La filosofia moderna si contraddistingue per la sua assoluta novità anche nel campo del pensiero politico.
Per una sintesi e un rapido inquadramento storico generale cfr. il manuale di storia, § 17.3, pp. 540-47.
In Inghilterra, in particolare, culla (già dal Medioevo) dell’approccio empiristico (inaugurato nella forma moderna, segnata da un acceso sperimentalismo, da Francesco Bacone), nasce e si sviluppa la nuova concezione del potere politico del sovrano come fondato non sul diritto divino o sulla tradizione dinastica (cioè su basi feudali), bensì su un contratto sociale, dunque, in definitiva, come potere non originario, bensì delegato dall’effettivo sovrano, il popolo (concezione, per la verità, che si poteva trarre anche da una certa interpretazione del diritto romano e che, nel Medioevo, sul continente europeo, fu tratta già, nel Trecento, da Marsilio da Padova, mentre in Inghilterra lo fu da Guglielmo di Occam).
Tale dottrina, nella sua forma moderna, “cartesiana”, nasce con un autore davvero paradossale, l’inglese Thomas Hobbes. Egli, infatti, la elabora non già per giustificare (come ci si potrebbe attendere) il diritto dei sudditi a resistere al sovrano che violasse il patto costituzionale o, magari, a deporlo per sostituirlo con un altro a gradimento dei sudditi stessi (come sarà poi la dottrina di John Locke e, in generale, dei costituzionalisti e dei liberali e, poi, democratici moderni), ma per argomentare il fondamento dell’assolutismo regio, partendo da premesse del tutto diverse, anzi opposte rispetto a quelle p.e. di Jean Bodin.
Per comprendere il pensiero di Hobbes, a partire dal suo radicale materialismo, ispirato a Cartesio, ma critico anche nei confronti del “maestro francese”, cfr. U5, cap. 1, pp. 370-385.
Partendo da premesse simili, giunge, invece, a una soluzione politica del tutto diversa, che, come accennato, anticipa moderne vedute liberali e democratiche, l’altro grande filosofo politico inglese del Seicento, attivamente partecipe alla seconda rivoluzione inglese del 1679, cioè John Locke. Cfr. U5, cap. 3, § 6-7, pp. 419-423.
Cfr. anche dal manuale di storia, il D4, p. 560-62 La società politica liberale di John Locke (estratto dal Secondo trattato sul governo del 1690).
Locke si segnala, come si può evincere dal manuale e dal documento riportato nel manuale di storia, non solo per aver teorizzato per primo la “non calpestabilità” dei diritti civili fondamentali e, in rapporto a questo, la divisione tra il potere legislativo (spettante al Parlamento e sovraordinato) e il potere esecutivo (spettante al monarca e al suo governo e subordinato) – divisione a cui si ispirerà Montesquieu a metà del Settecento quando integrerà il quadro con il potere giudiziario -, ma anche per avere sostenuto per la prima volta (nella celebre Lettera sulla tolleranza del 1687) l’idea di tolleranza religiosa per tutte le sette cristiane (salvo atei e cattolici), sulla base del fondamentale argomento che, anche ammesso che una sola fede religiosa sia quella “vera”, essa non potrebbe in alcun modo costringere chi ha una fede diversa a convertirsi, ma solo persuaderlo con ragionamenti, laddove il potere politico si contraddistingue, rispetto a quello religioso, proprio per la facoltà di costringere all’osservanza delle leggi. Dunque il potere politico non ha niente da fare con le opinioni religiose, salvo che con quelle che, per motivi diversi, lo minano (quella cattolica, perché comporta una maggiore fedeltà al Papa, sovrano straniero, che al re d’Inghilterra; quella ateistica, perché chi non crede a nessun Dio non avrebbe alcuna ragione per non commettere delitti, se sa di poter restare impunito, dunque, secondo Locke, è opinione socialmente pericolosa).