Dopo aver ripassato l’unità didattica relativa all’economia politica classica (e al pensiero liberale e utilitarista) e quella relativa alla prima rivoluzione industriale, con tutte le risorse on line e off line che le corredano, leggi i docc. 1-3 del manuale di Storia, II, cap. 5, pp. 130-133 e rispondi al seguente quesito.
- Se tu fossi un parlamentare inglese chiamato a decidere a quale delle due petizioni contrapposte dare ragione (esposte rispettivamente nei docc. 2 e 3), conscio dei vantaggi della divisione del lavoro (esposti da Smith nel doc. 1), a chi avresti dato ragione nel contesto storico dato (l’Inghilterra del 1794) e con quali argomentazioni?
Considerando le due petizioni come petizioni fatte in termini generali e non come petizioni specifiche riguardanti la filiera della lana, se io fossi un parlamentare inglese e dovessi decidere quale delle due appoggiare, non appoggerei nessuna delle due, ma proporrei un modo per accordare entrambe le parti.
Le ragioni di questa mia scelta sono molteplici e si basano su motivazioni principalmente sociali, economiche e sulla teoria della divisione e della specializzazione del lavoro. Infatti, se da un lato i macchinari permettono di abbassare notevolmente i costi e i tempi di produzione, dall’altro lato l’intervento dell’uomo procura a molte persone un salario con cui mantenere la famiglia e rende unico e inimitabile il prodotto, conferendogli un valore aggiuntivo.
Fatte queste osservazioni io personalmente proporrei di affidare ai macchinari i compiti che risultano dannosi per la salute degli uomini, come per esempio il trasporto di materiali pesanti, e a quest’ultimi il controllo del lavoro dei macchinari e la personalizzazione del prodotto finale, come l’aggiunta di ricami su abiti e tessuti. È comunque necessario creare nuovi tipi di occupazione per consentire alle persone che vengono sostituite dai macchinari di avere un altro impiego e per fare ciò è necessaria la collaborazione del governo con gli imprenditori.
Di fatto tu sostieni la seconda petizioni, quella dei lavoratori. In ogni caso la tua politica economica si discosta significativamente da quella “liberista” perché, per realizzare gli obiettivi che proponi, dovresti, in quanto “Stato”, intervenire pesantemente nel gioco economico con divieti e incentivi mirati. Comunque la tua ipotesi è senz’altro interessante.
Prendendo in considerazione le due petizioni, non solo strettamente come petizioni tessili, ritengo che in entrambe siano presenti delle esagerazioni perché nella prima petizione (documento 2) l’utilizzo delle macchine sembra una questione di vita o di morte suscitandomi la seguente domanda: allora fino ad allora come siete riusciti a vivere e a guadagnare senza l’utilizzo di macchine?, mentre nella seconda (documento 3) l’utilizzo delle innovazioni viene visto strettamente come una sostituzione al lavoro delle persone invece che come aiuto. Proprio per questo se fossi un Parlamentare inglese, conscio dell’aumento produttivo (produzione tessile della lana e del cotone)e della conseguente espansione di un mercato più vasto, prenderei in considerazione la prima petizione, cercando di modificare la visione vitale delle macchine e introducendone una visione di aiuto. Con questa decisione placherei le possibili rivolte da parte della petizione contraria poiché l’incremento della produzione comporterà un aumento di prodotti in un tempo minore e quindi una necessità di aprire più fabbriche e così i lavoratori che temevano di perdere il lavoro in realtà non lo perderanno.
L’idea di mediare tra le istanze avanzate dai due gruppi è interessante e condivisa da altri tuoi compagni. Mi chiedo se la tua soluzione sarebbe davvero praticabile. L’incremento della produzione se è solo dovuto all’adozione delle macchine non dovrebbe comportare, come scrivi, l’apertura di nuove fabbriche, anzi rischia di determinare la chiusura di quelle nelle quali si producesse più a rilento, con aumento dei costi e, quindi, del prezzo del prodotto finale (che non sarebbe più competitivo). L’aumento della produzione in un’economia industriale non comporta l’aumento delle unità di produzione e tanto meno l’aumento degli addetti, anzi è tipico che, almeno all’inizio, si registri un calo. L’aumento della produzione è determinato infatti, come tu stessa riconosci, da un aumento della produttività, cioè del numero di prodotti nell’unità di tempo, a parità di unità di produzione e di numero di operai impiegati. Poiché il mercato non può assorbire più di un certo numero di prodotti dello stesso tipo, il rischio è la diminuzione delle unità produttive.
