Wittgenstein[1]

1.                Le radicali svolte teoriche che all'inizio del Novecento avvenivano all'interno delle varie scienze, non potevano non avere delle conseguenze sull'epistemologia, cioè sulla teoria della scienza e, più in generale, sulla riflessione filosofica.

1.1.            L'opera nella quale si trovano riunite in maniera geniale tutte le principali questioni connesse ai mutamenti del pensiero scientifico è il Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein (1921-22)[i].

1.1.1.                  Nella prefazione egli chiarisce qual è l'intento del libro:

1.1.1.1.              Il libro tratta i problemi filosofici e mostra, credo, che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere…la verità dei pensieri qui comunicati mi sembra intangibile e definitiva. Sono dunque dell'avviso d'aver definitivamente risolto nell'essenziale i problemi.

1.1.2.                  Le tesi fondamentali del Tractatus sono riassunte in sette proposizioni principali da cui derivano tutte le altre:

1.1.2.1.              Il mondo è tutto ciò che accade;

1.1.2.2.              Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose;

1.1.2.3.              L'immagine logica dei fatti è il pensiero;

1.1.2.4.              Il pensiero è la proposizione munita di senso;

1.1.2.5.              La proposizione è una funzione di verità elle proposizioni elementari;

1.1.2.6.              Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere.

Nomi

 

Oggetti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


1.1.3.                  L'opera inizia dunque con una affermazione che riguarda l'essere del mondo: il mondo è tutto ciò che accade, quindi il mondo è la totalità dei fatti, ovvero degli stati di cose [Sachverhalte], cioè dei fatti che accadono indipendentemente l'uno dall'altro.

                                   POSSIBILE                                                         REALE

        COSE           STATO DI COSE

                                                                         non sussiste                   

                                                                             

                                                                            sussiste                     FATTO              MONDO

 

1.1.3.1.              Il che sembra implicare che non vi possa essere un nesso causale che giustifichi inferenze causali né tantomeno la possibilità di derivare gli eventi futuri da quelli presenti.

1.3.1.1.1..                   La fede nel nesso causale - dice infatti Wittgenstein - è superstizione" [Tractatus, 5.1361]

1.1.3.1.1.1.                 Da questo punto di vista, non possono esserci, parlando propriamente, delle leggi naturali. Le leggi, cioè le regolarità, appartengono solo al mondo della logica, mentre "fuori della logica tutto è caso" (cf. ibidem, 6.3). Come già sosteneva Hume, anche per Wittgenstein

1.1.3.1.1.1.1.                                 Non esiste una necessità in forza della quale una cosa debba accadere perché un'altra è accaduta [6.37]

1.1.3.1.1.1.2.                                 Noi possiamo soltanto constatare che vi sono delle cose che accadono. È uno dei presupposti empiristici presenti nell'opera.

1.1.3.2.              Altra affermazione empiristica è l'identificazione del pensiero col linguaggio,

1.3.1.1.2..                   e l'estensione al pensiero della stessa limitazione che vale per il linguaggio: non è pensabile né esprimibile nulla che non sia un fatto del mondo.

1.3.1.2.2..                   In altre parole, il linguaggio è una sorta di raffigurazione proiettiva della realtà; non tanto nel senso di immagine o copia bensì in quello di raffigurazione formale o logica del fatto. Il linguaggio è la raffigurazione logica del mondo: da una parte c'è il mondo, come totalità dei fatti; dall'altra c'è il linguaggio come totalità di proposizioni o pensieri che significano i fatti stessi.

1.1.3.2.2.1.                 Le proposizioni, a loro volta, in quanto sono parole, segni, suoni ecc., sono fatti; però, a differenza di altri eventi che accadono e stano muti, essi significano e significano per l'appunto fatti.

1.1.3.2.2.1.1.                                 Da questo punto di vista, una proposizione ha senso se esprime la possibilità di un fatto: se cioè i suoi costituenti (segni o parole) sono combinati insieme in una forma che è una delle forme possibili di combinazione degli oggetti che costituiscono il fatto.

1.1.3.2.2.1.2.                                 Dal senso di una proposizione, va distinta la sua verità, che si ha quando la proposizione indica un fatto reale.

