Leggi questi casi di bioetica e uno di essi a tua scelta esprimi il tuo punto di vista argomentato (come avresti risolto il caso).
P.S. Per risparmiarvi energie non vi ha assegnato un altro esercizio, ossia di discutere se, secondo voi, in generale, nelle scienze umane si debba adottare un approccio più oggettivo (come fanno la psicologia comportamentistica, cognitivistica, gestaltica ecc. e la sociologia di Weber) o piuttosto più soggettivo ed “empatico” (come fanno la psicologia umanistica e la storiografia à la Dilthey). In vista della verifica p.v., dell’esame di Stato e della vostra vita futura, vi suggerisco di iniziare, comunque, nel vostro cuore, questa utile riflessione.
Partendo dal fatto che non esiste una risposta giusta o sbagliata a dilemmi etici come l’aborto e l’eutanasia e che ognuno dovrebbe essere lasciato libero di disporre del suo corpo come meglio crede, cercherò di dare un giudizio abbastanza obbiettivo sulla questione dell’interruzione di gravidanza. Personalmente, tendo a non dare molto credito alla concezione che la Chiesa Cattolica ha sul momento in cui inizia la vita, in quanto essa non si basa su dati o ricerche che possiamo definire “scientifici”, ma piuttosto su concezioni filosofiche e religiose, rendendola poco attendibile. Se ci basiamo invece su quello che Rita Levi Montalcini, premio Nobel, e altri illustri scienziati sostengono, cioè che fino al 14° giorno ca. di gravidanza gli embrioni non avrebbero caratteristiche tali da consentire di considerarli persone, allora l’aborto potrebbe venire accettato e non considerato come omicidio. Se consideriamo queste cellule come “un essere umano in potentia” allora sarebbe da considerare omicidio anche tutte le volte in cui le persone soggette al ciclo non fecondano l’uovo, che di conseguenza abbandona il nostro corpo senza attecchire all’utero e sviluppare così un bambino (perché utilizzare l’espressione “dare vita ad un bambino” sarebbe un po’ un controsenso). Possiamo constatare che questa visione è quindi inutile, radicale e, molto probabilmente, sbagliata. Le ragione che possono portare una persona ad interrompere la gravidanza possono essere molteplici: malformazione genetica, che porterebbe in bambino a morire pochi secondi dopo essere nato o a vivere una vita piena di sofferenze, gravidanza accentale, risultato di una violenza sessuale e inabilità della madre di prendersi cura del proprio figlio (per questioni fisiche, mentali o finanziarie) ed evitare così che esso venga inserito in un sistema purtroppo pieno di difetti e che molte volte non ha a cuore il benessere del bambino.
Per concludere, ritengo che l’aborto sia una scelta che deve essere fatta dalla madre del bambino e da nessun altro, né parente né medico.
I casi degli embrioni e dell’aborto sono comunque differenti. La tua argomentazione che ricalca quella di Levi Montalcini si può applicare solo agli embrioni. Ma il feto che si tratterebbe di uccidere è più verosimilmente “umano” di un embrione. Dunque senza necessariamente essere cattolici (ma soltanto “aristotelici”) si potrebbe discutere se si tratti o no di essere umano. Nel caso positivo sarebbe difficile sostenere che la decisione spetti solo alla madre, perché sarebbe come dire che se un bambino appena nato è malato o semplicemente disturba il padre o la madre potrebbero ucciderlo. Nel dibattito corrente si scambia spesso con una questione “morale” o “religiosa” quella che è, in effetti, in radice una questione metafisica od ontologica.Certo, una volta ammessa l’umanità del feto, si potrebbe comunque difendere giuridicamente la libertà di scelta della donna con l’argomento dell’extraterritorialità del suo corpo rispetto allo Stato o alla famiglia di appartenenza.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, personalmente ritengo che le due situazioni siano tutto tranne che “leggermente diverse”.
Si, considerato che entrambi si concludono con la morte di un essere umano, le modalità sono completamente differenti. Il primo caso può essere definito come un caso di “omicidio” mentre il secondo assolutamente no, ammesso che il medico in questione non abbia secondi fini, ma il solo intento di applicare le sue conoscenze per salvare e garantire le migliori condizioni di vita per i suoi pazienti.
