Le aporie della dottrina di Parmenide hanno consentito a Platone, come abbiamo visto, di giustificare la concepibilità di una pluralità di “idee” (o essenze, forme, specie), ciascuna della quali non è l’altra, nel senso che è diversa dall’altra, pur essendo comunque qualcosa (resta, cioè, valido il divieto parmenideo di concepire il non essere assoluto).
Tuttavia la “moltiplicazione” platonica delle idee ancora non ci dice in che relazioni reciproche tali idee o essenze siano. Questo problema, sfiorato certamente anche da Platone, viene approfondito in un modo (che per molti aspetti è tutt’ora considerato insuperato) dal suo principale discepolo, Aristotele, il quale, sviluppandone l’ontologia (la scienza dell’essere), perviene ad articolare una nuova scienza, la logica (la scienza del lògos o del discorso sull‘essere).
L’ontologia si occupa direttamente della relazione delle diverse essenze (come generi e specie, come sostanze, qualità ecc.) quali “si trovano” in natura (viene chiamata anche meta-fisica, nel senso che si occupa dei fondamenti della natura che stanno “oltre” la fisica, la quale, in quanto scienza della physis o natura, come vedremo, tratta piuttosto del divenire che dell’essere) , mentre la logica, specularmente, si occupa dei modo corretto in cui ne possiamo fare parola o vi possiamo ragionare (lògos, in greco, come sappiamo, significa “parola, ragione”, “discorso”). L’ipotesi sottintesa è che, affinché un discorso sia vero, esso debba associare tra loro i termini così come, in natura, sono associate le cose (o essenze) a cui i termini si riferiscono. Come dire: la “grammatica”del nostro linguaggio (la logica) funziona se e solo se è la “grammatica della realtà” (corrisponde all’ontologia).
P.e. se dico “la mela è sul tavolo”, associo, nel mio discorso o lògos, un’essenza a un luogo; in analisi logica diremmo oggi: un soggetto (“la mela”) a un un predicato, in greco “kategorìa”, (“è sul tavolo”) il quale esprime un “modo d’essere” (categoria del luogo), in quanto è costituito dalla copula “è” e da un complemento di luogo (“sul tavolo”). Il mio discorso è vero se effettivamente, in realtà, in natura, una mela si trova sopra un tavolo, dunque bisogna che “esistano” mele (cioè, per essere precisi, che l’essenza universale “mela” possa tradursi, nello spazio e nel tempo, in individui contraddistinti da qualità, quantità ecc.) e che “esistano” tavoli e che sia possibile, in natura, che “cose” (o “sostanze”) si trovino in “luoghi”.
N.B. Per il momento stiamo precisando le condizioni di verità (e falsità) di una proposizione o giudizio, senza interrogarci sui metodi concreti (per induzione, per deduzione, per esperienza, attraverso esperimenti, sulla base di testimonianze, per intuizione, per intellezione, sulla base del consenso universale ecc.) per verificare o falsificare i nostri giudizi, questione difficilissima e, in un certo senso, ancor oggi irrisolta.
La logica di Aristotele (che, per la verità, egli considerava semplicemente uno strumento, òrganon, della filosofia… il termine “logica” è successivo, di origine stoica), in quanto corrisponde biunivocamente a un’ontologia, dipende dai modi in cui si articola l’essere (la pluralità delle essenze), che sono principalmente i seguenti (oltre ai quali un’altra fondamentale distinzione, che introduce Aristotele per spiegare il mistero del “divenire”, è quella tra “potenza” e “atto”, della quale, tuttavia, ci occuperemo in un modulo successivo):
- come genere e come specie
- come essenza e come un’altra categoria (qualità, quantità ecc.)
- come proprietà e come accidente
Quest’ultima distinzione permette ad Aristotele di stabilire come definire le essenze.
N. B. Mentre possiamo definire e conoscere le essenze, in quanto universali (l’uomo o il triangolo in generale), come già sapeva Platone, non possiamo definire e conoscere gli individui.
Cfr. U4, cap. 2, pp. 304-5 (I significati dell’essere e la sostanza); pp. 306-7 (La sostanza)
Dopo aver fatto tutte queste distinzioni fondamentalmente ontologiche, Aristotele può “lanciarsi” nel costruire la sua logica, per la quale sono rilevanti due teorie:
- la teoria del giudizio (che discute quali caratteristiche deve avere una proposizione per essere, non solo coerente, ma anche vera)
- la teoria del sillogismo (che discute come deve essere costruito un ragionamento per essere coerente e vero, qualora le sue premesse siano vere)
Cfr. U4, cap. 2, § 2, pp. 313-19 (sorvolando sulla tipologia delle proposizioni e sui modi della predicazione, trattati a p. 316).