1.1.3.2.2.1.2.1.                             Ad es. le proposizioni "questa rosa è rossa" e "questa rosa non è rossa" hanno entrambe senso perché sono entrambi possibili; ma una sola di esse può essere vera.

1.1.3.2.2.2.                 Oltre alle proposizioni elementari, le quali esprimono le possibilità di fatti e non sono vere in maniera necessaria ma solo quando i fatti le confermano (come nell'esempio precedente è vero che la rosa è rossa quando vedo di fronte a me una rosa rossa), vi sono anche altre proposizioni che esprimono la possibilità generale dei fatti e che sono vere indipendentemente dai fatti stessi: sono le tautologie.

1.1.3.2.2.2.1.                                 Ad es. la proposizione "nevica" esprime la possibilità di un fatto ed è vera se il fatto accade, quindi se in realtà nevica; e così pure la proposizione "non nevica" esprime la possibilità di un fatto ed è vera se in realtà non nevica. Ma la proposizione "nevica o non nevica" esprime tutte le possibilità ed è vera indipendentemente dal tempo che fa o farà; il fatto che nevichi o non nevichi non la conferma né la smentisce. Essa è dunque una tautologia.

1.1.3.2.2.3.                 Non basta. Prendiamo la proposizione "questo scapolo è sposato". Essa non esprime più un fatto ma una impossibilità. È quindi falsa indipendentemente da ogni fatto. Essa è una contraddizione.

1.1.3.2.2.3.1.                                 La tautologia e la contraddizione sono quindi rispettivamente necessariamente vera e necessariamente falsa qualunque cosa accada. Il che equivale a dire che esse non sono raffigurazioni della realtà, cioè non rappresentano alcuna situazione possibile. Esse perciò non sono provviste di senso (a differenza delle proposizioni elementari) ma non sono neppure dei non-sensi, bensì appartengono all'ambito della logica simbolica vera e propria.

1.1.3.2.2.3.1.1.                             Per Wittgenstein tutte le proposizioni della logica sono delle tautologie nel senso che "non dicono nulla", poiché non riguardano dei fatti ma solo delle operazioni puramente linguistiche che stabiliscono ad es. equivalenze o non equivalenze di significato tra diverse espressioni linguistiche. L'esperienza dunque non può né confermare né contraddire le varie proposizioni logiche.

1.1.3.2.2.3.1.2.                             Per Wittgenstein la logica e la matematica costituiscono l'intero campo della necessità. Sol nella logica esistono necessità e impossibilità, giacché i fatti, come si diceva prima, non hanno necessità e non possono neppure averla le proposizioni che esprimono a loro volta i fatti.

1.1.3.2.2.3.2.                   Wittgenstein ha insomma riproposto la distinzione di Hume tra le proposizioni significanti che esprimono fatti possibili e le proposizioni non significanti ma vere che sono le tautologie.

1.1.3.2.2.4.                 Vi è però ancora un terzo tipo di proposizioni che non sono né significanti né tautologiche e queste sono chiamate da Wittgenstein i non-sensi.

1.1.3.2.2.4.1.                                 Orbene, per Wittgenstein la maggior parte delle proposizioni filosofiche sono non-sensi. Infatti, visto che per Wittgenstein noi non possiamo parlare del mondo nella sua totalità (poiché non è un fatto), come invece pretende di fare la filosofia e la metafisica in particolare, quando osiamo farlo, esprimiamo per Wittgenstein semplicemente non-sensi.

1.1.3.2.2.4.1.1.                             Le proposizioni significanti sono infatti appannaggio delle scienze naturali e non consentono alcuna inferenza al di là di ciò che mostrano o manifestano; d'altra parte le tautologie di cui si occupa la logica non consentono di dire nulla sulla realtà e sul mondo.

1.1.3.2.2.4.2.                                 Il positivismo sostiene che ciò di cui possiamo parlare è tutto ciò che conta nella vita. Invece Wittgenstein crede appassionatamente che tutto ciò che conta nella vita umana è proprio ciò di cui, paradossalmente, secondo il suo modo di vedere, dobbiamo tacere.