Nella sua carriera è inevitabile destreggiarsi in situazioni simili e in tali circostanze si deve rispettare in ogni caso la volontà del paziente, o quella dei familiari nel caso quest’ultimo non sia in grado di intendere e volere, anche nel caso in cui sia contraria al parere medico.
Alla luce di quanto detto, la figura del medico non può essere paragonata a quella di “Qualcuno uccide sua moglie per ereditare il suo denaro” perché, in tal caso, ci si sarebbe accordati per una denominazione più appropriata, come quella di “sicario”.
Ma per quale ragione le due situazioni sarebbero così diverse? Che cosa fa la differenza? E quali criteri deve applicare il medico “buono”, che non agisce per secondi fini?
La questione degli embrioni, delle cellule staminali, e dell’utilizzo di organismi umani nella scienza è sempre stata oggetto di controversie. Il problema deriva, in questo caso, dal fatto che gli embrioni sono risorse molto utili per la scienza. Tuttavia, per poterli utilizzare, occorre “ucciderli” o comunque, non potranno più crescere. La religione cristiana ha sempre fortemente criticato scelte di questo genere, addirittura costringendo paesi ad abbandonare queste tecniche con la sua influenza. Il problema sorge quando, davanti ad un embrione fertilizzato da pochi giorni, bisogna stabilire se è “umano” o se perlomeno ha dei diritti. Secondo me, la questione ha dei risvolti filosofici, in quanto cosa rende un essere umano tale? Secondo molti sarebbe l’anima, tuttavia, quando si formerebbe l’anima? Esiste l’anima?
Io credo tuttavia, che bisognerebbe pensare in altra maniera: invece di chiedersi se è giusto coltivare embrioni per questo, piuttosto di cercare altri modi per far progredire la scienza in questo campo, senza usare embrioni. E in effetti, usare cordoni ombelicali o feti derivanti da aborti sono un metodo alternativo agli embrioni. Per cui credo che in quei casi sia giusto chiedere alle madri se vogliono donarli per aiutare la scienza, lasciando cosi il problema degli embrioni da parte.
Certo, ma così tu eludi il problema con una “strategia di evitamento”. Supponi che per alcune ricerche siano strettamente necessari gli embrioni umani e che li si debba eliminare, anche se non fosse vero. Sarebbe legittimo farlo qualora fosse il solo modo di arrivare alla produzione di farmaci in grado di salvare un certo numero di vite umane (magari superiori al numero di embrioni sacrificati)?
Io mi trovo d’accordo con l’opinione espressa nel primo articolo dalla scrittrice; ovvero che non si può obbligare una persona a “tenere in vita” un altro essere poco “desiderato”. Bisogna solo rispettare e comprendere le decisioni che hanno portato ad abortire un feto, cosa molto difficile da decidere.
E come argomenti tale tua posizione? Se io non desidero avere certi studenti in aula li posso uccidere? In generale si possono uccidere le persone la cui compagnia non si desidera o di cui non ci si vuole prendere cura (per esempio i propri genitori anziani, i figli nati ecc.)? Bisogna prima dimostrare che il feto non è un essere umano, non credi? O, nel caso che lo sia, perché il diritto di scelta della donna dovrebbe essere più forte del diritto alla vita di quell’essere umano (p.e. invocando l’argomento dell’extraterritorialità del corpo della donna).
Caso 2.
Come abbiamo visto nel precedente modulo la scienza presenta parecchi limiti che le impediscono di dare risposte definitive su argomenti di tale portata, perciò ritengo necessario basare la discussione su concetti etico-religiosi se non metafisici che, seppur non scientifici, vengono condivisi da gran parte della popolazione.
Per affrontare il problema dell’eutanasia è necessaria una premessa sulla vita.