Gli estensori della petizione favorevole all’introduzione delle macchine nella lavorazione della lana sembrano appoggiare il principio liberale di Adam Smith secondo cui ognuno, facendo il proprio interesse economico, contribuisce a migliorare il benessere della nazione. Come lui commettono però l’errore di trascurare la limitatezza delle risorse, in particolare della lana, messa in luce dagli oppositori della petizione e da Robert Malthus: questa rilevante caratteristica, insieme alla riduzione della manodopera, avrebbe come conseguenza l’aumento della disoccupazione e della povertà.
Questo effetto andrebbe ad intaccare la proporzione tra occupati e disoccupati che rappresenta, secondo Smith, uno dei due fattori necessari a garantire i mezzi di sussistenza di una nazione.
L’altro fattore, riguardante la capacità produttiva del lavoro, potrebbe quindi derivare, nel caso della lana, dalla suddivisione del lavoro senza necessariamente fare ricorso all’utilizzo dei macchinari: in questo modo vi sarebbe una produzione comunque efficiente ma proporzionale alla disponibilità della materia prima e si eviterebbe al tempo stesso la riduzione della manodopera.
Ottima proposta e ben argomentata. Devi comunque postulare un divieto di introduzione di macchinari che suona molto “corporativo” e, alla lunga, potrebbe costituire uno svantaggio competitivo del Paese che lo adottasse rispetto ad altri Paesi dove la “macchinizzazione” fosse più avanzata.
Se fossi un politico inglese di quel periodo appoggerei la petizione degli industriali ponendo però una piccola restrizione, in quanto il progresso industriale dovrebbe essere sostenuto piuttosto che oppresso e la produzione a costi minori sarebbe un vantaggio per la popolazione in ogni caso.
Dunque proporrei un modello nel quale i macchinari vengono sì utilizzati a sostituire il lavoro di alcune persone, però quelle che li devono affiancare si alternino a turni più brevi, dunque un turno di 12 ore sarebbe diviso da due individui piuttosto che uno solo. Data la scarsità di tasse che gli industriali dovevano pagare allo stato riguardo il singolo dipendente e il fatto che questi non fossero in alcun modo assicurati oppure avessero diritto ad alcuna pensione o simili. Dunque impiegare il doppio delle persone necessarie con lo stipendio dimezzato portava poche differenze al datore di lavoro.
Questa soluzione porterebbe allo stesso tempo all’utilizzo dei macchinari da parte delle aziende, quindi ci sarebbe un guadagno maggiore per gli industriali e un costo minore del prodotto, e inoltre, a sostegno della popolazione, si otterrebbe una diminuzione non troppo netta degli operai con l’unica pecca di uno stipendio minore che però verrebbe compensato da un costo minore dei prodotti e da un maggior tempo libero in cui si potrebbe coltivare e lavorare in casa, oppure si potrebbe trovare un secondo lavoro.
In più con l’aumentare dell’utilizzo dei macchinari sarebbe necessario creare aziende per la produzione di questi in cui gli operai potrebbero trovare impiego.
Mi sembra un buon ragionamento. Credo che gli operai, tuttavia, non sarebbero molto contenti della tua proposta. Se percepissero mezzo salario (in base alla tua proposta) potrebbero soffrire la fame e non riuscire a sfamare le loro famiglie. Potrebbero cercare altro lavoro, come scrivi, ma è probabile che non lo troverebbero. Uno dei fattori che favorì l’industrializzazione è stata l’espulsione della manodopera da un’agricoltura più evoluta, dunque l’aumento della disoccupazione che, rendendo i potenziali lavoratori “ricattabili”, permetteva agli imprenditori della nascente industria, sfruttandoli (cioè dando loro poco più che i puri mezzi di sussistenza), di abbattere i costi del lavoro e vendere i prodotti industriali a prezzi competitivi. Insomma, la scarsità di lavori alternativi è presupposto ed effetto insieme dell’industrializzazione. Dunque sarebbe ben difficile per i tuoi “salariati dimezzati” integrare il loro reddito con altri lavori.
Sulla base della lettura dei 3 diversi documenti, che espongo teorie totalmente contrastanti fra di loro, supportate da motivazioni giustificate in vari campi (come quello sociale, legale o economico), personalmente valutando la situazione socioeconomico dell’epoca ritengo che l’unica soluzione sia quella di cercare una via agevole e che rechi benefici ad entrambe le due visioni (lavoratori e grandi imprenditori).