1.1.4.                  Le teorie del primo Wittgenstein costituiscono il principio di ispirazione della corrente filosofica del positivismo logico.

1.2.            Nella prefazione al Tractatus, Wittgenstein aveva scritto di "avere nell'essenziale risolto definitivamente i problemi". Di conseguenza Wittgenstein tacque. Per diversi anni non si occupò più di filosofia. Ma nel 1929 egli ritornò a Cambridge. Aveva concluso che i problemi filosofici non erano stati definitivamente risolti. In particolare tre eventi

1.2.1.                  la riflessione sulla matematica,

1.2.2.                  i colloqui con altri pensatori e

1.2.3.                  l'esperienza di maestro elementare e la conseguente riflessione sul linguaggio infantile

1.3.            spinsero Wittgenstein ad assumere una prospettiva teorica diversa nell'interpretazione del linguaggio.

1.3.1.                  Per il cosiddetto secondo Wittgenstein bisogna smettere di credere che il significato di un termine consista in una realtà ad esso corrispondente, che ogni espressione linguistica possieda un significato fisso, che tutte le proposizioni debbano essere riducibili a proposizioni elementari e, in generale, che il linguaggio coincida con le proposizioni "vere-false" che raffigurano la realtà.

1.3.2.                  Secondo il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, vi sono molteplici forme di linguaggio e questa molteplicità non può neppure essere stabilita una volta per tutte: nascono continuamente nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, mentre altri cadono in disuso.

1.3.2.1.              Wittgenstein sottolinea adesso la natura pragmatica del linguaggio, e mostra come il significato sia inscindibile dal contesto antropologico al cui interno l'attività linguistica si costituisce. Esso è dunque funzione dell'uso, nel senso che varia in relazione ad ogni variare del contesto d'uso, e viene in tal modo a perdere ogni fissità. Il linguaggio è visto da Wittgenstein come un insieme di giochi linguistici, che si costituiscono all'interno delle varie forme di vita, dall'interno delle istituzioni e nell'ambito delle diverse culture che si realizzano nel corso dello sviluppo storico delle società umane.

1.2.3.1.1..                   Proprio per questo i giochi linguistici sono sempre variabili, illimitati e non inquadrabili in uno schema.

1.3.2.1.1.1.                 Ciò implica pure che è illusorio ogni tentativo di formulare una volta per tutte la logica del linguaggio, intesa come qualcosa di fisso e di definitivo; anzi, più che di una illusione, si tratta di una superstizione, il cui superamento rappresenta per Wittgenstein il compito primario dell'attività filosofica.

1.3.2.1.1.1.1.                                 L’attività filosofica non deve formulare teorie o fornire spiegazioni ma deve limitarsi a descrivere gli usi effettivi del linguaggio.

1.3.2.1.1.1.1.1.                             La filosofia non può in nessun modo intaccare l'uso effettivo del linguaggio; può, in definitiva, soltanto descriverlo. Non può nemmeno fondarlo [Wittgenstein, Ricerche filosofiche]

1.3.2.1.1.1.1.1.1.                                   In questo senso la filosofia può essere concepita anche come terapia del linguaggio.

 



[1] A cura di R.M. e A.V.



