Nel RInascimento risorsero, accanto al (neo)platonismo, altre tradizioni filosofiche e culturali, più o meno (in generale meno) compatibili con la dominante dottrina cristiana.
Possiamo ricordare in primo luogo la prospettiva apparentemente più lontana dalla dominante concezione cristiana, ossia quella epicurea (riscoperta riesumando soprattutto il De rerum natura di Tito Lucrezio Caro), secondo la quale il mondo è costituito di atomi che si muovono e urtano senza scopo, all’infinito, e la vita ha per fine il piacere.
Tale concezione fu coltivata in particolare da Lorenzo Valla, che, se da un lato tentò di conciliarla con la visione cristiana (in ultima analisi anche il cristiano persegue la beatitudine eterna, come forma sublime di piacere, per conseguire la quale si vale di ogni mezzo utile allo scopo), dall’altro lato dispiacque alla Chiesa quanto altri mai per la sua famosa denuncia della falsità della c.d. Donazione di Costantino.
Cfr. pp. 21-22: Lorenzo Valla
Cfr. manuale di storia, vol. I, pp. 285-86, documento 2
Possiamo poi ricordare la figura (della seconda metà del Cinquecento) di Michel de la Montaigne, che elabora una propria prospettiva molto personale, a sfondo stoico-scettico, ma che possiamo anche considerare una forma di neo-socratismo.
Cfr. pp. 23-24.
Come abbiamo ricordato in aula, Montaigne è importante quasi più per lo stile che adotta, che per i contenuti specifici del suo pensiero, spesso sfuggenti, variabili, proprio perché radicati nell’esperienza vissuta dell’autore.
La premessa è che Montaigne diffida delle “verità” che provengono dalla tradizione recente, specialmente quelle di ordine religioso. Vive nel periodo delle guerre di religione tra cattolici e protestanti (in Francia: gli ugonotti), sa che nelle Americhe vivono popoli contraddistinti da una cultura completamente diversa da quella europea, ignoti alla Bibbia e ai quali la Bibbia è ignota… La crisi della certezze medioevali e la libertà di pensiero propria del Rinascimento lo conduce, comprensibilmente, su posizione scettiche, in quanto gli fa dubitare che l’uomo possa conseguire qualche “verità” assoluta.
La sola verità attingibile è quella che deriva dalla propria esperienza personale e che, dunque, vale soprattutto per se stessi. Di qui la nuova forma letteraria adottata dalla sua filosofia: quella del saggio o essay, inteso come diario autobiografico, ricco di meditazioni, frutto di una vita intesa come “laboratorio”, come occasione per sperimentare ipotesi sul mondo.
N. B. La filosofia antica era contraddistinta soprattutto dal dialogo orale (o colloquium), tra un maestro (p.e. Socrate) e un discepolo nel quale il maestro cercava di suscitare maieuticamente (cioè di far partorire) la verità. Tale forma evolve, p.e. in Agostino, in quella del soliloquium, tra sé e sé o, meglio, tra l’anima e il proprio maestro interiore (cfr. il De magistro), cioè Dio o il Cristo (che trova un parallelo in ambito hindu nella figura del sadguru interiore) e, infine, appunto, nell’età moderna, in Montaigne, quindi in Cartesio, Pascal ecc. (una tradizione che si afferma soprattutto in Francia), nella meditazione spassionata, tra sé e sé, senza più “maestri” o guide (cade, infatti, il medioevale principio di autorità), che ha per oggetto la propria esperienza sensoriale e intellettuale. È questo il tipo di pratica solitaria che si traduce in scrittura e che, grazie all’invenzione della stampa, diventa rapidamente un modello in Europa. L’ipotesi è che il lettore, imitando l’autore, si interroghi a propria volta sulla propria vita, quasi che il testo possa esercitare (ma a distanza e senza alcun controllo! ecco la grande differenza con la scuole antiche di filosofia, in cui maestri e discepoli vivevano spesso in comune) una sorta di funzione maieutica.
Questo passaggio da un dialogo esteriore a una dialogo interiore (il “dialogo dell’anima con se stessa” che, a dire la verità, già secondo Platone contraddistingueva il “pensiero” o diànoia) vede un parallelo, sul piano storico, nel passaggio dal tempio greco (contraddistinto da un naòs accessibile al solo sacerdote, un colonnato esterno e uno spiazzo antistante nel quale veninvano celebrati i riti davanti al popolo) alla chiesa cristiana (contraddistinta da navate nelle quali “entrano” sia le colonne, prima esterne al naòs, sia gli stessi fedeli e le celebrazioni): da una religione più esteriore, fatta di “scambi” tra dei e uomini mediati da sacrifici spesso cruenti a una religione interiore, fatta di preghiera e contemplazione.
Possiamo infine ricordare il caso di Pietro Pomponazzi, detto Peretto Mantovano, che, approfondendo filologicamente la Fisica e le altre opere di Aristotele, concluse che l’anima fosse mortale come il corpo, almeno sulla base delle rilevazioni che si potevano fare attraverso l’esperienza dei sensi. Solo la fede, dunque, a cui, almeno a parole Pomponazzi si atteneva, e non la ragione filosofica e scientifica (a differenza di quello che pensavano p.e. il platonici) poteva sostenere l’ipotesi dell’immortalità dell’anima.
Cfr. pp. 34-36; pp. 39-40, T2