Gli anni Ottanta possono essere considerati sotto molti aspetti il “colpo di coda” del bipolarismo (e, quindi, della guerra fredda). Si aprono, infatti, con l’invasione sovietica dell’Afghanistan e il conseguente boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca da parte degli Stati Uniti e di diverse delegazioni sportive nazionali; proseguono con il riarmo missilistico dell’Europa da ambo le parti (partita nella quale giocò un ruolo anche la base siciliana di Comiso) – questione degli “euromissili” -; sono contraddistinti, nella sfera occidentale, da politiche fortemente liberistiche (neo-liberismo) sotto l’egida del presidente americano Ronald Reagan e della premier britannica (la prima donna a coprire tale ruolo) Margareth Thatcher (soprannominata iron lady, lady di ferro, per la sua durezza nel contrastare p.e. i sindacati dei minatori inglesi), politiche che, se da un lato, compressero i redditi dei ceti più bassi, dall’altro lato consentirono una nuova crescita globale dell’Occidente che rappresentò anche una vittoria economica dello stesso nella competizione col mondo comunista.
In questo clima il nuovo segretario del Partito Comunista dell’Urss, Mikhail Gorbaciov tentò di inaugurare una nuova politica economica, maggiormente aperta al mercato, rinunciando alle ambizioni egemoniche di tipo militare (ritiro dei sovietici dall’Afghanistan, che si era rivelato una sorta di “Vietnam russo”). Tuttavia, questa politica di apertura del mercato interno si associò ben presto a riforme di tipo politico, contraddistinte da crescente trasparenza (glasnost) nell’azione del governo e del partito (favorita da una sempre maggiore liberalizzazione della stampa e dei mezzi di comunicazione di massa, che, portò, ad esempio, a far conoscere quasi in tempo reale all’Occidente il disastro avvenuto nell”86 nella centrale nucleare di Cernobyl) e da quella che fu definita perestrojka, che possiamo tradurre come “cambio di rotta” nel campo dei diritti civili e politici e delle libertà prima negate dal regime comunista. L’obiettivo di Gorbaciov, più volte espresso, non era quello di assimilare l’Urss ai Paesi occidentali, ma di conservare le differenze istituzionali derivanti della Rivoluzione d’Ottobre, in un quadro complessivamente democratizzato e liberalizzato. Come sappiamo, tale tentativo generoso di riforma interna del sistema fallì per la duplice opposizione della “sinistra” conservatrice del Partito e della “destra” liberale, che voleva francamente trasformare la Russia in uno Stato democratico di tipo occidentale. La prima “fazione” tentò nel 1991 un colpo di Stato per ripristinare l’ordinamento precedente. Il fallimento di questo tentativo portò alla liquidazione del Patito e alla dissoluzione della stessa Urss, con la nascita conseguente di liberi stati democratici formalmente di tipo occidentale, il più importante dei quali fu la Repubblica federativa russa, erede diretta dell’Urss, guidata durante gli anni Novanta dal “riformatore” Boris Eltsin (a sua volta “scalzato” dal 1999 dall’attuale leader indiscusso della Russia, Vladimir Putin, a causa della corruzione del governo di Eltsin, un governo dal volto sempre più autoritario, del fallimento delle sue riforme economiche, della crescente diffusione di “mafie” e del malaffare, del conflitto irrisolto che oppose la Russia alla piccola provincia autonoma della Cecenia, aspirante all’indipendenza).
La crisi dell’Urss già nell’89 aveva portato, come è noto, alla cosiddetta “caduta del muro di Berlino”: la democratizzazione dei Paesi dell’Est europeo che, 15 anni dopo, nel 2004, avrebbe condotto alla loro piena adesione all’Unione Europea (U.E. nata a sua volta, come organizzazione politica più compatta e centralizzata, ma ancora contraddistinta da numerosi limiti e contraddizioni, col trattato di Maastricht del 1992, dalle “ceneri” della Comunità Economica Europea nata a Roma nel 1957: dai 6 Stati firmatari dei trattati di Roma si è passati agli attuali 27, 28 prima delle c.d. “Brexit”).
La fine del bipolarismo, tuttavia, non portò a un nuovo ordine mondiale (come lo aveva chiamato il presidente americano Reagan), sotto la guida dell’unica potenza mondiale rimasta, gli Stati Uniti, contraddistinto dal trionfo globale della libertà e della democrazia e, quindi, a quella che Francis Fukuyama chiamò in un celebre libro del 1992 la fine della storia. Al contrario la rottura dell’equilibrio precedente, sia pure basato sul “terrore” legato alla minaccia nucleare, ha favorito la nascita di un mondo multipolare contraddistinto da diffusa e crescente conflittualità regionale, da guerre civili sanguinose a cui si faceva e si fa ancora fatica a porre rimedio tramite l’azione (ora teoricamente più facile da concordare) dell’Onu (casi della Jugoslavia, della Somalia, della Libia, dell’Iraq dopo la seconda guerra del Golfo, della Siria attuale ecc.), dalla nascita di una nuova contrapposizione tra il mondo occidentale e l’Islamismo radicale (secondo l’interpretazione di Samuel Huntington che parla di un vero e proprio “scontro di civiltà“, Clash of civilizations è il titolo del suo articolo del 1993), da una competizione senza esclusione di colpi tra i Paesi occidentali e la nuova potenza economica e demografica mondiale, la Cina (che, grazie anche al “massacro di piazza Tienammen” del 1989, a differenza degli altri Paesi comunisti – con l’eccezione di Cuba -, è riuscita a conservare un sistema politico autoritario di controllo, centrato sul Partito Comunista, pur sviluppando un’economia di mercato).
Cfr. cap. 22, §§ 1-2, § 4 fino a Il conflitto del Kosovo compreso; § 5, L’Oriente, nuovo polo dello sviluppo