[i] Il Tractatus logico-philosophicus è una delle opere più complesse e importanti del pensiero novecentesco, e anche una delle più enigmatiche e controverse: assunta in un primo tempo come uno dei principali testi ispiratori del movimento neopositivistico (e di quanti coltivavano, in generale, un ideale di "filosofia scientifica"), in anni successivi è stata letta in modi molto diversi, ora come un testo sostanzialmente kantiano (poiché volto alla ricerca delle condizioni di possibilità e di dicibilità delle cose), ora come una riflessione anti-razionalistica e a suo modo perfino mistica (poiché si sottolineano soprattutto i limiti del dicibile e il rilievo di ciò che sta oltre tali limiti, rilievo che non è razional-scientifico, ma etico). Lo stesso Wittgenstein non ha mai fatto granchè per facilitare la comprensione del suo testo: da un lato egli sembra incoraggiarne una lettura in chiave spiccatamente logico-epistemologico-scientifica; anzi, il modello di sapere valorizzato da certe sue dichiarazioni appare di tipo molto forte, oggettivo, assolutizzante (come quando, nella prefazione del Tractatus , asserisce che " la verità dei pensieri qui comunicati " è " intoccabile e definitiva " e che ritiene " d'aver definitivamente risolto i problemi affrontati "). Da un altro lato stanno invece considerazioni di natura molto diversa, che enfatizzano la ristrettezza dell'ambito di praticabilità del pensare/parlare rigoroso e il peso di quanto si dà fuori di tale ambito. Ma questo non basta: in una famosa lettera a Ludwig von Ficker, Wittgenstein volle una volta sottolineare la natura fondamentalmente morale del Tractatus : scriveva che " il senso del libro è un senso etico ". E più avanti aggiungeva: " il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante ". La dichiarazione è indubbiamente sconcertante: ma l'apparente paradosso che contiene si scioglie se la si interpreta come un riferimento a tutto quel mondo di vita e di esperienza di cui il Tractatus non aveva parlato perché situato fuori da ben precise coordinate logico-linguistiche (e che invece era quello davvero "importante"). Al di là delle auto-interpretazioni di Wittgenstein, riconosciuta l'esistenza di svariati significati (e per di più non univoci) della sua opera, resta certo un fatto: il Tractatus si inserisce a pieno titolo in quell'intensa stagione di riflessioni e ricerche primo-novecentesche nella quale filosofi di diversa provenienza teorica si posero il problema di una rifondazione della conoscenza e del sapere. In quest'ottica, il lavoro wittgensteiniano, se certo preannuncia e prepara le grandi investigazioni neopositivistiche, è anche meno lontano di quanto si possa comunemente immaginare dai testi del primo Husserl: di quell'Husserl che a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento si era cimentato nella ricerca dei fondamenti dell'aritmetica, nella riflessione su una logica "pura" e nella costituzione della filosofia come "scienza rigorosa". Gli antecedenti più prossimi di Wittgenstein sono però altri: Frege, Mach e, in misura ancora maggiore, Russell. Anche indipendentemente dai temi particolari che legarono il giovane pensatore austriaco al più maturo filosofo inglese, ciò che è bene sottolineare è la sostanziale sintonia tra molti loro presupposti e ambizioni generali. A tal proposito, le caratteristiche e i propositi che accomunano i due filosofi (pur tenendo presenti le differenze, in primis l'attenzione wittgensteniana per quanto sta oltre le strutture logico-linguistiche del sapere rigoroso) sono i seguenti:

1) il progetto di rifondare il sapere, con l'ambizione di indicarne le strutture universali e oggettive;

2) la credenza nella validità esemplare e paradigmatica della scienza (per l'esattezza, della scienza formale) per ogni conoscenza che ambisca ad essere veritiera e rigorosa;

3) il correlativo atteggiamento ambivalente nei confronti della filosofia: per un verso praticata come indispensabile strumento della riflessione critico-rifondatrice del sapere, per un altro considerata una disciplina impura, non rigorosa, richiedente una specie di inveramento scientifico;

4) il convincimento che si danno "fondamenti" del sapere, o almeno dei princìpi meta-empirici generali, che è necessario cogliere al di là della molteplicità delle esperienze cognitive;

5) l'ulteriore convincimento che tale traguardo sia raggiungibile solo attraverso l'impiego di una complessa indagine logica;

6) l'assunto che il sapere si configura essenzialmente come un sistema di enunciati linguistici;

7) il principio che un'analisi del "sapere come linguaggio" è, insieme, un'analisi della realtà dal punto di vista gnoseologico, poiché quest'ultima si dà solo in quanto "detta" da uno strumento espressivo adeguato;

8) la correlativa tesi tra linguaggio e mondo vige una relazione di corrispondenza o isomorfismo;

9)l'ulteriore tesi che sia il linguaggio sia il mondo sono degli aggregati composti riducibili a determinazioni semplici e che su tali determinazioni è possibile (almeno idealmente) riconoscere un sapere rigoroso [P.T.]