Per prima cosa sorge l’arduo problema di definire quando un determinato organismo sia effettivamente vivo: personalmente ritengo la vita legata strettamente all’esperienza del mondo sensoriale presente e possibile. Cioè se una persona può avere esperienza del mondo nel suo presente o nel suo futuro (come per gli embrioni) è da ritenersi viva.
Inoltre io credo che la vita sia sacra ed inviolabile in ogni caso perciò concludendo ritengo che il suicidio assistito sia sempre sbagliato, salvo casi in cui il soggetto non abbia la minima speranza di vivere il mondo ( come in un coma o in seguito alla perdita di tutti i sensi a sua disposizione) e ritengo che anche se la situazione dell’individuo sembri dolorosa la ritengo comunque necessaria di essere vissuta e la morte non giustificata.
Questo però su base etica, dal punto di vista legale dati i principi di libertà assunti dallo stato ritengo che esso non possa coerentemente vietare ad un individuo nulla che determini un danno diretto per gli altri membri della società.
Interessante la tua distinzione. Quindi mi permetteresti (sul piano giuridico) di uccidermi, perché non potresti invadere la mia sfera di libertà, ma riterresti (sul piano etico) che comunque io sbaglierei a darmi la morte, anche se soffrissi a tal punto da ritenere preferibile morire piuttosto che vivere…
Prendiamo due situazioni “leggermente” diverse (libero adattamento da un articolo di J. Rachels, Uccidere, lasciar morire e il valore della vita, in “Bioetica”, 2, 1993):
1. Qualcuno uccide sua moglie per ereditare il suo denaro.
2. Un medico “lascia morire” una paziente gravemente malata, che non potrebbe più essere salvata dalla morte e a cui si potrebbe solo prolungare, con la vita, le sofferenze
Secondo me tra questi due casi non c’è solamente una leggera differenza, ma c’è una vera e propria differenza come tra giorno e notte. Nel primo caso il marito UCCIDE la moglie per ereditare il suo denaro: è un’azione che compie volontariamente e attivamente. Nel secondo caso, invece, il medico, di fronte ad una paziente gravemente malata e che non può più essere salvata, decide di lasciarla morire, senza intervenire in alcun modo e senza accanirsi ancora su di essa con le così dette “terapie del dolore”. Il medico, però, fino a quel momento ha fatto di tutto pur di mantenerla in vita e di salvarla fino a quando non si è reso conto che niente può più guarirla; infatti gli unici metodi per tenerla in vita le provocherebbero solo altre sofferenze e nessun miglioramento. Io ho avuto un’esperienza simile a quella del secondo caso e penso che la scelta del medico sia più che lecita, sia per la paziente che per i suoi famigliari che non vogliono più vederla soffrire anche se allo stesso tempo vorrebbero poter passare ancora del tempo con lei. Alla fine, anche tra i parenti, la prima opzione prevale sulla seconda e, nel mio caso, siamo stati proprio noi stessi a chiedere di interrompere tutte le terapie pur di non vedere più soffrire la persona interessata e mettere fine a quella situazione.
Consideriamo ora un terzo caso che va a sostituire il 2. Il caso 2(bis) dice: “Un medico “lascia morire” una paziente gravemente malata, in cui riconosce sua moglie e il cui denaro vuole ereditare!”
Se confrontiamo questo caso con il primo, apparentemente, non troviamo più delle grandi differenze come tra il caso 1 e il 2, ma, secondo me, l’opzione 2(bis) è comunque più ragionevole della 1. Nella 2(bis), in fondo, il medico ha messo fine al dolore della paziente e a quella vita che ormai era in mano ad una malattia ormai incurabile anche se, dopo la morte, il medico si è arricchito con l’eredità della moglie. Di certo avrebbe potuto fare tutto ciò che ha appreso nel corso dei suoi studi per cercare di salvarla e quando si sarebbe reso conto che non c’era più niente da fare per salvarla, “lasciarla morire”. In conclusione, il marito ha compiuto un’azione più o meno “buona” anche se con uno scopo personale. A questo punto credo che la differenza tra l’eutanasia “buona” e l’eutanasia “cattiva” riposa sulla situazione in cui viene compiuta e sui motivi che hanno spinto la persona a compierla. Ultimamente si sente molto parlare e discutere dell’eutanasia, ma io credo che se una persona decide che non è degno di quella vita che è costretto a vivere (vedi Dj Fabo) ha tutti i diritti di decidere se mettere fine o no a quella tortura anche perché ognuno risponde delle proprie scelte. Anche nel caso di lasciar morire un paziente a cui le cure non possono più portare giovamento e/o miglioramento è una scelta che il paziente stesso, o per lui i parenti (nel caso in cui non sia più cosciente), possono fare senza che nessuno glielo vieti perché prolungare di qualche giorno quell’agonia crea ancora più dolore tra tutti loro.
