Dopo aver studiato l’unità didattica sulla bioetica con tutte le risorse on line e off line a cui essa rinvia (compresa una mia videolezione registrata) considera quanto segue, quindi rispondi in modo argomentato al quesito finale.
Come forse alcuni di voi avranno letto, in questi giorni, a causa dell’emergenza coronavirus, è sempre più grave la situazione dei reparti di terapia intensiva, al punto che alcuni addetti ai lavori si sono chiesti che cosa fare nel caso che la domanda (o il bisogno) di terapia intensiva diventasse superiore all’offerta che il sistema sanitario nazionale è in grado di mettere in campo (in termini di posti letto, ad esempio).
Nasce il problema di fissare criteri di priorità (come nel triage dei pronto soccorso, ma con conseguenze assai più drammatiche), in base ai quali decidere chi ammettere alla terapia intensiva e chi no.La Siaarti (cioè la Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva) ha elaborato linee guida dalle quali sembra di desumere un criterio sarebbe quello della “speranza di vita”. Insomma, si tratterebbe di privilegiare le persone più giovani, con patologie meno gravi ecc.
L’esatta prospettiva etica della Siaarti (e un ulteriore link tecnico alle linee guida) è chiarita qui.
La questione concerne uno dei principi messi in campo dalla bioetica cosiddetta laica, che non considera “tout court” sacra la vita dal concepimento alla tomba (in questa prospettiva, tipica p.e. della Chiesa cattolica, qualunque “scelta” comporti la morte di qualcuno sarebbe immorale e, dunque, nessuno può assumersi la responsabilità di scegliere in tali materie), ma ammette situazioni nelle quali è eticamente legittimo e anzi preferibile “consentire” o perfino provocare la cessazione della vita di qualcuno.
I criteri più noti, avanzati da Beauchamp e Childresse e applicabili al caso p.e. dell’eutanasia, sono questi altri tre: beneficenza (massimizzare il bene delle persone), non malevolenza (minimizzare il male), autonomia (far sì che ciascuno decida della propria vita). In base a questi tre principi si può ammettere, per esempio, che una persona decida di morire se la sua scelta è libera e consapevole (terzo criterio) e se il dolore che patisce è tale da rendere preferibile la morte al proseguimento della vita (combinazione dei principi di beneficenza e di non malevolenza).
Ma esiste anche un quarto criterio avanzato da questi autori e da Mori: quello della “giustizia”, intesa come la migliore allocazione delle risorse per salvare il maggior numero di vite o (ecco la questione delicata) le vite maggiormente meritevoli di essere salvate.
Di solito faccio in aula questo esempio: immaginate che due soldati gravemente feriti attendano il trasferimento in un reparto di terapia intensiva, ma che nella base militare vi siano risorse mediche per salvare uno solo dei due in attesa del trasferimento. Il comandante chi dovrebbe salvare? Il più giovane? O quello, più anziano, con moglie e figlio? O quello che, una volta guarito, sarà più efficace in combattimento?
Se il comandante di rifiutasse di scegliere, per non condannare qualcuno a morte certa, li condannerebbe entrambi. O dovrebbe sperare in un miracolo.
Purtroppo in questi giorni assistiamo al rischio che si presenti, su grande scala, questo dilemma. Se ci si rifiuta di scegliere, perché non si vuole dare diversi “valori” alla vita (p.e. di una anziano rispetto a un giovane), il rischio è che, scegliendo di non scegliere, si finisca per scegliere comunque: i reparti di terapia intensiva si saturerebbero con i “primi arrivati” e quelli che ne avessero bisogno in seguito sarebbero condannati.
- Tu che cosa sceglieresti? E perché?