Dopo aver studiato l’unità didattica sulla bioetica con tutte le risorse on line e off line a cui essa rinvia (compresa una mia videolezione registrata) considera quanto segue, quindi rispondi in modo argomentato al quesito finale.
Come forse alcuni di voi avranno letto, in questi giorni, a causa dell’emergenza coronavirus, è sempre più grave la situazione dei reparti di terapia intensiva, al punto che alcuni addetti ai lavori si sono chiesti che cosa fare nel caso che la domanda (o il bisogno) di terapia intensiva diventasse superiore all’offerta che il sistema sanitario nazionale è in grado di mettere in campo (in termini di posti letto, ad esempio).
Nasce il problema di fissare criteri di priorità (come nel triage dei pronto soccorso, ma con conseguenze assai più drammatiche), in base ai quali decidere chi ammettere alla terapia intensiva e chi no.La Siaarti (cioè la Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva) ha elaborato linee guida dalle quali sembra di desumere un criterio sarebbe quello della “speranza di vita”. Insomma, si tratterebbe di privilegiare le persone più giovani, con patologie meno gravi ecc.
L’esatta prospettiva etica della Siaarti (e un ulteriore link tecnico alle linee guida) è chiarita qui.
La questione concerne uno dei principi messi in campo dalla bioetica cosiddetta laica, che non considera “tout court” sacra la vita dal concepimento alla tomba (in questa prospettiva, tipica p.e. della Chiesa cattolica, qualunque “scelta” comporti la morte di qualcuno sarebbe immorale e, dunque, nessuno può assumersi la responsabilità di scegliere in tali materie), ma ammette situazioni nelle quali è eticamente legittimo e anzi preferibile “consentire” o perfino provocare la cessazione della vita di qualcuno.
I criteri più noti, avanzati da Beauchamp e Childresse e applicabili al caso p.e. dell’eutanasia, sono questi altri tre: beneficenza (massimizzare il bene delle persone), non malevolenza (minimizzare il male), autonomia (far sì che ciascuno decida della propria vita). In base a questi tre principi si può ammettere, per esempio, che una persona decida di morire se la sua scelta è libera e consapevole (terzo criterio) e se il dolore che patisce è tale da rendere preferibile la morte al proseguimento della vita (combinazione dei principi di beneficenza e di non malevolenza).
Ma esiste anche un quarto criterio avanzato da questi autori e da Mori: quello della “giustizia”, intesa come la migliore allocazione delle risorse per salvare il maggior numero di vite o (ecco la questione delicata) le vite maggiormente meritevoli di essere salvate.
Di solito faccio in aula questo esempio: immaginate che due soldati gravemente feriti attendano il trasferimento in un reparto di terapia intensiva, ma che nella base militare vi siano risorse mediche per salvare uno solo dei due in attesa del trasferimento. Il comandante chi dovrebbe salvare? Il più giovane? O quello, più anziano, con moglie e figlio? O quello che, una volta guarito, sarà più efficace in combattimento?
Se il comandante di rifiutasse di scegliere, per non condannare qualcuno a morte certa, li condannerebbe entrambi. O dovrebbe sperare in un miracolo.
Purtroppo in questi giorni assistiamo al rischio che si presenti, su grande scala, questo dilemma. Se ci si rifiuta di scegliere, perché non si vuole dare diversi “valori” alla vita (p.e. di una anziano rispetto a un giovane), il rischio è che, scegliendo di non scegliere, si finisca per scegliere comunque: i reparti di terapia intensiva si saturerebbero con i “primi arrivati” e quelli che ne avessero bisogno in seguito sarebbero condannati.
- Tu che cosa sceglieresti? E perché?
Purtroppo l’epidemia che stiamo vivendo ha messo in ginocchio l’Italia intera. I continui tagli fatti alla sanità ora mostrano il loro risultato: carenza di materiale medico e tecnico, ospedali sovraffollati e mancanza di posti letto nella terapia intensiva. Davanti a una situazione del genere, diventa difficile scegliere cosa fare e quale decisione prendere e alla fine i medici finiscono per selezionare i pazienti a curare tra i numerosi contagiati.
