Oggi, dopo Marx, siamo abituati a pensare in modo abbastanza schematico che a una fase storica di lotta tra borghesia e aristocrazia (culminata, nel continente, con la rivoluzione francese) sia subentrata in Europa, dopo la rivoluzione industriale, una fase storica di lotta tra proletariato e borghesia.
Tuttavia, al tempo della rivoluzione francese, ci si rappresentava il conflitto esclusivamente come lotta tra il Terzo Stato, ossia il popolo nel suo complesso, e il ceto, parassitario, dei privilegiati (aristocrazia e alto clero), senza immaginare che, all’interno del “popolo”, dovessero prodursi ulteriori, profonde fratture. Da tale rappresentazione “idealizzata” si sviluppò, ad esempio, nell’Ottocento la concezione di Henri de Saint-Simon, talora considerata (frettolosamente) “socialista”, che contrapponeva gli “industriali” (comprendenti senza distinzione datori di lavoro e lavoratori) ai ceti parassitari (cfr. Il nuovo cristianesimo del 1825). Cfr. il manuale (di Filosofia), Saint-Simon, pp. 121-22.
È vero che, durante la rivoluzione francese, vero e proprio laboratorio politico, durante la quale sono stati sinteticamente anticipati una serie di “esperimenti” costituzionali che, in seguito, furono ripresi con più “respiro” (la monarchia costituzione, la repubblica democratica, la dittatura rivoluzionaria, la repubblica moderata, l’impero borghese), si registrò anche la “congiura degli eguali” di Gracco Babeuf, un tentativo (fallito) di instaurare un regime “comunistico”, che avrebbe ispirato l’opera cospirativa di Filippo Buonarroti e della setta degli Adelfi nella prima metà dell’Ottocento. Tuttavia, nel pensiero di questi rivoluzionari si trattava di portare alle estreme conseguenze quel principio di eguaglianza (egalité) tra tutti gli esseri umani (o, quanto meno, tra i maschi maggiorenni) che era già stato ampiamente proclamato dalla rivoluzione francese e, prima ancora, dai philosophes illuministi che l’avevano ispirata (alcuni dei quali, come Morelly e Meslier, avevano del resto già anticipato concezioni dichiaratamente comunistiche, che potrebbero essere fatte risalire, in età moderna, all’Utopia di Tommaso Moro del 1516). In altre parole, queste dottrine e questi tentativi rivoluzionari comunistici non si ponevano ancora esplicitamente in contrapposizione alle dottrine “borghesi” dell’illuminismo, ma intendevano costituirne piuttosto il compimento (come dimostra ad es. il fatto che la setta segreta degli Adelfi distingueva diversi livelli di iniziazione, come se la battaglia per i diritti civili condotta dagli adepti di primo livello fosse propedeutica alla battaglia per i diritti politici degli adepti di secondo di livello e a quella per i diritti sociali degli adepti di terzo livello).
Tra le dottrine considerate da Marx utopistiche (proprio evocando l’Utopia di Moro) sviluppatesi in questo periodo possiamo ricordare anche quella di Charles Fourier (cfr. manuale [di Filosofia], Fourier, p. 122), in un certo senso sperimentata (senza successo) da Robert Owen: l’idea di fondo è che si possano realizzare “isole” felici in cui produrre ciò di cui si ha bisogno in armonia, ciascuno esprimendo le proprie capacità, senza costrizione, quasi fosse un gioco, sulla base di una valorizzazione delle cosiddette “serie passionali”. Il limite di questi progetti/esperimenti (simili a tanti altri di epoche successive, dalla Comune di Parigi alle comuni gestite autarchicamente da gruppi di giovani all’indomani del 1968) sembrerebbe, oltre alla sottovalutazione del latente conflitto di classe tra imprenditori e produttori, quello di non tener conto del contesto storico-economico. Chi, come Owen, dà vita ad aziende “modello”, nelle quali i lavoratori non sono sfruttati, ma pagati equamente, provvisti di assicurazioni contro gli infortuni ecc., è costretto a vendere i prodotti che ne derivano a prezzi “fuori mercato” per compensare un costo del lavoro necessariamente enormemente lievitato e inevitabilmente fallisce.
