Alla luce della complessiva dottrina platonica dell’anima e dell’amore, secondo la quale saremmo quasi prigionieri del nostro corpo (come di una tomba o caverna), desiderosi anche inconsapevolmente di uscirne (come ci suggerisce il brivido amoroso che ci prende quando vediamo qualcosa di bello che ci ricorda la nostra origine), dimentichi tuttavia della nostra origine, che, però, possiamo cercare di “ricordare” o di “riconoscere” con atti di intuizione intellettuale favoriti dalla “purificazione” dialettica, possiamo meglio intendere il senso del metodo socratico, quale è testimoniato dagli scritti di Platone.
Cfr. p.e. il brano dell’Eutifrone che abbiamo esaminato, U3, P1, T1, pp. 247-48.
Attraverso i passaggi del non sapere e dell’ironia Socrate esercita sui suoi allievi un’attività “maieutica” (“ostetrica”), per aiutarli a partorire ciò che essi hanno “amorosamente” generato con la loro anima (i loro pensieri), per verificare se si tratti di qualcosa di vivo (di “vero”) o di un fantasma (di una menzogna). Quest’ultimo caso si verifica quando il “parto” del discepolo ha conseguenze assurde, contraddittorie, cioè sfocia in un’aporia (dall’arte del dialogo socratico deriva, infatti, come sappiamo, la dialettica platonica intesa come arte della dimostrazione per assurdo). Ciò che resiste ai tentativi di confutazione di Socrate non è automaticamente vero, ma potrebbe esserlo. Posso “intuire” che lo sia se, improvvisamente, “me ne ricordo”, ne ho l’intelligenza o comprensione. Come è possibile? Socrate, in effetti, non insegna ai suoi discepoli alcunché, ma si limita a favorire il “parto” di qualcosa di cui il discepolo, in quanto essere umano, poteva già essere “gravido”. Come è possibile che un allievo sappia già quello che il suo maestro vuole fargli riconoscere? Evidentemente perché lo già “visto” prima di nascere (o, in termini meno mitologici, è già presente in lui come conoscenza “innata”, non acquisita tramite esperienza), ma, semplicemente, non se ne ricorda. Il “maestro” (anche un insegnante) dunque è efficace non se ci insegna cose che non possiamo comprendere (p.e. a ripetere parole che non intendiamo), ma a comprendere quello che già sappiamo ma su cui non abbiamo mai, per così dire, riflettuto.
Cfr. U2, cap. 2, § 5, pp. 131-133; U2, P3, T8, pp. 168-71.