Immedesimandomi in uno di questi medici sicuramente non sceglierei di non scegliere, perché lavandosi le mani per non decidere può essere molto più grave che selezionare i pazienti, perché chi decide di non decidere non si assume una grave responsabilità. Sceglierei quindi di ragionare utilizzando l’etica laica, perché in una situazione dove la quantità di risorse a disposizione è limitata, diventa necessario agire secondo uno dei criteri di quest’etica stessa, ovvero quello di giustizia. È necessario salvare il maggior numero di vite, sacrificandone però alcune, e nel caso di parità salvare chi ha maggiore necessità per fare la massima giustizia possibile.
Sicuramente stabilirei dei criteri, in modo che ci sia un documento che certifichi che in caso sovraffollamento si inizia ad ammettere prima le persone con gravi patologie da curare e poi di conseguenza, in base alla gravità, i casi rimanenti. Faccio riferimento quindi anche alla distinzione weberiana di etica dei principi e etica della responsabilità, schierandomi dalla parte di quest’ultima, perché decido di ritenere opportuno assumermi la responsabilità e violare il principio del diritto alla vita, ad esempio, sospendendone il valore, in favore del criterio che ho scelto.
Ottima e ricca analisi. E’ molto importante, come sottolinei, che i criteri adottati siano pubblici e possibilmente condivisi. Al limite dagli stessi potenziali pazienti (p.e. da una comunità). In questo modo sarebbe poi difficile imputare al singolo medico di aver agito in modo arbitrario. Di qui la rilevanza della bioetica che entra in campo sanitario attraverso i cosiddetti comitati etici.
Riflettendo sui quattro criteri della bioetica, ovvero quello di beneficenza (massimizzare il bene delle persone), di non malevolenza (minimizzare il male), di autonomia (libera scelta) e di giustizia (distribuzione delle risorse in modo equo) vorrei esprimere un mio parere. Per quanto riguarda il terzo criterio dal 2017 è stata resa legale in Italia la stesura del dat (disposizioni anticipate di trattamento), quello che comunemente viene definito testamento biologico. In base a questo criterio la persona può decidere consapevolmente e liberamente se sottoporsi o meno a determinate cure mediche. In questo caso si parla di eutanasia passiva, anche se io lo definirei non accanimento terapeutico. Secondo me la medicalizzazione forzata in alcuni paesi occidentali va contro quella che è la natura e la morte spontanea dell’uomo. Il quarto criterio è quello che si lega al tema attuale dell’emergenza covid 19 e del dover fare una scelta su chi curare. L’Italia, a differenza di altri paesi, ha deciso di attuare delle misure secondo me più democratiche e umanitarie: isolare le persone, cercando di contenere il contagio del virus e curando tutti gli infetti. Se io dovessi scegliere, come anche l’Italia probabilmente dovrà fare in un futuro vicino, quando la richiesta di terapia intensiva sarà superiore rispetto alle possibilità offerte dal sistema sanitario, a malincuore privilegerei coloro che hanno una aspettativa di vita maggiore e quindi i giovani rispetto agli anziani che hanno già patologie in corso.
Hai considerato i quattro principi di Beauchamp e Childress, dimostrando di avere svolto il percorso di bioetica, anche se primi tre non sembrerebbero, per la verità, del tutto pertinenti al quesito.
N. B. La questione del “dat” è delicata. I sostenitori della sacralità della vita argomentano che ciò che decidiamo per noi stessi quando siamo in piena salute potrebbe essere molto diverso da quello che vorremmo per noi quando fossimo davvero in condizioni estreme. Ma spesso, in queste condizioni, non siamo più in grado di esprimere la nostra volontà. Ergo è meglio che in tutti casi i medici cerchino di salvare la nostra vita.