Analogamente anche la proposta di Proudhon che i lavoratori si organizzino spontaneamente in cooperative (diventando quindi simultaneamente proprietari e dipendenti delle proprie aziende) non risolve questo ordine di problemi: infatti, o i lavoratori si assegnano salari sufficientemente bassi (paragonabili a quelli dei loro colleghi altrove sfruttati dagli imprenditori) per rendere competitiva la propria cooperativa e sono disposti perfino a licenziarsi (a fronte p.e. di processi di intensa meccanizzazione del lavoro) per il bene dell’azienda (cosa scarsamente verosimile, essendo essi stessi i proprietari dell’azienda), oppure anche questo genere di impresa è destinata al fallimento (in un contesto di capitalismo selvaggio).
Ecco perché il citato Robert Owen comprese la necessità di sostenere l’azione sindacale (partecipando allo sviluppo delle nascenti Trade Unions inglesi) come sola via per negoziare a livello nazionale migliori condizioni per i lavoratori, senza che questo svantaggiasse singole aziende rispetto ad altre.
Storicamente possiamo forse rintracciare nei moti dei canuts di Lione degli anni ’30 dell’Ottocento il primo barlume di “coscienza di classe” proletaria, cioè la consapevolezza che gli interessi degli operai erano diametralmente opposti a quelli dei loro datori di lavoro.
Poi, certo, registriamo la pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, del 1848, in cui la “nuova” lotta di classe tra proletariato e borghesia è messa a tema.
Ma da che cosa scaturisce questa “frattura” all’intero del “popolo” tra “borghesi” e “proletari” (a lungo misconosciuta e ancora rifiutata, in quelli stessi anni, dai “repubblicani” e dai “democratici” come Mazzini, Cattaneo ecc., come sarebbe stata respinta in seguito da cattolici, nazionalisti e fascisti, in generale da tutti coloro che contrapponevano alla lotta di classe la collaborazione tra le classi)?
Schematicamente si può individuare la scaturigine di questa frattura in un’aporia del “liberalismo”, cioè della dottrina politica che difende ad oltranza le libertà fondamentali cioè i diritti “naturali” (“imprescrittibili”) degli uomini (precisamente dei maschi maggiorenni): la libertà personale (habeas corpus), di pensiero, di religione, di parola, di stampa, di associazione ecc. In tale dottrina, esposta in maniera paradigmatica nella francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, tra i diritti fondamentali (a garanzia, si potrebbe anche precisare, degli altri diritti) è inserito il diritto di proprietà, anzi la proprietà è addirittura proclamata sacra. Il problema è che la crescente ineguaglianza nelle distribuzione delle proprietà (segnalata già da Jean-Jacques Rousseau nel Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini del 1755 e denunciata di nuovo da Pierre-Joseph Proudhon che, in Che cos’è la proprietà? del 1840, enunciò la famosa sentenza: “La proprietà è un furto!” e poi di nuovo, soprattutto, nel Sistema delle contraddizioni economiche o filosofia della miseria del 1846, cfr. il manuale [di Filosofia], Proudhon, pp. 122-23) ha per effetto, nel lungo termine, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, cioè dei “proprietari” dei mezzi di produzione (terre o fabbriche) sui chi non ne possiede (i proletari). Come è noto, Marx, soprattutto ne Il capitale (1867 e ss.), ha analizzato finemente il meccanismo economico che fa sì che questa frattura tra detentori dei mezzi di produzione (cioè capitalisti) e proletari, in assenza di interventi dello Stato o di lotte politiche e sindacali da parte dei proletari stessi, diventi sempre più profonda.
