",
cioè appunto mento. Il trucco sta nel mentire bene. Che non significa
"efficacemente". Mentire con verità. Come si può solo
vivendo. La filosofia, infatti, o è pratica di vita e di linguaggio -
non desiderio di sapere, ma sapere come desiderio - o non è.
Scrivere di filosofia è contraddittorio, va scritto. Non perché
vi siano dottrine che possano essere non scritte, ma perché non si può
fare in alcun modo della filosofia una dottrina. Questo è il significato
della Lettera VII di Platone. Ma come Platone ne ha pur sempre scritto,
così lo si può ancor sempre imitare.
A quale scopo? Per delimitare il campo della filosofia come pratica, pratica
di vita e di linguaggio. Per dire che essa è altrove: e così,
insieme, come le Muse di Esiodo, mentire, perché se ne scrive, comunque,
ma anche dire la verità: ciò che se ne dice, infatti, non
può mai essere ciò di cui si parla.
Ci vuole una disciplina della mente, che - anche - la scrittura promuove, per
disporre il setting trascendentale, cui ambiva il vecchio Kant, all'interno
di cui una pratica, quella del filo-sofare, autentico, può prodursi.