A malincuore sceglierei di privilegiare le persone più giovani in quanto ,rispetto a quelle anziane sono in grado di dare ancora qualcosa al paese in termini lavorativi. L’Italia si trova già in una situazione in cui l’età media della popolazione è abbastanza elevata(poche nascite ed età di morte sempre più avanzata) sarebbe quindi folle alzare ulteriormente questa soglia privilegiando le persone anziane nei reparti di terapia intensiva. I pensionati per ricevere la propria pensione necessitano di qualcuno che lavorando gliela “paghi” , sarebbero quindi ulteriormente penalizzati i lavoratori nel caso in cui il loro numero diminuisse lasciando invariato quello degli anziani. Quindi seppur il fatto che delle persone non possano decidere il destino della propria vita mi turbi ,la mia decisione ricadrebbe sul salvare i più giovani per una questione prettamente economica.
La tua riflessione è interessante, anche se trascura il nostro percorso di bioetica. Tuttavia, qualcuno potrebbe chiederti in che cosa la tua prospettiva differisca da una prospettiva di “eugenetica”, come p.e. quella dei nazisti, che sulla base di ragionamenti simili al tuo (apparentemente) vedeva favorevolmente l’eliminazione di persone con deficit fisici o mentali (attraverso un programma di eutanasia che fu effettivamente realizzato) anche per conseguire risparmi a vantaggio dei conti dello Stato.
Per evidenziare la differenza della mia prospettiva rispetto a quella dei nazisti direi in primis che il discorso da me esposto vale solo in situazioni di estrema emergenza come quella attuale,e non sarebbe quindi un obiettivo come invece era per i nazisti(purificare la razza eliminando i più deboli). Successivamente direi che i criteri di selezione (di chi curare prima e chi dopo) sarebbero ben noti a tutti in modo che ognuno fin da subito p.e. un anziano sappia il destino che gli spetterà e che ciò non sia una cattiva sorpresa come nel caso dei deportati. In fin dei conti una persona anziana potrebbe anche sentirsi orgogliosa nel sacrificarsi salvando un individuo più giovane morendo così da eroe,invece che morire come un numero(come accadeva nei lager).
Le tue precisazioni sono interessanti e abbastanza convincenti. In ogni caso generalmente gli eroi sono quelli che decidono di esserlo, non quelli che altri sacrificano al posto di altri ancora… Mi sembra comunque rilevante che i criteri di “selezione” siano resi pubblici, meglio ancora se fossero votati e condivisi da tutti, prima di venire applicati.
Dare una risposta sul chi dei due soldati scegliere non è facile, perchè si parla di vite umane, indipendentemente dalla loro prospettiva e qualità di vita. Come primo pensiero mi verrebbe in mente di salvare il più giovane perchè ha una prospettiva di vita più lunga e (probabilmente, così si spera) sarà il futuro della società. Però è anche vero che il giovane non ha famiglia, non ha moglie ne figli da mantenere e quindi verrebbero distrutte meno vite nel caso in cui morisse. E questo è il dilemma più grande, è difficile sbilanciarsi e scegliere, secondo me una vera e propria risposta non la si può dare se non la si vive sulla propria pelle (cosa che invece, come nell’esempio, un comandante in guerra può trovarsi in questa scomodissima e bruttissima situazione). Ritengo però che sia ‘meglio’ (o meno peggio) salvare la vita al giovane poichè ho una visione proiettata al futuro, che si preoccupa di cosa accadrà in futuro e come si potranno risolvere i problemi tutt’ora esistenti: e la risposta è puntare sui giovani, sperando che studino, che facciano esperienza e che diano una mano all’umanità, cosa che i nostri genitori/nonni hanno gia fatto a loro tempo. Ed è proprio per questo che giustifico la mia scelta, che non dico sia corretta, ne concretamente ne eticamente parlando. E’ una visione esposta in una situazione estrema, ma fattibile. Comunque ribadisco che secondo me non c’è una risposta corretta e una sbagliata, anzi quasi non so se ci sia veramente una risposta/soluzione a questo quesito,poichè indipendentemente dal modo di pensare di qualcuno, ognuno avrà la sua teoria e una propria ‘scala di importanza’ su cui basarsi.
La tua riflessione è interessante e sicuramente personale. Peccato che non vi si avverta l’eco del percorso di bioetica, salvo che per quell’accenno (che avresti potuto sviluppare) alla differenza tra decidere sulla propria vita e decidere sulla vita altrui.
