Concludiamo il nostro modulo sulle ragioni dell’agire umano, diverse a seconda che attribuiamo o meno una ragione (lògos) o, come diremmo modernamente, un senso al mondo che ci circonda e, coerentemente con questo, un ruolo a noi stessi in questo mondo, ritornando alla prospettiva di Aristotele, da cui siamo partiti.
Aristotele, come sappiamo, difende, al pari degli stoici, il finalismo cosmico (contro il meccanicismo di certi presocratici, come gli atomisti, che sarà fatto proprio dagli epicurei).
Come inquadrerà la questione dell’agire umano, della sua libertà e dei suoi fini?
Cfr. U4, cap. 4, § 1, pp. 336-39.
Come gli stoici, anche Aristotele pensa che, per essere felici (ricordiamo che per lui lo scopo della vita è la felicità, essendo questo il solo fine che non è mezzo per altri fini), si tratti di individuare la “virtù” che ci contraddistingue e di praticarla coerentemente. Tuttavia, mentre gli stoici (che nonostante tutto sono filosofi materialisti) si soffermano soprattutto sulle virtù etiche e, in particolare, sui diversi doveri che scaturiscono per ciascuno di noi a seconda del ruolo che ricopriamo nell’organismo politico e sociale (come se ne fossimo gli organi), Aristotele, pur riconoscendo le differenze tra gli uomini legate ai loro ruoli e alle loro diverse doti naturali, si concentra sulle virtù comuni a tutti in quanto esseri umani (diversi dagli altri animali). E queste sono le virtù “dianoetiche” o “razionali”, quelle legate alla nostra capacità di intendere e di ragionare. Esse, in quanto realizzano appieno la nostra umanità (la nostra “differenza specifica”), costituirebbero non già mezzi per altri scopi (p.e. per il piacere, come per gli epicurei), ma fini in se stesse (anche se non tutti gli esseri umani se ne accorgono, ma in moltissimi – per esempio nei contadini, nei soldati, negli schiavi ecc. – esse rimangono come “potenze” senza passare mai all’atto). Insomma l’ideale umano per Aristotele non è il saggio che si sacrifica per il bene comune (come fu p.e. Socrate), ma lo scienziato, il “sapiente”, che si sacrifica per la ricerca che conduce. Cionondimeno è bene che tutti, sapienti e non sapienti, esercitino le necessarie virtù etiche (come le virtù c.d. “cardinali” che Aristotele riprende da Platone: coraggio, temperanza, giustizia), fondate sul criterio del “giusto mezzo” razionale.
N. B. Da Aristotele deriva storicamente la sopravvalutazione del lavoro intellettuale rispetto a quello manuale e l’esaltazione dell’amore della ricerca per la ricerca, al di là degli eventuali benefici o “ricadute” p.e. economiche. Abbiamo già incontrato la tesi aristotelica secondo la quale la filosofia andrebbe praticata per se stessa e non per soddisfare bisogni, se non la si vuole rendere “serva” da “libera” che è (legata all’altra tesi secondo la quale chi deve soddisfare bisogni vitali non può dedicarsi all'”ozio” filosofico e alla ricerca). Ora finalmente siamo in grado di giustificare tale tesi: l’esercizio filosofico (in senso ampio, comprensivo anche della ricerca scientifica e religiosa) realizzerebbe appieno la nostra umanità come “differenza specifica”, mentre qualsiasi altra attività non sarebbe che un perfezionamento di un comportamento già adottato da altre specie viventi (difendersi e difendere la comunità o la prole, nutrirsi e nutrire, amare, riprodursi, perfino costruire dighe o tane…).