Il (neo)platonismo [il termine è moderno, i neoplatonici consideravano se stessi semplicemente platonici] costituisce insieme una ricapitolazione della filosofia greca classica (con la sola esclusione delle dottrine materialistiche, come l’atomismo di Democrito ed Epicuro) e la fonte di ispirazione di un insieme di dottrine successive di grande rilevanza, quali: le teologie della grandi religioni abramitiche (ebraismo, cristianesimo, islam), il pensiero rinascimentale (da Niccolò Cusano a Giordano Bruno), il platonismo inglese (Cambridge), il deismo illuministico, l’idealismo tedesco, la teosofia e l’antroposofia tra Otto e Novecento, certe correnti c.d. new age. Di qui la sua importanza.
Ecco una sintesi della filosofia di Plotino.
Per comprendere a fondo il senso il cui il neoplatonismo, In Plotino come in altri autori successivi (come Giamblico, Proclo ecc.), pur con diverse accentuazioni, costituisca una sintesi e una ricapitolazione della filosofia antica, soffermiamoci sulle due ipostasi successive all’Uno: l’essere (o intelligenza) e l’anima.
L’essere è in tutto e per tutto ciò che in Platone è denominato “mondo delle idee” o “cosmo intelligibile”. Per evitare equivoci (in cui si può incorrere limitandosi a studiare il modo in cui tale “mondo” è presentato nei manuali) occorre ricordare che la rappresentazione corrente (che si trova anche in Platone) di questo mondo come un insieme di “modelli” delle cose “materiali” collocato al di sopra del cielo (nell'”iper-uranio”) è, tanto per cambiare, una metafora.
In realtà noi conosciamo molto bene questo mondo: si tratta dell’insieme delle “cose” che sono oggetto di scienza (epistéme), universali e necessarie (nella terminologia del filosofo tedesco del XVIII sec., che incontreremo alla fine dell’anno, Immanuel Kant), come le leggi fondamentali della matematica e della fisica, ma anche le specie viventi, considerate come forme a cui i singoli individui (esemplari) invariabilmente tendono (per cui p.e. una ghianda può solo diventare quercia e non betulla). Non si tratta forse delle “cose” che sono ancora oggetto delle nostre moderne scienze? Chi studia medicina studia il corpo umano (in generale, in idea), non il mio o il tuo corpo umano. Così, chi studia geometria, studia le proprietà del triangolo (non di questo o quel triangolo particolare), cioè dell’idea di triangolo (idea “invisibile”, che nessuna “copia”empirica può compiutamente rappresentare) [per approfondire il significato del mondo delle idee di Platone leggi qui].
Il problema della scaturigine del “mondo delle idee” dall’Uno non è, dunque, altro, in termini moderni, che il problema dell’origine, non di questo universo fisico, ma delle leggi fondamentali (e delle eventuali forme a priori) che presiedono alla sua evoluzione (p.e. la legge di gravitazione universale ecc.).
Certo, come vedremo soprattutto in quinta, oggi si ritiene, per lo più, sulla scia di Darwin, che le forme dei viventi (le species, termine che in latino significa “immagine”, “forma”) siano il frutto casuale della lotta per la sopravvivenza degli individui, cioè della selezione naturale, e non forme a priori che attraggano a sé la materia, quando questa le contenga in potenza (secondo la dottrina di Aristotele, ma, appunto, anche di Plotino). Tuttavia, anche in questa ipotesi “moderna”, una volta che la forma è stata “selezionata” (in rapporto a un determinato ambiente a cui essa si rivela funzionale, p.e. acquatico, cioè che, in un certo senso, la richiedeva), essa, rispetto al singolo individuo, funge da “attrattore” (nello sviluppo dal genotipo al fenotipo del singolo vivente, p.e. della ghianda in quercia o dell’embrione umano all’uomo adulto), secondo meccanismi tutt’altro che noti in tutta la loro ampiezza.
Anche la terza ipostasi o “anima” (del mondo), evocata nel Credo cristiano quando si dice che lo Spirito Santo “dà la vita”, può sembrare qualcosa di strano, ma, se ci si riflette, essa esprime l’esigenza, tuttora viva, di comprendere il senso del divenire. L’universo non è un insieme di leggi e di forme eterne, ma “si muove” nel “tempo”. Sembra una cosa scontata, ma così non è. Perché questo accade? Verso dove le cose tendono?
Oggi si suppone che sussistano “campi di forze” di vario tipo (gravitazionali, elettromagnetici, nucleari ecc.) che, in assenza di ostacoli e resistenza, tendono ad accelerare ciò che è loro soggetto (masse, cariche ecc.) verso qualche direzione, in generale verso un punto in cui il campo stesso si annulla. Mentre ciò accade cresce il disordine “al contorno” (di cui possiamo considerare “misura” la grandezza fisica denominata entropia). Per esempio l’energia meccanica tende a degradarsi in energia termica, mentre non è possibile ritrasformare tutta l’energia termica in energia meccanica (secondo principio della termodinamica). Rimane fermo che, almeno secondo la fisica classica e relativistica (le cose cambiano leggermente in fisica quantistica), la quantità complessiva di energia (l’essere di Parmenide, Platone, Plotino) è costante (non si crea e non si distrugge, ma soltanto si trasforma, nella formulazione del fisico francese del XVIII sec. Lavoisier).
Nella concezione antica, ripresa da Plotino, ma sviluppata soprattutto da Aristotele, si registra una sorta di conflitto (come avrebbe detto probabilmente Eraclito) tra la tendenza dei viventi (compreso lo stesso cosmo sensibile, concepito da Platone, nel Timeo, come Dio visibile) alla loro forma e la tendenza contraria, “entropica”, originata dalla “materia” (intesa come specchio ingannevole e caotico, “[quasi un] non essere”, scrive Plotino), alla dissoluzione della forma (che si sperimenta con la morte e la decomposizione del corpo dei viventi).