Trovo molto difficile riuscire a dare una risposta adeguata a questa domanda. Ritengo corretto affermare che, nonostante la situazione che stiamo vivendo in questo momento sia allarmante e particolarmente grave, ci sono persone che sono costrette a prendere decisioni, riguardanti la vita o la morte di altri, tutti i giorni. Basta pensare alle zone del mondo in cui tutt’oggi ci sono continui conflitti armati. Come fa, ad esempio, un generale o un comandante dell’esercito, a decidere quale sia il soldato da salvare, tra i tanti feriti in combattimento?
A molti verrebbe da chiedersi come faccia una persona non qualificata, nel campo della medicina, a prendere simili decisioni sulla vita o sulla morte; poichè è più rassicurante basarsi sul fatto che un medico, che ha giurato di prestare, in scienza e coscienza, la propria opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche; sia in grado di prendere tali decisioni. Il problema, a mio avviso, è che anche il medico, è umano e come tale, presenta delle debolezze e delle fragilità, che possono entrare in campo in qualsiasi momento.
Sicuramente non è facile scegliere quale persona meriti di vivere o quale abbia più chance di sopravvivere, ma a volte non è concesso non scegliere. Anche astenersi dal scegliere è una scelta, che determina una serie di conseguenze.
In una situazione imminente di emergenza, ad esempio, una persona con una posizione rilevante a capo, che quindi è in grado, ma sopratutto ha l’obbligo morale di fare delle scelte, per il bene di una collettività, non può astenersi dal farlo. Ed è proprio questo quello a cui volevo arrivare. In alcuni casi, non ci si può rifiutare di fare delle scelte, perché, se si ricopre una posizione in cui questo è uno dei criteri di qualifica e uno dei requisiti, si ha il dovere di rispettare le proprie mansioni.
La diffusione del Covid-19 è stata presa sottogamba ed è per questo che adesso molti medici si trovano in difficoltà. Aver sottovalutato un problema di tale entità, ha infatti provocato una serie di reazioni a catena, che hanno portato al contagio di migliaia di persone. Non dico che, se le persone fossero state a casa fin da subito e avessero rispettato le norme imposte dal governo, non ci sarebbero stati contagiati, dal momento che purtroppo il virus si diffonde per via aerea e perciò è altamente contagiante; ma ritengo che se le persone fossero state più comprensive e attente verso le regole imposte dallo stato, ora non saremmo in questa situazione più che drammatica.
È logico che i medici si trovino a dover prendere decisioni riguardanti la vita o la morte dei contagiati e ammetto che mi spaventa molto il fatto che non ci sia posto per tutte le persone nelle terapie intensive. Sembra di vivere in una sorta di scenario apocalittico, se pensiamo alle code fuori dai supermercati, agli scaffali completamente vuoti, alla mancanza di posti letto per gli ammalati e alla mancanza di mascherine. Non è facile vivere questa situazione e penso che fin dall’inizio sia stata sottovalutata per la paura di cambiare le proprie abitudini e di sacrificarsi per il bene comune. Molti paesi stanno facendo il nostro stesso errore, ed è nostro compito informarli ed istruirli sui metodi di contenimento e sulle procedure obbligatorie per fermare l’avanzata del virus.
Ciò che mi rincuora è il fatto che finalmente ci sia una comprensione generale della gravità. Le persone hanno iniziato a rispettare la quarantena e a limitare assolutamente qualsiasi tipo di contatto, oltre che a fare donazioni libere ad ospedali e aziende produttrici di ventilatori, per la respirazione assistita.
Porto un enorme rispetto verso i medici, gli infermieri e gli operatori socio-sanitari, che si impegnano a salvare le vite di molti, facendo ogni giorno sacrifici e scelte difficili, mettendo perfino le loro vite a repentaglio e mi auguro che tutto questo possa finire al più presto.