Mi sembra che implicitamente fai valere i criteri di Beauchamp e Childress (massimizzare il bene, minimizzare il male, lasciare libertà di scelta alla persona interessata). P.S. La “terapia del dolore” non ha niente a che fare con l’accanimento terapeutico, ma si applicare per lenire il dolore, anche se, magari, dovesse accorciare la durata della vita residua (si tratta di cura palliativa, non di vera e propria terapia). Grazie per avere messo in gioco un caso personale.
Nel libro “Credere, disobbedire e combattere” Marco Cappato sostiene che l’eutanasia sia un’ autodeterminazione del malato, una libertà di scelta fino all’ultimo momento. Fino a quando il malato ne ha le facoltà, penso che sia più che giusto ascoltare le sue richieste. Stiamo parlando di malati terminali che hanno piena consapevolezza della loro situazione e che decidono di interrompere la loro vita, o comunque lo stato in cui si trovano, proprio perché di vita non si può più parlare. In certi casi la volontà del singolo viene prima di quello dello Stato, ancor di più quando l’attuazione di questa volontà non ha ricadute economiche su di esso. Nel momento in cui il malato non ha neanche più la possibilità di comunicare o interagire in qualche modo con un interlocutore la responsabilità passa direttamente ad uno o più parenti stretti. Ma che senso avrebbe tenere in vita un essere umano in una condizione del genere? Si può davvero chiamare essere umano un individuo che non ha più le facoltà per tenersi in vita o per interagire con il mondo? Si può chiamare vita?
3- Credo che ciò che si voglia sapere è se, a mio parere, un embrione è un essere umano. La risposta mi risulta tanto facile quanto spontanea: no. Non trovo che questa struttura prima possa essere considerata come essere umano; non è in grado di pensare, sognare, soffrire che sono la sostanza di noi stessi secondo me. Capisco che per alcuni quest’insieme di cellule, sapendo che diventerà una persona va considerata come tale già nei suoi primi stadi, ma io semplicemente non la vedo così. Non ho vere e proprie argomentazoni a favore del mio punto di vista, nè tantomeno sono in grado di provare falsa l’idea opposta; mi limito ad esprimere ciò che penso.
Anche una persona in coma irreversibile “non è in grado di pensare, sognare, soffrire”. Addirittura anche tu quando sei nella fasi di sonno profondo (senza sogni), magari per effetto di un’anestesia. Non credo che tu cessi per questo di essere umano. “Ma dopo un po’ ritornerei alle mie normali attività”. Si, anche l’embrione “dopo un po’” acquista le medesima facoltà (è come un uomo in sonno profondo che deve svegliarsi per la prima volta). Come replicheresti?
Dal mio punto di vista gli embrioni non sono persone o “esseri viventi” in quanto non presentano nessuna caratteristica tipica di un uomo. Si potrebbe parlare della capacità degli embrioni di possedere una “vita in potenza” ma, questa non è da considerare in quanto l’uccisione degli embrioni avviene prima che essi si dividano, e dunque inizino il loro processo vitale. Uccidere un qualcosa di non vivo è possibile? Io credo di no e dunque giustifico e anzi supporto la ricerca scientifica sugli embrioni e le loro cellule staminali. Queste, infatti, possono essere fondamentali per salvare molte vite “in atto” piuttosto che consentire ad una “vita in potenza” di svilupparsi senza sapere le eventuali problematiche cui essa potrebbe andare in contro. Usufruire degli embrioni non significa, secondo me, commettere omicidio bensì progredire nella ricerca delle cellule staminali e portare la medicina ad un livello fino ad ora inimmaginabile.
