Se l’uomo, come ogni creatura, è insieme centro e periferia di un universo infinito, ognuno è tutto e niente, a seconda di come si guarda a se stessi e al mondo. Tutto diviene e nulla è rigidamente stabile. Non è più possibile neppure assumere come fissi certi riferimenti valoriali, soprattutto dopo la scoperta (o riscoperta) dell’esistenza di altre culture e civiltà tanto ad Occidente che ad Oriente dell’Europa.
Campione e fine interprete di questa visione “critica”, che va oltre il (forse) ingenuo ottimismo di Pico della Mirandola, è Michel de la Montaigne. Questi (richiamandosi alla lezione dei sofisti e degli scettici antichi) sviluppa una forma di relativismo culturale ed etico, ispirato dalle notizie provenienti dalle Americhe e dall’Asia, estremamente moderno. Montaigne intuisce anche, tra le righe, come, mentre si approfondisce, per così dire, l’abisso della propria anima, che perde riferimenti stabili, la società europea, nell’età della Controriforma, quasi per reazione alla confusione che si profila, chieda sempre maggiore coerenza morale e religiosa, di “scegliere da che parte stare” e comportarsi di conseguenza. Ne scaturisce una forma di diffusa e strutturale ipocrisia (da “hypokritès” che in greco significa “attore”), cioè una reinterpretazione della società come se trattasse di un “teatro” in cui recitare una parte obbligata, a cui tuttavia la nostra intelligenza (educata alla libertà di pensiero dalla cultura umanistica) ci proibisce di credere fino in fondo (molti tratti dell’arte barocca possono essere interpretati in questa luce, se ci si riflette).
Cfr. U1, testo alle pp. 82-83. S (manuale di storia), I, cap. 11, doc 3, pp. 348-49.