Come abbiamo visto, per diventare saggi, obiettivo del filo-sofare, bisognerebbe arrivare a conoscere il bene (Socrate).
A questo fine ci siamo interrogati come, in generale, possiamo conoscere qualcosa. A partire dall’intuizione di Parmenide che l’oggetto della scienza debba essere, di volta in volta, uno e immobile, grazie a Platone e Aristotele siamo riusciti a immaginare di poterlo considerare anche molteplice, articolato, cioè, in una pluralità di essenze, tra loro ben ordinate (divise in generi e specie, essenze propriamente dette e qualità ecc.), ciascuna oggetto possibile di sapere (un sapere a sua volta conseguibile attraverso strumenti logici, come p.e. il giudizio e il sillogismo).
Attrezzati con questi strumenti di conoscenza (ed eventualmente anche con altri che ci dovessero successivamente servire, p.e. la dimostrazione per assurdo, l’induzione empirica ecc.), a partire dallo sfondo costituito da una molteplicità di essenze che innervano, per così dire, il mondo che ci circonda (“animale”, “pianta”, “triangolo”, “quadrato”, “bellezza” ecc.), possiamo ritornare alla questione del bene, per chiederci, ad esempio, in che rapporto il bene sia con il “giusto”, il “vero”, il “bello” ecc..
Per prima cosa, dopo aver argomentato, contro Parmenide e Zenone, come ciò che è possa essere considerato molteplice (perché ciascuna cosa può benissimo non essere un’altra, nel senso di essere diversa dall’altra), bisogna vedere se possiamo “smontare” anche gli argomenti di Zenone contro il movimento (p.e. l’argomento di Achille). Quest’operazione appare indispensabile, se si vuole andare alla caccia del bene, perché se il nostro obiettivo è quello di “fare” sempre ciò che è “meglio”, bisogna supporre che sia possibile “agire”, “muoversi”, “cambiare”, “migliorare”. Inoltre anche quello che ci circonda sembra continuamente “mutare”. Ciò implica il divenire e il tempo.
Aristotele giustifica il divenire, dopo avere giustificato il molteplice (qui in accordo con Platone), attraverso due fondamentali mosse:
- ridimensionando il principio di non contraddizione (che, nella versione “forte” di Parmenide, rende inconcepibile come una cosa, nel tempo, possa diventare diversa da quello che era prima);
- introducendo la dottrina della distinzione tra la potenza e l’atto (cfr. anche il manuale, pp. 309-10)