Partendo dallo stesso ragionamento di Adam Smith, la sopravvivenza di uno stato si erge su un delicato rapporto tra introiti e produzione interne di questo medesimo, però allo stesso tempo non bisogna dimenticare l’importanza della manodopera specializzata degli stessi lavoratori, che rappresentano lo stesso stato, che non possono essere sostituiti totalmente da delle macchine.
Infatti, anche se gli stessi imprenditori (cittadini) hanno il diritto di esercitare il proprio interesse individuale e la propria arte, soprattutto in campo economico ( che secondo la visione liberalista, ciò, recherebbe solo vantaggi allo stesso stato oltre che a se stessi), quindi salvaguardando la possibilità di questi ultimi di introdurre illimitatamente le macchine a sostituzione dei lavoratori; tutto ciò sfocerebbe nella crescita esponenziale dei licenziamenti (poiché non è più utile la manodopera), e quindi al declino della grande società, che si vedrebbe divisa in maniera non equa tra una enorme fetta di popolazione priva di lavoro e alla fame e una irrisoria fetta caratterizzata da quei pochi ricchissimi imprenditori.
In secondo luogo, ad aggiungersi alla motivazione in campo sociale vi è anche in quella in campo prettamente materiale dei prodotti, dove il paradosso della capacità di una produzione esponenziale e teoricamente illimitata delle macchine non regge la limitatezza in molti casi delle materie prime, che sicuramente porterebbero a un calo dei prezzi, ma anche se fosse la popolazione che si ritrova per strada non potrebbe comprare, non avente un lavoro e quindi denaro.
Quindi, la stessa produzione dello stato si troverebbe a dipendere unicamente dalle esportazioni e il rapporto con altri stati, visto che le capacità economiche della gente sono ridotte al minimo.
Da altra parte però, sappiamo pure noi che limitare l’inventiva e la possibilità di progresso ai suoi cittadini nell’ introdurre delle efficienti macchine, sarebbe come tarpare le ali allo stesso stato, recandogli danno alla propria economia.
In conclusione, una visione mediata delle due posizioni è la cosa più ottimale
In effetti la tua analisi sembra più favorevole alle istanze dei lavoratori che a quella liberista (o liberale, non “liberalista”) degli imprenditori. Ci sono alcune imprecisioni non so se formali o sostanziali (la limitatezza delle materie prime, come nel caso dei prodotti agricoli, denunciata p.e. da Malthus e Ricardo, ha per effetto, di per sé, un aumento dei prezzi, non una diminuzione, anche se è vero, come tu sembri suggerire, che essa possa essere in parte compensata da una diminuzione della domanda interna, dovuta al crollo dei salari).
Se io fossi un membro del parlamento Inglese e fossi costretto a scegliere tra una di queste due opzioni mi troverei in grande difficoltà in quanto nessuna delle due possibilità mi sembra la più adeguata.
Questo perché, nonostante da un lato l’annessione delle macchine nell’industria porterebbe ad una grande produzione e ad una fioritura industriale complessiva, dall’altro vi sarebbe una forte disoccupazione generale, specialmente riguardante la parte più povera della popolazione.
D’altra parte però, non sfruttando il progresso, rischierei di portare ulteriore povertà nello stato che rimarrebbe arretrato, ed escluso dai mercati nazionali (rischierei inoltre di rendere vano il mio vantaggio nazionale, in quanto l’Inghilterra era il paese più all’avanguardia dell’epoca).
Tuttavia, con l’annessione dei macchinari nelle fabbriche, vi sarebbero molti disoccupati, dunque io mi ritroverei in un paese sostanzialmente povero dove la gente non comprando, non manderebbe avanti l’economia del mio paese e renderebbe tutto il mio progresso industriale vano, in quanto non avendo compratori, non avrei entrate.
Dunque, considerando tutti gli aspetti sopraelencati, suggerirei di creare una via di mezzo tra l’industrializzazione e il mantenimento dei posti di lavoro, cercando dunque di introdurre il giusto numero di macchinari nelle fabbriche (in modo da incrementare la produzione e dunque il mercato e l’economia) ma di non eliminare totalmente la mano d’opera.
Cercherei inoltre di eliminare il minor numero di posti di lavoro possibili, aggiungendone/creandone, dei nuovi rispetto a prima.
