Per comprendere come sia stato possibile quel fenomeno culturale e politico di grande rilevanza, per il nostro Paese e per il mondo, che va sotto il nome di Rinascimento (preceduto dal c.d. Umanesimo, con cui spesso esso è tuttavia identificato), bisogna fare alcune considerazioni preliminari.
Generalmente si dice che nel XV sec., anzi a metà del XIV sec. (se vogliamo iniziare dalle iniziative culturali di Francesco Petrarca), cominci un nuovo modo di guardare al passato classico greco e (in Italia soprattutto) romano: con un’ammirazione, anzi con spirito di emulazione; atteggiamento che avrebbe condotto (da parte di un ristretto, ma tenace gruppo di intellettuali italiani, come Poggio Bracciolini ed Enea Silvio Piccolomini) a una forsennata ricerca di antichi manoscritti, prima latini, poi anche greci (di Cicerone, Platone ecc.), sepolti nelle biblioteche dei monasteri italiani ed europei, dove erano stati ricopiati dagli originali di età antica da schiere di monaci zelanti, i celebri “amanuensi” (così detti perché scrivevano tutto a mano).
Cfr. [manuale di terza], cap. 9, § 9.1, pp. 263-66.
Tale quadro, pur corretto, va integrato con un dato: se nel 1453 cadde Costantinopoli (chiamata dai suoi avversari significativamente Rum, cioè [seconda] Roma, oltre che, come anche oggi, Istànbul) nelle mani di Mehmet II, sultano dei Turchi Ottomani, già da diversi decenni numerosi dotti “bizantini” (come Giorgio Gemisto Pletone, il cardinale Bessarione, Giorgio Trapezunzio e, prima di loro, Emanuele Crisolora e molti altri) erano “emigrati” in Italia (sopratutto a Firenze e a Roma). Costoro portarono talora con sé le loro biblioteche, ricche di testi classici (anche di filosofia), resi dunque disponibili di prima mano. Al di là dei testi si può ritenere che la cultura classica, pur filtrata dalla sensibilità religiosa del cristianesimo orientale (cosiddetta Chiesa ortodossa), fosse stata tenuta viva nei secoli (pensiamo solo alla figura del “neoplatonico” Michele Psello, attivo nell’ XI sec.) e, dunque, potesse rifluire in Italia quasi senza soluzione di continuità da quando fu elaborata nell’antichità (“fecondando”, per così dire, rinascite, come quella dell’Accademia platonica in Firenze, località Careggi, animata da personaggi del calibro di Marsilio Ficino e Giovanni Pico della Mirandola e fortemente voluta da leader carismatici, illuminati e mecenati come Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze).
Non bisogna, infatti, dimenticare che quello che la storiografia ottocentesca denominava un po’ sprezzantemente “impero bizantino” non era altro che l’impero romano (e “Romani” si chiamavano i suoi abitanti, in greco Romàioi, anche se dal VII sec. avevano adottato, per comodità, come lingua ufficiale il greco), ancora vivo nella porzione orientale, compagine politico-militare che, pur tra alti e bassi, fu in grado, a differenza della sua porzione occidentale, di resistere per secoli, preservando la propria cultura, agli attacchi di vari popoli (i Goti, gli Avari, gli Arabi, i Bulgari, i Persiani, infine i Turchi, che, dopo lotte secolari, ne ebbero ragione). Paradossalmente, la più cocente sconfitta i c.d. bizantini la subirono non da pagani, musulmani ecc. ma da cristiani: i loro ex sudditi del ducato/dogato delle Venezie, insomma i Veneziani, che, appoggiati da vari signori cristiani del tempo (p.e. normanni), di fede cattolica, nel 1204 deviarono dal IV crociata dalla meta originaria di Gerusalemme verso Costantinopoli, mettendo a ferro e fuoco la città e devastandola (a questo episodio risale p.e. il “furto” dei quattro bellissimi cavalli, probabilmente di età romana, che ancor oggi si possono ammirare sopra la facciata della cattedrale di S. Marco a Venezia; e anche la rapina del bellissimo gruppo scultoreo dei tetrarchi, che si possono pure ammirare in uno spigolo di Palazzo Ducale, sempre a Venezia.).