In un brano del dialogo Sofista Platone commette il cosiddetto “parricidio” di Parmenide.
Dal momento che Parmenide, in quanto lontano “maestro” di Platone, poteva in un certo senso essere considerato un po’ come un “padre” per Platone, Platone, quando sente l’esigenza di “emanciparsi” da Parmenide, perché ha bisogno di considerare l’essere non uno, ma molteplice (frammentato nelle innumerevoli “idee”), deve commettere, metaforicamente, un “parricido” (uccisione del padre), nel senso che deve andare oltre e contro Parmenide (come quando si dice che un bravo allievo deve superare il suo maestro).
Leggi, dunque, il brano in questione e rispondi (nel box qui sotto) alle tre domande che lo corredano e che per comodità riporto qui:
- Perché, secondo Parmenide e lo Straniero di Elea, non è possibile parlare del non essere?
- Quali le conseguenze aporetiche (cioè contraddittorie) del divieto di Parmenide di parlare del “non essere”?
- Come è possibile, nella prospettiva platonica, esposta in questo dialogo, aggirare questo divieto?
Per aiutarti a rispondere e a contestualizzare il testo posso precisare quanto segue.
Il dialogo (che si svolge eccezionalmente tra uno Straniero di Elea, controfigura di Parmenide, e Teeteto, in assenza di Socrate) scaturisce dal problema del “falso”. Se, come dice Parmenide, posso pensare solo “ciò che è”, come faccio a pensare il falso, ad esempio che un cane “non è” una farfalla (o, il che è lo stesso, che è falso che un cane sia una farfalla)? Che significa che qualcosa “non è” un’altra cosa?
A questo fine gli interlocutori del dialogo esaminano le conseguenze del tentativo di pensare “ciò che non è”.
Sorprendentemente, il divieto di Parmenide di pensare ciò che non è (la seconda via del suo poema, che dovrebbe essere impercorribile) presenta qualche crepa, qualche contraddizione… che permetterà alla fine a Platone (attraverso il personaggio dello Straniero) di trovare un modo per intendere (pensare) il “non essere qualcosa”…