N.B. La materia in senso antico è ciò di cui le cose sono fatte, un sostrato caotico, che p.e. l’artefice (un artigiano, uno scultore ecc.) cerca di “governare” imponendogli una forma. Solo gradualmente si è sviluppata la concezione moderna (attestata in Cartesio e Newton, nel XVII sec.) della materia come “sostanza” contraddistinta da una misura ben precisa (la “massa”) e da proprietà altrettanto determinate (come l’impenetrabilità, ad esempio, o l’indistruttibilità). Tuttavia oggi noi sappiamo che tale “materia” non propriamente esiste: lo spazio è solcato da campi di forze e “punteggiato” da particelle puntiformi (inestese), una delle quali, da tempo teorizzata e recentemente scoperta nell’LHC di Ginvera, il bosone di Higgs, attraverso il c.d. “campo di Higgs” è responsabile di quella che chiamiamo “massa” (che, dunque, non è misura della “quantità di materia” contenuta in un corpo, se non in senso ancora una volta “metaforico”).
Secondo la prospettiva antica (elaborata da Aristotele e ricapitolata da Plotino in riferimento al “livello” ipostatico dell’anima del mondo) per spiegare l’emergere delle forme (soprattutto della vita) non basta introdurre cause meccaniche (efficienti e materiali), come pensavano gli antichi atomisti (da Democrito a Epicuro e oltre) e pensano i moderni “materialisti” o “positivisti”, sulla scia di una certa interpretazione della scienza moderna, ma bisogna introdurre anche cause formali (cioè le idee o forme o specie o essenze eterne delle cose) che, in quanto attraggono a sé ciò che le contiene in potenza, si rivelano, nel tempo, cause finali.
Se ci riflettiamo, ancor oggi, senza accorgercene, spesso presupponiamo tali cause, anche se non le chiamiamo più così, e le presupponiamo proprio quando vogliamo distinguere una “cosa” dall’altra. Ad esempio, un fegato non è tale per la sua forma sensibile (vagamente triangolare) e neppure per la “sostanza” (materia) di cui è fatto, ma è considerato tale (altrimenti sarebbe un “finto” fegato) per la funzione che assolve (di purificare il sangue), che, in ultima analisi, è il fine per cui esiste (è) nell’ordine, a sua volta finalizzato, dell’organismo (quale che sia storicamente l’origine della funzione del fegato, la volontà di Dio o la selezione naturale casuale dei caratteri di un organismo).
In questo quadro l’anima, tanto del mondo, quanto di ogni singola “cosa” (che, in quanto ha un’anima, è viva), non è che la forza (il campo “morfogenetico”) che tende alla forma sia che favorisca lo sviluppo di un vivente dall’embrione alla forma adulta, sia che, mediante il metabolismo (nutrizione ed escrezione, attività che richiedono il movimento del corpo), essa conservi tale forma (la difenda dall’altrimenti inevitabile degrado e consunzione), sia, infine, che, attraverso l’amore o èros (celebrato, come sappiamo, soprattutto da Platone nel Simposio, ma studiato anche da Aristotele come forza naturale), miri alla riproduzione della forma (come scrive Platone, attraverso la prole, il vivente, destinato, come individuo, a morire, diventa, come specie, immortale).
La riflessione sull’anima ci conduce al cuore della dottrina (neo)platonica [secondo Plotino si tratterebbe, in effetti, della stessa dottrina platonica, anzi di una tradizione immemorabile che risalirebbe all’orfismo e al pitagorismo e attraverserebbe tutta la filosofia greca; prospettiva che sembrerebbe parzialmente confermata dagli studi della c.d. “scuola di Tubinga” sulle c.d. “dottrine non scritte” o “esoteriche” di Platone]. La domanda di fondo è, infatti, “Chi siamo noi?”.
In generale in filosofia le questioni etiche, relative, cioè, a quello che è bene fare o essere (ossia alla nostra destinazione o vocazione o, ancora, al tipo di “virtù” che dovremmo coltivare), si risolvono a seconda di come si risolvono le questioni ontologiche, relative all’essere (a che cosa, in generale, sono le cose), dunque cosmologiche, fisiche ecc.
Nella tradizione platonica (che ricorda tradizioni parallele soprattutto di ambito hindu e influenzò, verosimilmente, se stiamo ad es. ai Philosophumena di Ippolito degli inizi del III sec. d. C., diverse “eresie” cristiane come la gnosi), a partire dalla “dimostrazione” dell’immortalità dell’anima (soggetta a differenti forme di “metempsicosi” o “reincarnazione” a seconda, non tanto di “giudizi” divini post mortem [se non in via metaforica], quanto del tipo di educazione a cui abbiamo sottoposto i nostri desideri durante questa vita), si tratta, “semplicemente”, di riconoscere che ciascuno di noi non è altro che “Dio” (altro nome per indicare il principio), “caduto” nel mondo materiale (“Dioniso”, come scrive mitologicamente/allegoricamente Plotino, ingannato dallo “specchio” rappresentato dalla materia), dimentico della propria natura divina, illusoriamente persuaso di abitare un corpo in un mondo in divenire.
Per conseguire tale “riconoscimento” o “rimemorazione” (anàmnesi) con un atto che, in ultima analisi, è di èkstasis (cioè di uscita fuori di sé, dal proprio “io” apparente) e di ènosis (cioè di unificazione col principio che noi stessi siamo) il percorso da seguire non è altro che quello già indicato da Platone per l’educazione dei custodi della città [al riguardo basta leggere la prima parte di questa pagina], ma orientato in senso decisamente mistico-religioso.
Ecco un’antologia di testi di Plotino.