A questo punto sembra che Platone ci consegni un procedimento superiore a quello logico-matematico (sillogistico), esposto alla critica degli scettici, ossia il procedimento della dimostrazione per assurdo in cui sembra consistere quella che egli chiama “dialettica”.
Disgraziatamente questo procedimento non sembra affatto sicuro, perché è a sua volta esposto a un rischio: quello dell’antinomia. Non possiamo infatti mai escludere che una tesi dimostrata per assurdo (confutando la sua negazione) non abbia a sua volta conseguenze contraddittorie, esattamente, appunto, come la sua negazione.
Il problema si può riassumere nella maniera seguente. Se cerco di dimostrare qualcosa (A) per assurdo (riconoscendovi, così, un principio), dimostrando che la sua negazione (-A) ha conseguenze contraddittorie e, perciò, sicuramente false (f), non posso mai essere certo che, prima o poi, qualche implicazione del principio così (creduto) dimostrato non generi a sua volta contraddizione. Il mio preteso “principio” resta una semplice “ipotesi”, capace magari per ora di salvare i fenomeni, ma valida solo fino a prova contraria.
Questo “crampo mentale” (come lo chiamerà il filosofo Wittgenstein, nel Novecento) è un’antinomia.
La sola possibilità che si possa incorrere in antinomie, in altre parole, getta un’ombra inquietante sul procedimento per assurdo.
In effetti, se ci riflettiamo, basta un solo caso di antinomia, per gettare un’ombra sulla dimostrazione per assurdo, in generale. Infatti, una volta dimostrato A per assurdo, anche se io non trovassi immediatamente che alcune conseguenze di A sono contraddittorie e, perciò, false, non potrei mai escludere di imbattermi, prima o poi, in questo genere di implicazioni, che falsificherebbero lo stesso A, generando un’antinomia:
Un classico esempio, risalente al mondo antico, è il paradosso di Epimenide il Cretese o del Mentitore (citato spesso dai filosofi stoici). Se dico “Io mento sempre” questa frase non può essere né vera, né falsa, violando, così, il principio di non contraddizione2.
Un altro esempio può essere offerto dalla seguente antinomia, che riprende un tema di Plotino (filosofo neoplatonico del III sec. d. C.). Mi chiedo se la causa di tutto ciò che è, a sua volta sia. Apparentemente dovrei rispondermi che sì, essa necessariamente è (qualcosa), altrimenti come potrebbe “essere” la causa di qualcos’altro? Dire che non è sarebbe, cioè, assurdo. Dunque essa deve essere. Ma c’è un problema. Se anche la causa di tutto ciò che è fosse, essa non sarebbe più la causa di tutto ciò che è (un tutto che include anche se stessa), ma solo la causa di tutto ciò che è tranne se stessa. Ma io cercavo la causa di tutto ciò che è. Non potendo essere inclusa nell’insieme di tutto ciò che è, essa non può (più) essere. Ma così torniamo al punto di partenza. Se non è, essa non potrebbe neppure essere causa di qualcosa. Dunque è, e così via (cadiamo in un circolo di confutazioni reciproche da cui non possiamo uscire).
Altri esempi sono i celebri dilemmi del coccodrillo e del barbiere.
Lo stesso Platone in diversi suoi dialoghi della vecchiaia (detti “dialettici”) ma soprattutto nel Parmenide sembra compiacersi di mostrare come qualsiasi cosa affermiamo di qualcosa (nel dialogo si parla dell'”uno”, ma la cosa potrebbe valere per qualsiasi altra idea) finiamo per cadere in paradossi e antinomie (cioè per dover affermare/concludere il contrario di quello che affermavamo inizialmente).
La domanda che sorge spontanea a questo punto è: “Perché Platone nella Repubblica suggerisce che la dialettica ci permetta di partire dalle semplici ipotesi per arrivare a principi non ipotetici, se poi nei suoi dialoghi dialettici mostra come la pratica della dialettica genera inevitabilmente antinomie?”. Sembra che la dialettica non porti a niente…. a meno che….
Qualche suggerimento potrebbe venire dal celebre mito della caverna (cfr. questo video, il testo del mito in U3, P2, T6-7, pp. 259-63 e la sintesi alle pp. 215-217).
Probabilmente Platone suggerisce l’esercizio dialettico per purificare la mente dei suoi discepoli dalle false credenze. Ma perché tale purificazione dovrebbe avere per effetto la conoscenza della verità e non la caduta nel più cupo scetticismo? La scommessa di Platone è che conoscere sia ricordare, dunque (quando si tratta di idee) riconoscere qualcosa che si era veduto (metaforicamente) prima di nascere. Cfr. U3, cap. 2, p. 199, Reminiscenza, verità ed eristica e U3, P2, T4, pp. 254-56).