Le virtù della città: sapienza, coraggio, temperanza, giustizia
Confronta la definizione di sapienza espressa in questo testo con la nozione di saggezza come scienza del bene e del male [Carmide, Alcibiade minore]
Sappiamo che in generale la sapienza, come scienza suprema, è concepita da Socrate come scienza del bene (e, quindi, per via della legge dei contrari, cfr. Eraclito, anche del male, ® Alcibiade minore, Carmide). Socrate stesso, per esempio, come risulta dall'Apologia, si scopre il più sapiente degli Ateniesi, sebbene non sappia nulla di particolare, perché almeno sa di non sapere, e questo è decisamente meglio che credere di sapere senza sapere. Dunque egli, in un certo senso, sa la cosa migliore che, nelle sue condizioni, uno potrebbe sapere.
Qui, in Repubblica, IV, Platone, per bocca di Socrate, descrive la sapienza di una città come la capacità di fare buone scelte, in altre parole, diremmo noi, di prendere le giuste decisioni, di fare le leggi migliori ecc. (sottinteso: per la città, per il bene della città). Dunque si tratta sempre di sapere che cosa sia meglio in determinate circostanze
Il coraggio, qui e altrove, è definito come la scienza di ciò che è da temere e di ciò che non è da temere. Coincide con la virtù del perfetto custode e risiede appunto nei membri di questa classe. Perché una città viva è sufficiente che siano adeguatamente coraggiosi coloro che la devono difendere e che vi devono amministrare la giustizia.
La temperanza consiste nel dominio esercitato della ragione sulla passioni. In uno Stato ordinato è diffusa a tutti i cittadini. E' infatti opportuno che quelli che non hanno sufficiente sapienza e coraggio, ossia la maggioranza degli artigiani, dei contadini e dei mercanti, e che vivono perseguendo spontaneamente quello che loro appare il bene (cioè l'interesse privato) riconoscano la necessità di essere governati dalle altre due classi, per il loro stesso bene e per il bene della città; così come è opportuno che sappiano moderare le loro passioni e i loro desideri quando la loro soddisfazione dovesse danneggiare il bene comune. La virtù dunque di chi sa essere sufficientemente padrone di sé, cioè la temperanza o moderazione, è bene che sia propria di tutti in una città giusta e forte.
N. B. Il fatto che uno sia padrone di sé suggerisce che egli sia sempre anche servo di sé, ossia che egli "morda il freno". Questo conflitto interiore (tra due parti dell'anima: la concupiscibile e la irascibile, guidata a sua volta dalla razionale), che è la fonte p.e. del "senso di colpa" in caso di trasgressione, non appartiene ai cittadini "bene educati" che governano, cioè ai custodi. Se l'educazione ha sortito l'effetto sperato essi non dovrebbero più distinguere il proprio bene da quello comune e, se necessario, essere pronti al sacrificio serenamente (non tragicamente), secondo il modello di Socrate.
La giustizia consiste nel "fare ciò che è proprio di ciascuno", sulla base delle differenze che, come si è visto, per natura fanno sì che ciascuno possa svolgere meglio un compito diverso da quello dell'altro, per il bene di tutti. La giustizia permette alle altre tre virtù "di crescere e di conservarsi". Come dire: se il mercante non si improvvisa guerriero e il guerriero non cerca di fare il mercante, ma ciascuno "fa il suo mestiere", è meglio per ciascuno e per tutti.
Il concetto platonico di giustizia si ritrova quasi identico in Aristotele e, in generale, nel mondo antico, per esempio, nell'epoca romana, presso la filosofia stoica e il diritto romano. Una famosa sentenza contenuta nel Corpus Iuris Civilis edito da Giustiniano, nel VI sec. d.C., recita: Iustitia est suum cuique tribuere, neminem laedere, honeste vivere, che significa: la giustizia è dare a ciascuno il suo, non danneggiare nessuno, vivere onestamente.
Con qualche aggiustamento si tratta sempre del medesimo concetto di giustizia. fondato sull'idea di un'ineguaglianza di base, per cui è giusto dare parti diverse a soggetti diversi.
Oggi spesso per giustizia si intende il fatto di dare parti eguali a soggetti fondamentalmente eguali. Ciò perché in seguito all'illuminismo e alla Rivoluzione Francese (XVIII sec. d.C.) la giustizia si è sempre più identificata con l'eguaglianza (giuridica, politica, o perfino economica e sociale).
Gli antichi in generale e Platone in particolare partono piuttosto dall'analogia tra la città e l'uomo: come nel corpo si distinguono diversi organi, gerarchicamente distinti per importanza (dal capo ai piedi, attraverso gli arti, gli organi della digestione e quelli della riproduzione ecc.), così anche nello Stato le diverse funzioni devono essere distinte perché lo Stato possa vivere armoniosamente. La giustizia non è altro che l'armoniosa coordinazione delle parti (e delle classi) della città. Aristotele riassume il concetto con la seguente metafora: "la giustizia è la salute della città".
Dal punto di vista politico, quindi, il modello proposto non è certo una democrazia, perché anche quello del governare è concepito come un "mestiere", il più difficile, che spetta solo a chi lo sa fare, ne ha la sapienza; non a tutti e nemmeno alla maggioranza del popolo. Ma non si può parlare di tirannide perché si presuppone che chi sa governare lo faccia per il bene di tutti e non solo del proprio (altrimenti non si dice che governa, ma che "rapina"). Si può parlare di aristocrazia [lett.: governo dei migliori], ma nel senso che i governanti devono essere effettivamente i migliori.
Quello che sta a cuore a Platone, però, non è la forma del governo, ma il modo di organizzare lo Stato in modo che effettivamente il contenuto o la sostanza del governare sia buono.