Cara Anna, hai colto il pretesto della mia domanda per una commossa analisi della situazione presente. In condizioni normali direi che la tua risposta non è del tutto pertinente al quesito, che era mirato a una specifica questione bioetica, ossia quella di decidere chi assistere e chi no in caso di scarsità di risorse, facendo appello a un criterio di giustizia. In parte rispondi al quesito, pur senza evocare il percorso di bioetica, soprattutto quando insisti nel sottolineare che non si può non scegliere e che anche chi non sceglie finisce per scegliere.
Tuttavia accolgo questa tua meditazione per il suo valore intrinseco, al di là della pertinenza al quesito. Credo che sia importante in questa fase storica delicata che ciascuno di noi rifletta sulla situazione. Una certa dose di ansia e di paura ci sta tutta. L’importante è non farsene travolgere. Conservare una certa lucidità.
Dialogando con allievi di altre classi (spero che lo farò presto anche con voi, precisamente martedì prossimo) ho anche notato che è anche il caso di conservare, nella situazione eccezionale che viviamo, alcune “routine”, alcune abitudini.
Qui vi ho chiesto di riflettere a partire da una questione viva e attuale. Ma anche se parliamo p.e. di guerra fredda tra capitalismo e comunismo (questione lontanissima dall’attualità) in Storia non sbagliamo, secondo me. Non possiamo pensare solo all’amico covid-19 e su tutto quanto vi si connette. Dobbiamo anche continuare la vita normale, nella misura del possibile. Nel nostro caso svolgendo il programma di Filosofia e Storia, quasi come se niente fosse… Almeno ci proviamo.
Io condivido pienamente la scelta di intraprendere la “via” della giustizia laica, sopratutto in momenti di criticità come quello che stiamo vivendo ora. La critica che pone chi non condivide questa visione, come per esempio un Cristiano, é legata al fatto che nessuno può decidere di interrompere la propria vita o quella di qualcun’altro, ma a mio parere se fra due soldati decidi di non salvare nessuno dei due perché non spetta a te decidere, stai comunque prendendo una scelta riguardo la vita o la morte di una persona, in quanto una delle due può continuare a vivere. É peró necessario che i criteri di giustizia vengano stabiliti per tempo, in modo da non lasciare totale responsabilità nelle mani di una persona, come per esempio il medico, alleggerendo quindi il “carico morale” della scelta.
Mi sembra una buona riflessione che tiene conto del percorso svolto a distanza. Ma non hai scritto come ti comporteresti nel scegliere chi ammettere ai reparti di terapia intensiva.
Personalmente aderisco maggiormente all’etica della responsabilità perchè ritengo che alcuni valori fondanti (come quelli della vita o della libertà) debbano sempre essere considerati (e se necessario trascurati) alla luce delle circostanze; in situazioni come quella della scelta dei trattamenti di terapia intensiva penso che agire secondo l’etica dei principi sia inaccettabile poichè significherebbe sottrarsi alla scelta e quindi pregiudicare la salute della maggior parte dei bisognosi; se dovessi essere io a stabilire i criteri di priorità per le terapie intensive adotterei come linea guida quella seguita dal Siaarti perchè mi sembra corretto dare la priorità a chi ha una maggiore speranza di vita anche perchè chi ha una maggiore possibilità di sopravvivere ha anche una maggiore possibilità di essere “utile” alla società o comunque di soddisfare anche gli altri possibili criteri di priorità (come l’efficienza economica o come il rendimento di combattimento nel caso dell’esempio riportato)
Ottima risposta (non necessariamente condivisibile, ma ben argomentata) che tiene conto sia dei documenti forniti, sia del percorso di bioetica svolto, sia pure a distanza.
Questo virus sta decisamente mettendo in crisi il nostro Paese, soprattutto il sistema sanitario che, in Italia, ha sempre garantito indistintamente (e giustamente ) le cure necessarie a tutti.
In questa eccezionale situazione, se dovessi decidere a chi dare la priorità di cure mediche e una maggior probabilità di guarigione, sarei necessariamente costretta a scegliere colui che ha maggiori possibilità di uscire da questo quadro patologico e una più lunga prospettiva di vita, dunque la persona più giovane . È una scelta che affronterei con molta difficoltà e ripensamenti ma, in situazioni limite, necessaria.