Una teoria indipendente del sillogismo è sviluppata dagli stoici. La logica stoica (la prima esplicitamente denominata così) costituisce il “guscio” della dottrina stoica (celebre per la sua sezione “etica”, insegnata e praticata da illustri filosofi come Seneca, l’imperatore Marco Aurelio, Epitteto ecc., sulla qual ritorneremo):
La logica stoica si distingue da quella aristotelica per essere una logica proposizionale, non predicativa.
Mentre la logica predicativa aristotelica tratta dei rapporti logici tra essenze o forme (le idee di Platone) in quanto p.e. l’una è il genere dell’altra ovvero l’una esprime un’essenza vera e propria mentre l’altra ne esprime un possibile accidente ecc. (e, a questo fine, esamina i legami tra le parti di ciascuna proposizione, ossia soggetto e predicato), la logica proposizionale stoica tratta dei rapporti “causali” tra eventi possibili (e, a questo, fine considera la proposizione l’elemento base, “atomico”, non ulteriormente scomponibile).
Cfr. manuale 1B, U5, cap. 2, pp. 413-14 (La teoria del ragionamento anapodittico).
La logica stoica, come del resto anche quella aristotelica, presuppone che il modo nel quale organizziamo il nostro pensiero con il discorso (lògos) corrisponda biunivocamente al modo in cui la Natura organizza se stessa, quasi che la natura facesse a se stessa un discorso, un Lògos con la L maiuscola, di cui quello che noi rivolgiamo a noi stessi e agli altri, quando la studiamo scientificamente, non sarebbe che un’immagine.
In effetti secondo gli stoici il cosmo è organizzato razionalmente dal Lògos universale, un Dio che tutto pervade (chiamato anche Spirito o pneuma), di cui anche noi possediamo una scintilla (che si manifesta quando, appunto, ragioniamo).
Si tratta, a ben vedere, di uno sviluppo della dottrina del Lògos di Eraclito: chi ascoltava il “discorso” di Eraclito stesso, in quanto sapiente, si sarebbe messo, in verità, in ascolto del Lògos cosmico.
Cfr. U1, Percorso 3, T9, p. 83; cfr. anche il capoverso su Il lògos a p. 30.
Proprio questa dottrina del Lògos, che attraversa in modo esplicito (in Eraclito e negli stoici) o implicito (nei pitagorici, che si rappresentano il cosmo organizzato matematicamente, in Platone, in Aristotele ecc.) tutta la filosofia greca, sarà poi ripresa in ambito ebraico (da Filone di Alessandria) e cristiano (a partire dall’incipit del Vangelo di Giovanni: “In principio era il Lògos, il Lògos era presso Dio, il Lògos era Dio”), nonché nel cosiddetto neoplatonismo tardo-antico.
In queste dottrine il Lògos diventa il “pensiero” o la “sapienza” di Dio (Dio del quale le “idee” platoniche diventano i “pensieri eterni”), mediante il quale “tutte le cose sono state fatte” (le cose sensibili, i fenomeni), come dice ancora, richiamando Filone di Alessandria, il Prologo del Vangelo di Giovanni (che successivamente identifica questo Lògos in Gesù Cristo che ne sarebbe l’incarnazione, ma questo concerne la specifica dottrina cristiana)-.
Ciò spiegherebbe la ragione per quale noi riusciamo sorprendentemente con la nostra mente a comprendere la natura.
Albert Einstein una volta scrisse:
L'eterno mistero del mondo è la sua comprensibilità [...] Il fatto che sia comprensibile è un miracolo. [da Fisica e realtà, in "Franklin Institute Journal", 1936].
Secondo la dottrina del Lògos, la nostra mente, lungi dall’essersi evoluta casualmente solo per risolvere problemi di sopravvivenza, sarebbe simile alla mente di Dio, cioè dell’architetto del mondo: noi riusciremmo a comprendere la natura, semplicemente perché Dio, che l’ha “fatta”, nel farla avrebbe “ragionato” in modo simile a come ragioniamo noi (ad esempio, avrebbe assegnato “funzioni” a certe strutture, p.e. alle ali degli uccelli la funzione di permettere il loro volo, proprio come anche noi assegniamo “funzioni” a quello che costruiamo, p.e. alle ruote dei carri la funzione di permettere la loro locomozione).
Come vedremo, queste “funzioni”, tali per cui le forme delle cose sono tutte così armoniosamente interconnesse e interdipendenti, sono ciò che Aristotele denomina cause finali.