Per arrivare a tali conclusioni bisogna essere chiari su quello che costituisce una vita umana. Se fosse necessaria, per esempio, la capacità di parola, allora anche una persona in coma irreversibile o semplicemente afasica non sarebbe umana! Bisognerebbe dunque che tu approfondissi e giustificassi meglio la tua premessa decisiva.
Ritengo che paragonare queste due situazioni, potremmo dire diverse, ma allo stesso tempo che sottopongono l’uomo ad una difficile scelta, ovvero negare o no la vita di un’altra persona, non sia del tutto adeguato.
L’argomento più rilevante è che di fatto il futuro bambino che sta crescendo nel grembo di una madre è una sua creatura, qualcosa che fa parte di lei, mentre per quel che sappiamo Enrico è una persona estranea a Gianni, con il quale egli non ha mai avuto niente a che fare.
Sia la madre che Gianni si ritrovano in una difficile situazione, entrambi hanno il potere di decidere per il destino del prossimo, ma il dispiacere che può provare l’uomo, nel momento in cui non accetta di diventare donatore, non sarà mai paragonabile al dolore che una madre può provare uccidendo suo figlio, anche se non voluto, rimane sempre un suo dono… e una madre resta sempre una madre.
Non tutte le madri sono necessariamente così “affettive”. Ci potrebbe essere una donna particolarmente insensibile. Sei certa di poter fondare il “disvalore” dell’eliminazione di un feto soltanto sui sentimenti della madre? Del resto, se questi fossero così forti, il problema non si porrebbe. Forse tu alludi a casi nei quali la madre decide di abortire, magari per paura o altro, e poi se ne pente amaramente. Per questa ragione la legge 144 prevede un percorso di accompagnamento prima che la decisione “abortiva” venga presa. Ma se pensi che l’aborto sia omicidio tutto questo non ti basta. Forse il paragone tra il caso di Gianni e quello della madre non tiene anche per altre ragioni…
Ho deciso di analizzare il problema dell’eutanasia. Credo che la differenza tra eutanasia ”buona” ed eutanasia ”cattiva” non coincida con la differenza tra eutanasia ”attiva” ed eutanasia ”passiva”. L’eutanasia ”giusta” è quella che avviene dopo una richiesta esplicita e ponderata della persona morente in accordo con precise diagnosi cliniche e mediche. Nel caso citato nell’esempio possiamo considerare omicidio il lasciar morire la paziente gravemente malata senza una precisa prognosi e senza il suo consenso, mentre non lo sarebbe se la morte fosse una sua volontà (nonostante la questione dell’eredità, che in questo caso passerebbe in secondo piano). La volontà della persona è quella che deve essere rispettata fino alla fine. Con il testamento biologico ogni persona può esprimere il proprio volere e pretendere che venga rispettato. Ciò nonostante credo che nel caso invece in cui una persona non abbia espresso alcuna volontà e non sia più in grado di esprimerla in alcun modo l’eutanasia non sia facilmente attuabile e che la decisione ricada probabilmente su familiari e medici.
Cogli molto bene quello che gli autori di cui (credo) parleremo oggi chiamano il “principio dell’autonomia”. Resta il problema, rilevato dai loro avversari, che non si può mai essere certi che quello che una persona aveva lasciato scritto quando era in buona salute sia ancora valido per la stessa persona in una condizione di sofferenza, nella quale potrebbe desiderare “stracciare” le volontà precedentemente espresse, ma potrebbe non essere più in grado di farlo.
