I razionalisti ritengono che solo quelle che Galileo chiamava “matematiche dimostrazioni” producano “scienza” (sapere, conoscenza), perché le “sensate esperienze”, essendo basate sui sensi, possono ingannare. Inoltre, per quante volte si assista una determinato fenomeno non si può essere sicuri che ad esso corrisponda veramente una legge universale (potrebbero sempre darsi eccezioni non ancora verificatisi). In altre parole, il procedimento induttivo, che consiste nell’inferire l’universale dal particolare per generalizzazione, è soggetto all’errore, come sapevano perfettamente già i filosofi greci (specialmente gli scettici, ma anche i platonici).
Abbiamo accennato in aula che questo è precisamente il limite del metodo cosiddetto galileiano: per quante osservazioni o esperimenti verifichino un’ipotesi, questa non diventa una “legge” di natura, necessariamente vera, per due fondamentali ragioni:
- nuove osservazioni e nuovi esperimenti, magari più rigorosi o effettuati in “regioni” della conoscenza ancora inesplorate (nell’infinitamente piccolo, lontano dalla superficie terrestre ecc.), potrebbero smentirla;
- le osservazioni e gli esperimenti già effettuati potrebbero essere compatibili anche con altre ipotesi (basta pensare all’esperienza del sorgere quotidiano del Sole, compotabile tanto con modelli geocentrici, quanto con modelli eliocentrici di universo).
Cartesio, in particolare, fa sua l’intuizione di Galileo che l’universo sia scritto in linguaggio matematico. Inventore della geometria analitica, sviluppa un’intuizione a dir poco geniale: che si possa fare “terra bruciata” di sostanze, forme, essenze, qualità ecc. di origine aristotelica (in una parola: di una descrizione “grammaticale” della natura, come se essa rispecchiasse il nostro modo di “raccontarla” con frasi del tipo: “L’albero cresce nella radura” o simili) e che si possa, viceversa, ridurre la realtà a un insieme di punti materiali in movimento all’interno di un sistema di assi “cartesiani” (in una parola: a una descrizione “matematica” della natura, basata sulla neonata “geometria analitica”). Ciò che negli scienziati era ricorso empirico, strumentale alla matematica (cfr. le orbite circolari di Copernico, le leggi di Keplero, l’accelerazione di gravità di Galileo ecc.), in Cartesio diventa una complessiva visione matematica dell’universo, concepito come una gigantesca macchina cieca, obbediente alle leggi di una geometria razionale arricchita, rispetto a quella euclidea, della dimensione temporale.
Cfr. la pagina di questo sito dedicata al meccanicismo cartesiano e U3, cap. 1, § 6, pp. 188-92. Leggi anche questo estratto del libro di Max Jammer, Storia del concetto di forza nella fisica classica e moderna (1960), tr. it. Milano Feltrinelli 1980. Infine approfondisci qui la problematica relativa all’emergere del meccanicismo dall’ “animismo” rinascimentale.
Cartesio, tuttavia, non si limita a reinterpretare in chiave geometrica l’intero universo, sulla scia di Galileo e, più lontanamente, dei pitagorici. Egli compie due mosse decisive che lo rendono davvero rivoluzionario, originalissimo e, in questo senso, davvero nuovo, moderno.
- Per giustificare il suo approccio egli elabora il suo celebre metodo (cfr. U3, cap 1, § 2, pp. 177-79) che, a suo parere, è il solo metodo autenticamente scientifico, a tal punto che non vale neppure la pena confutare precedenti dottrine (come quella p.e. di Aristotele) in quanto non sarebbero state costruite mediante questo metodo stesso e, soprattutto, non avrebbero fondato le loro deduzioni su assiomi dotati delle fondamentale qualità dell’evidenza (o, come anche Cartesio si esprime, della “chiarezza e distinzione”).
- “Non contento”, per così dire, di aver elaborato questo metodo nuovo (che, in effetti, spesso è presupposto ancor oggi nell’indagine scientifica), Cartesio, da grande filosofo, vuole metterlo alla prova, esercitando un duplice dubbio (cfr. U3, cap. 1, § 3, pp. 179-82, di cui legimus in aula i testi T2-4, pp. 202-206):
- metodico (relativo ai sensi), immediatamente superato grazie al metodo stesso (che fa appello a evidenze puramente razionali, paragonabili agli esperimenti mentali di Galileo);
- iperbolico (relativo alla stessa ragione), che gli fa dubitare del suo stesso metodo e, in particolare, del criterio dell’evidenza.
Per uscire da quest’ultimo dubbio, davvero radicale, legato alla fantasia di un ipotetico demone ingannatore, Cartesio introduce la sua celebre tesi:
cogito ergo sum
Si tratta ora di capire come egli possa uscire dall’angolo in cui con i suoi dubbi egli stesso sembra essersi ficcato, correndo il serio rischio del solipsismo; come possa, cioè, a partire dalla sola certezza che gli rimane, quella di esistere, ricostruire il sapere scientifico e la fiducia nel proprio medesimo metodo.
A questo fine Cartesio ricorre alla discutibile dimostrazione dell’esistenza di Dio, dalla quale poi deduce la veridicità di ciò che appare evidente alla ragione (in quanto Dio, a differenza dell’immaginario demone ingannatore, in quanto infinitamente buono, non può avermi dotato di una ragione fallace).
Cfr. U3, cap. 1, § 4, pp. 183-186 [tra le prove dell’esistenza di Dio basti ricordare la prova ontologica che risale ad Anselmo d’Aosta e sarà ripresa in seguito, con variazioni, da Leibniz, Hegel e altri filosofi].
Dimostrato, dunque, che il suo metodo è valido, la “metafisica” od ontologia di Cartesio, sulla base del percorso fin qui svolto, riduce l’essere a due “sostanze”: res cogitans (sostanza pensante, riconosciuta come indubitabile attraverso il “cogito”) e res extensa (estensione o materia, distesa nello spazio e nel tempo “cartesiani”, rilevata mediante una rigorosa applicazione del metodo cartesiano, la cui “realtà” – non si tratta di illusione ottica, di sogno o di “costruzione” meramente soggettiva – scaturirebbe dalla sua stessa evidenza in forza della garanzia offerta da Dio).
Tuttavia tale dualismo cartesiano non è esente da problemi riguardanti il rapporto tra “anima” e “corpo” (privati di qualsivoglia relazione diretta, a differenza di quanto accadeva nell’antico dualismo platonico, secondo il quale il corpo non aveva alcuna autonomia, ma era totalmente dipendente dall’anima nel suo sviluppo e nel suo moto) e, di conseguenza, il libero arbitrio.
Cfr. U3, cap. 1, § 5, pp. 187-188