La rivoluzione inglese, relativamente meno studiata delle più celebri rivoluzioni americana e, soprattutto, francese del Settecento, ha una grande rilevanza storica. Essa può essere considerata l’ultima delle guerre di religione del Cinque- Seicento e la prima grande rivoluzione moderna, diretta ad affermare i diritti civili e politici dei sudditi/cittadini contro le pretese assolutistiche dei re o, più in generale, dello Stato.
Il linguaggio dei protagonisti della rivoluzione rimane religioso, ma, dietro la “facciata” religiosa, possiamo distinguere già il profilo di rivendicazioni di tipo politico-giuridico.
Consideriamo, ad esempio, la distinzione tra i tre principali modelli di organizzazione ecclesiale in ambito protestante:
- anglicano, diffuso in Inghilterra, piramidale, fortemente gerarchico, basato sul potere dei vescovi e, soprattutto, del capo della Chiesa (il re), sul modello della gerarchia cattolica (al cattolicesimo nelle isole britanniche aderivano ancora molti, soprattutto in Irlanda, ma, dopo lo scisma di Enrico VIII del 1534, la gerarchia “papale” vi era stata disarticolata e i cattolici furono combattuti praticamente da tutti i gruppi protestanti);
- presbiteriano, diffuso in Scozia, basato sul potere consiliare dei “presbiteri” o anziani, sul modello del concistoro ginevrino di Calvino;
- puritano (oggi si direbbe: congregazionista), diffuso in Inghilterra, quindi nelle Americhe (cfr. spedizione del Mayflower in Massachusetts nel 1620, la fuga negli anni successivi dei quaccheri in Pennsylvania ecc.) , in opposizione soprattutto al modello anglicano, basato su una sostanziale eguaglianza tra i fedeli, che nominavano i loro pastori e decidevano democraticamente (ovviamente ci riferiamo sempre ai maschi maggiorenni, proprietari, eventualmente con un minimo di disponibilità economica) sulle principali questioni.
Come si può notare a ciascun modello di chiesa corrisponde un modello di organizzazione socio-politica, emersa esplicitamente durante la rivoluzione. In particolare, poi, nel campo puritano emersero tendenze sempre più pronunciatamente egualitarie, quelle dei levellers (favorevoli al suffragio universale maschile), quelle dei diggers (favorevoli a una forma di comunismo economico) ecc.
D’altra parte questi diversi modelli di società venivano giustificati su basi fondamentalmente bibliche, appellandosi a questo o quel passo soprattutto profetico o apocalittico.
Questo ci dice qualcosa dei fondamenti “inconsciamente” religiosi di certe rivendicazioni successive di diritti civili e politici (e anche socio-economici), nelle quali verrà meno l’istanza religiosa, ma che, a una più attenta analisi, potrebbero rappresentare nient’altro che una forma di “millenarismo” (o messianismo) secolarizzato (laicizzato). In questa prospettiva alcuni hanno letto sia la fiducia illuministica nel progresso, sia l’utopia del comunismo contemporaneo.
Si può anche ricordare che quanto emerse in maniera “esplosiva” durante la prima rivoluzione inglese degli anni Quaranta del Seicento (così denominata per distinguerla dalla cosiddetta “glorious revolution” del 1689), in particolare la forma repubblicana dello Stato rivoluzionario (“common-wealth” era la traduzione del latino “res publica“), era già stato anticipato dalla guerra d’indipendenza olandese contro gli Spagnoli combattuta tra Cinque e Seicento e culminata nella nascita della repubblica delle province unite (contraddistinte da una certa libertà religiosa), presso la quale si rifugiarono o, comunque, vissero, come sappiamo, anche molti intellettuali e filosofi europei, timorosi di persecuzione altrove (tra cui Cartesio e Spinoza).
Per comprendere come si giunse anche in Inghilterra alla proclamazione della repubblica, con particolare riguardo al fallimento dei progetti assolutistici di Giacomo I e di Carlo I Stuart (decapitato nel 1649, primo re a venire giustiziato dal suo stesso popolo) e all’emergere della figura di Oliver Cromwell, e per meditare sul fatto, confermato da numerosi altri casi storici, che da rivoluzioni ampiamente giustificate da rivendicazioni da parte del popolo di diritti conculcati dai sovrani scaturiscano spesso (non sempre però, cfr. il caso, che approfondiremo, della rivoluzione americana) opprimenti dittature (rese necessarie sovente dalla necessità di ripristinare l’ordine dopo il caos rivoluzionario e lo scardinamento dei sistemi giuridici e politici antecedenti), cfr. vol 1, cap. 19, § 3-4, pp. 400-408 e questa puntata de Il tempo e la storia.
Alla rivoluzione inglese (che gli Inglesi preferiscono chiamare “civil war“) fece seguito, dopo a caduta di Cromwell e il ritorno degli Stuart (1660-89), una seconda rivoluzione (che gli Inglesi chiamano “glorious revolution“, per il mancato spargimento di sangue che comportò, soprattutto in Inghilterra, o semplicemente “revolution“) nel 1689 (esattamente 100 anni prima della più celebre Rivoluzione Francese). Fu questa seconda rivoluzione, che portò al potere Guglielmo d’Orange e la moglie Maria II Stuart (al posto del cattolico Giacomo II Stuart, subentrato al fratello Carlo II nel 1685, entrambi più o meno scopertamente intenzionati – nonostante le promesse di Carlo, ancora esule, nella Dichiarazione di Breda del 1660 – a riaffermare l’assolutismo regio e a imporre l’anglicanesimo, se non, addirittura, un ritorno al cattolicesimo), a sancire definitivamente, con la legge sull’Habeas corpus e col Bill of Rights (che si richiamava alla Magna Charta del 1215) la forma costituzionale e parlamentare che assunse (a differenza di quella francese) la monarchia inglese (che, con una serie di variazione e adattamenti in senso democratico, continua ancor oggi). Cfr. vol 1, cap. 19, § 5, pp. 408-11.