Ho scelto il secondo caso per un’esperienza vissuta in famiglia. Mio nonno è stato per tanti anni malato e gli ultimi 4 della sua vita li ha passati in stato semi-vegetativo. Verso la fine della malattia non era più in grado di esprimere il suo dolore e la sua sofferenza, con la conseguenza che mia mamma e mia nonna hanno dovuto prendere delle decisioni al suo posto. In particolare quando la sua malattia lo ha fatto dimenticare anche come si deglutiva, loro hanno dovuto prendere una decisione: alimentarlo meccanicamente oppure alimentarlo solo via endovena. La scelta è stata difficile e sofferta, ma alla fine è stato deciso che nessun accanimento terapeutico doveva essere applicato a mio nonno e questo per ridare a lui la dignità che la malattia gli aveva tolto. Ecco, secondo me la differenza tra eutanasia “buona” e “cattiva” sta proprio in questo: decidere se quello che stai per fare viene fatto per il bene della persona che sta male. Se tu ritieni che sia importante la persona e che tu assumi quelle decisioni per la persona stessa, possiamo parlare di eutanasia buona; viceversa se tu pensi esclusivamente al tuo bene, al tuo interesse, al tuo benessere è eutanasia cattiva. Il criterio per differenziare la eutanasia buona da quella cattiva sta proprio nella centralità della persona malata. A mio parere non occorre, per applicare questo criterio, che il malato si sia espresso o meno sul suo destino, le persone che gli vogliono e gli hanno voluto bene possono scegliere per lui ripensando alla sua vita, a quello che era il suo pensiero e che decisioni avrebbe preso.
Grazie per avere messo in gioco la tua esperienza personale. Il criterio che suggerisci coincide sostanzialmente con i due primi criteri di Beauchamp e Childress, che suggeriscono di massimizzare il bene e minimizzare il male delle persone. Naturalmente non è sempre così semplice. A volte gli stessi parenti litigano tra loro perché alcuni vorrebbero cercare il modo di tenere il più possibile in vita il loro caro, mentre altri vorrebbero che non soffrisse più, e tutti possono essere sinceri e in buona fede. Comunque, non mi sembra sbagliato, qualora la persona malata possa esprimersi, ascoltare anche il suo parere, dal momento che si tratta proprio di lui.
Caso 1
Fossi stato narcotizzato e costretto a donare il mio sangue probabilmente la prima domanda che mi sorgerebbe sarebbe “Ma perché fra tutti proprio io?”. Assumiamo tuttavia che mi trovi in una situazione in cui solo io possa aiutare questa persona e mi venga chiesto di scegliere se voglia salvarla o condannarla a morte certa. Certo, intuitivamente noi tutti saremmo portati a definire un bravo cittadino colui che accetti di continuare le trasfusioni e un cattivo esempio colui che egoisticamente si rifiuti di aiutare il nostro povero disgraziato poiché “Cosa importa di più, un po’ di sangue o salvare una vita?”. Secondo questa linea di pensiero però dovremmo passare la nostra di vita donando sangue, plasma, midollo e correndo in giro a dare tutti i nostri soldi ad organizzazioni umanitarie al fine di salvare quante più persone possibili, magari non mangiare carne visto i recenti problemi che l’allevamento di grandi mandrie provoca. Raramente, tuttavia, mi è capitato di incontrare persone disposte a tanti sacrifici, come mai? La questione dell’aborto è simile, dovremmo sostenere una persona che noi non amiamo, che non conosciamo, ammesso che sia una persona, poiché la sua vita dipende da noi.
Non credo esista una risposta universale, ma che ciascuno abbia il suo particolare modo di valutare. Io, ad esempio, sarei disponibile a perdere un po’ di sangue per salvare una vita, certo che se mi venisse proposto di passare la vita su di un lettino a donare sangue cercherei una mediazione, causando la morte di chissà quante persone solo per il mio egoistico desiderio di fare una passeggiata ogni tanto.
Quindi sei d’accordo con la tesi implicita della Thompson che ha proposto l’esempio di Gianni. Tuttavia, si potrebbe obiettare che una donna che rimane incinta, se non è stata oggetto di violenza, ha una maggiore responsabilità nei confronti del nascituro di quanto se ne abbia nei confronti di uno sconosciuto a cui si sia costretti a donare sangue.
Come scrivevo, dipende dal nostro particolare metodo di giudizio, c’è chi crede che un embrione possa avere una maggiore importanza di un altro essere vivente, c’è chi no.