Bisogna anche considerare l’evoluzione dei rapporti contrattuali tra datori di lavoro e lavoratori. Nel domestic system che ha preceduto il factory system l’imprenditore era il mercante che acquistava non tanto (almeno formalmente) il lavoro, quanto il prodotto del lavoro dell’artigiano, il quale conservava, perciò, una certa autonomia. Per quanto il mercante tendesse ad esercitare un potere contrattuale sempre maggiore, l’artigiano (spesso un contadino o una contadina che, nei ritagli di tempo dal lavoro dei campi, si dedicava p.e. alla tessitura) conservava “margini di libertà” (poteva scegliere quando e come produrre, anche se sempre meno che cosa produrre) che l’operaio avrebbe perduto. Nel factory system, infatti, l’imprenditore era il proprietario della fabbrica (dunque deteneva completamente i mezzi di produzione e dettava anche i ritmi della stessa produzione) e aveva acquistato direttamente il lavoro (trasformato, perciò, in merce, di valore decrescente a causa della crescente concorrenza tra proletari) di un operaio sempre meno specializzato e sempre più asservito alla logica della produttività capitalistica. Alla formale eguaglianza giuridica tra cittadini faceva da contraltare, dunque, la crescente ineguaglianza economica tra cittadini appartenenti a classi diverse.
D’altra parte, attentare alla proprietà privata significava violare uno “spazio” sacro, limitare la stessa libertà (d’intraprendere) degli uomini, minacciare tutte le altre libertà fondamentali (come effettivamente accadde storicamente nei Paesi in cui si sperimentò la collettivizzazione forzata). Ciò spiega, se non giustifica, la resistenza di molti liberali all’estensione del suffragio durante l’Ottocento (contraddicendo, apparentemente, il principio della libera autodeterminazione degli uomini, che invitava a estendere a tutti i diritti politici), difendendo il principio che potessero partecipare alla vita politica solo coloro che disponessero di un certo reddito. Il timore era che il “popolo”, in maggioranza costituito da proletari, si servisse del potere politico per confiscare i beni dei ricchi senza indennizzo, violando la loro libertà personale e precipitando gli Stati in nuove forme di “terrore” rivoluzionario.
La difesa strenua della libertà di intraprendere e di contrattare spiega anche la resistenza decennale a riconoscere il diritto di sciopero. In Francia ad esempio il divieto sia di scioperare sia di organizzarsi, da parte p.e. degli operai, in leghe o associazioni di mutuo soccorso risale alla famigerata legge Le Chapelier che fu voluta non già da un monarca assoluto, ma dall’assemblea nazionale costituente nel 1791, durante la rivoluzione francese. Il principio è semplice: il rapporto di lavoro è regolato da un contratto tra uomini liberi: se le condizioni non sono più soddisfacenti per il lavoratore, questi è libero di licenziarsi, ma scioperare o agire in qualsiasi modo per “costringere” il datore di lavoro a modificare i termini contrattuali non è altro che una forma di violenza e una palese violazione del contratto stipulato, un attentato alla libertà del datore di lavoro.
I primi socialisti (Robert Owen, Charles Fourier ecc.), che non intendevano mettere in discussione le libertà fondamentali sancite dalla rivoluzione francese (o, nel caso di Owen, dalla Declaration of rights inglese del 1689), si limitavano a constatare e a denunciare il fatto che i proletari si trovavano, nei confronti dei borghesi, a causa della loro “miseria”, in una situazione di “debolezza contrattuale”, di svantaggio, che li rendevano “ricattabili”. Restando nella logica “liberale” i socialisti (chiamati da Marx “utopisti” per le loro aspettative, secondo Marx, illusorie) si limitavano, quindi, ad auspicare (attraverso un’opera fondamentalmente pubblicistica) una più equa distribuzione della ricchezza “iniziale” (attraverso p.e. forti tasse di successione, che avrebbero dovuto ostacolare la trasmissione ereditaria dei patrimoni), affinché ciascuno se la potesse “giocare” in condizioni il più possibile di “pari opportunità” con gli altri.
Il problema è che non è possibile, a quanto pare, garantire queste pari opportunità se non “espropriando” almeno parzialmente i “ricchi” (magari divenuti tali per la loro intraprendenza, cioè per i loro meriti personali), dunque violando “ingiustamente” le loro libertà. Una “via intermedia” tra l’espropriazione senza indennizzo delle grandi proprietà immobiliari e il mantenimento dello status quo poteva essere (e in qualche caso fu, come, tardivamente, negli anni ’50 del Novecento in Italia) la “riforma agraria”, ossia l’espropriazione parziale a favore dei contadini dei latifondi trascurati o abbandonati (cioè non fatti fruttare) dai loro proprietari.