Il brano della Metafisica di Aristotele che leggemmo (riportato in 1A, U4, T1, p. 357, quello in cui Aristotele sosteneva che la filosofia nasce dalla meraviglia) sembrava suggerire che
per fare filosofia occorre aver soddisfatto i propri bisogni (materiali, economici ecc.)
ma dalle argomentazioni di Socrate davanti ai suoi accusatori emerge, piuttosto, che
per sapere quali bisogni soddisfare (quale sia il proprio bene) occorre fare filosofia (a costo di dare la vita per questo).
Un vero circolo vizioso, no? La filosofia dipende dalla vita (come nella sentenza latina: primum vivere, deinde philosophari) o viceversa?
Per continuare a riflettere su necessità, utilità e libertà (o gratuità, superfluità) della filosofia può essere utile leggere un passo tratto dal dialogo Teeteto di Platone.
A tale passo, in cui viene evocato il comportamento del “primo” filosofo che la storia ricordi, Talete, può essere associato quest’altro passo, tratto dalla Metafisica di Aristotele, che vede protagonista ancora Talete.
In questi passi viene soprattutto messa in luce la libertà del filosofo e della filosofia.
Il filosofo, se dobbiamo prendere a modello Talete (il Talete “immaginato” sia da Platone, sia da Aristotele nei passi sopra richiamati), sembra che non abbia altro “bisogno” che quello di filosofare, a costo di restare povero. In questo senso la filosofia è libera dai bisogni: non perché questi siano stati prima soddisfatti, ma perché cessano di essere veri bisogni (non si sa, cioè, se essi – compresa la vita stessa – siano veramente tali, prima di avere filosofato). Il solo interesse del filosofo è rivolto alla conoscenza.
Questo potrebbe suggerire che la filosofia sia un’attività inutile, gratuita e fine a se stessa.
Ma non possiamo escludere che nella filosofia operi un’eterogenesi dei fini: ciò che per qualcuno è un fine (p.e. conoscere) potrebbe rivelarsi per altri un mezzo per conseguire altri fini (p.e. trarre vantaggio da tali conoscenze).
Anche oggi vi possono essere scienziati che desiderano solo comprendere i misteri della natura (e che cercano magari di rendere la loro ricerca utile agli altri uomini solo per farsela finanziare), mentre altri potrebbero servirsi di queste conoscenze per risolvere problemi concreti. Per i primi la conoscenza è il fine e la sua eventuale utilità un mezzo, per i secondi è il contrario: la conoscenza è il mezzo e la sua utilità è il fine (questa è, di fatto, la logica prevalente nell’occidente moderno, profondamente impregnato di cultura “borghese”).
In definitiva, tuttavia, sono tutti “contenti”: si risolvono insieme problemi teorici e pratici.
La stessa cosa, se ci riflettiamo, vale per la felicità.
Aristotele, nell’Etica nicomachea risponde alla domanda sul bene (fondando la scienza “etica“, ossia la scienza del comportamento o del costume [èthos], in quanto hanno di mira il bene di chi agisce) suggerendo che esso coincida con la felicità.
La felicità, infatti, è la sola cosa che qualsiasi essere umano, anzi qualsiasi essere vivente, desidera per se stesso e non per altro (anche se ognuno cerca la felicità a modo suo, spesso sbagliando e cedendo a vizi di cui finisce, prima o poi, per pentirsi). Infatti, si può desiderare di sposarsi o di avere figli per essere felici, ma non si desidera mai essere felici per altri scopi.
Tuttavia, volta che si sia felici, certamente questo aiuta (involontariamente, indirettamente) a fare bene molte altre cose.
Questo potrebbe valere anche per la filosofa come ricerca della conoscenza, o no?
Su questa eterogenesi dei fini nella quale è presa la ricerca della felicità (in e oltre Aristotele) cfr. la discussione svolta con una classe liceale nel 2014.