La tua risposta è molto onesta. Le soluzioni che proponi sono abbastanza incerte, come quelle suggerite da altre compagne e da altri compagni. Ma l’analisi è corretta. Si direbbe che metti il dito su una molto filosofica “antinomia” (o “contraddizione” del capitalismo, come direbbe Marx). Comunque tu la giri, il problema sembra difficile da risolvere. Ad onta degli entusiasmi di Smith e di altri, il processo di industrializzazione, esaminato a fondo, si rivela qualcosa di “tragico”, nel senso che sembra qualcosa di economicamente ineluttabile (bloccarlo è impossibile e tentarlo rischia di essere perfino controproducente), ma dagli effetti non per questo meno drammatici (proprio come succedeva al destino degli antichi eroi di Sofocle).
Se io fossi una parlamentare inglese chiamata a decidere a quale delle due petizioni dare ragione avrei dato ragione alla prima riguardo l’obbligo dell’utilizzo delle macchine, perché queste ultime farebbero i lavori più pesanti e metterebbero meno a rischio i lavoratori e produrrebbero molti più prodotti in meno tempo traendo più profitti, così da arricchire maggiormente sia i lavoratori che i titolari. Gli uomini avrebbero più tempo per riposare e nonostante i molti tagli del personale i giovani invece di lavorare avrebbero più tempo da dedicare agli studi e nascerebbero comunque nuovi lavori riguardanti i macchinari che non lascerebbero tutti disoccupati. Infine tutti i prodotti avrebbero un costo minore, così da diventare accessibili a chiunque.
Sei molto ottimista. Temo, tuttavia, che almeno in una prima fase, per le leggi dell’economia, i lavoratori non sarebbero avvantaggiati. I profitti aumenterebbero sì, ma per i possessori delle macchine, non per i lavoratori licenziati e sostituiti dalla macchine. Anche se il prodotto finito costasse di meno (cosa probabile), il lavoratore privo di salario non potrebbe comunque comprarlo. E’ illusorio credere (come ammette lo stesso Ricardo, quando contrappone il profitto ai salari) che un aumento del profitto dell’imprenditore farebbe crescere i salari dei lavoratori (a meno che questi non siano “agganciati” ai profitti per legge o per contratto o i lavoratori stessi, come nelle cooperative, fossero almeno parzialmente comproprietari delle aziende). Infatti i salari sono per l’imprenditore un costo che gli toglie profitto e che egli cerca di minimizzare. I salari potrebbero aumentare solo nel caso che vi fosse scarsità di lavoratori specializzati (che potrebbero vendere a caro prezzo le loro competenze). Ma i lavoratori il cui lavoro è sostituibile da una macchina non “valgono” alcunché e possono essere assunti a salari da fame (dal momento che non hanno alternative e sono costretti dal mercato ad accettare qualsiasi contratto). Lo Stato dovrebbe quanto meno organizzare “corsi di formazione” per rendere più appetibili le competenze dei lavoratori disoccupati. Sotto questo profilo, come scrivi, alcuni potrebbero venire riassunti per controllare le macchine.
Se fossi una parlamentare inglese chiamata a decidere a quale delle due petizioni contrapposte dare ragione conscia dei vantaggi della divisione del lavoro, darei ragione agli industriali. La loro petizione chiede che non fosse vietata l’introduzione di macchine nel processo di lavorazione della lana, e nel sostenere ciò sembrano richiamare la teoria di Adam Smith secondo cui facendo i propri interess, perciò abbassando i costi di produzione e aumentando i propri guadagni, si contribuisce a una maggiore ricchezza della nazione intera. Infatti, il paese alla lunga trae beneficio dalla spinta industriale e non si troverebbe in un stato di arretratezza rispetta agli altri. A mio parere, le macchine non rubano il lavoro agli operai di fabbrica, bensì facilitano il processo di produzione e chiedono a lavoratori di specializzarsi in compiti particolari. Il taglio dei costi potrebbe portare momentaneamente una situazione di povertà per la fascia inferiore della società, ma nel momento in cui il denaro guadagnato dagli imprenditori inizia a essere investito altrove, si generano nuove posizioni e nuove mansioni da svolgere.
Risposta forse discutibile (anche ammesso che l’evoluzione a cui alludi si verificasse, immediatamente coloro che avrebbero perso il lavoro difficilmente ne avrebbero beneficiato prima di “morire di fame”), ma senza dubbio pregevolmente chiara e articolata nell’analisi “economica”.