E’ la scelta di fatto adottata da quel protocollo a cui si alludeva. Non hai però argomentato a fondo le ragioni per questa opzione. Amche tu non hai sfruttato molto i criteri suggeriti p..e. dalla bioetica c.d. laica (o da quella c.d. cattolica). Lo scopo dell’esercizio era anche quello di studiare possibili criteri d’azione e discuterli, anche nel caso che non li si condividesse.
Personalmente ritengo questa situazione (insufficienza di posti letto in terapia intensiva) una vera e propria catastrofe umanitaria, dove potrebbero venire a mancare i diritti umani fondamentali, come quello alla salute.
Risolvere questo complicatissimo problema in modo puramente razionale, in questo tipo di situazione, è la cosa migliore che si possa fare, perché lasciarsi travolgere dalle fortissime emozioni e da svariati stati d’animo diversi non sarebbe funzionale.
La ragione e l’intelletto sono le cose che ci hanno portati dove siamo adesso e trascurarli proprio in questo momento sarebbe un grave errore. Quindi per quanto mi riguarda, nel caso in cui arrivassimo all’esaurimenti dei posti letto in terapia Intensiva, sarebbe moralmente corretto dare priorità ai casi con una probabilità di guarigione più alta (speriamo non si arrivi a questo punto). Chissà cosa penserebbe Darwin?
L’allusione a Darwin è interessante. In effetti alcuni siti cattolici criticano l’idea di privilegiare le persone con maggiore speranza di vita perché vedono in tale opzione una sorta di mascherata adesione a principi di selezione naturale, anzi al darwinismo sociale e razziale (si dovrebbero salvare i più giovani e sani e lasciar morire i vecchi e i malati, un po’ come faceva Hitler, che fece approvare una programma di eutanasia rivolto soprattutto ai minorati mentali e ai disabili). Ma è questo il caso?
Nel rispondere, tuttavia, neppure tu hai sfruttato i criteri suggeriti p..e. dalla bioetica c.d. laica (o da quella c.d. cattolica). Lo scopo dell’esercizio era anche quello di studiare possibili criteri d’azione e discuterli, anche nel caso che non li si condividesse.
Penso, anche se con molta difficoltà,e per quanto mi dispiacerebbe per l’anziano, che sceglierei il giovane. Lo sceglierei non solo perché magari più efficace in combattimento, ma anche perché, rispetto a un anziano, non ha ancora vissuto a pieno la sua vita, non ha ancora avuto le tante esperienze che magari ha avuto un anziano. Inoltre potrebbe creare anche un’altra famiglia. Se si salvasse l’anziano, questo, inquanto già anziano, comunque non avrebbe una vita ancora tanto lunga e si lascerebbe morire un giovane con ancora tutta un’intera vita dinanzi.
Il ragionamento è interessante, ma anche tu non hai sfruttato molto i criteri suggeriti p..e. dalla bioetica c.d. laica (o da quella c.d. cattolica). Lo scopo dell’esercizio era anche quello di studiare possibili criteri d’azione e discuterli, anche nel caso che non li si condividesse.
Premetto che (forse è anche banale sottolinearlo) spero che non si arrivi necessariamente a una questione dualistica di scelta vita-morte, per il semplice fatto che la coscienza della popolazione è l’arma migliore contro il virus, per arginare i contagi ancora prima che i posti in terapia intensiva vengano irrimediabilmente saturati. Se dovessi rispondere a questa domanda, probabilmente mi baserei sul criterio della speranza di vita, anche indipendentemente dall’età del paziente. L’età anagrafica dovrebbe passare in secondo piano, rispetto alla gravità della malattia in corso, alla presenza di patologie pregresse e alla compromissione degli organi vitali. Personalmente quindi tenderei a “privilegiare” la cura di coloro che (secondo previsioni ben accurate) hanno una maggiore possibilità di sopravvivere più a lungo, anche senza la condizione patologica del Covid, in quanto ritengo che le cure debbano innanzitutto essere rivolte alle persone sulle quali il virus avrà un effetto più “decisivo” (ossia nei casi in cui si morirà per il virus e non con il virus). Un altro fattore che terrei in considerazione sono le famiglie a cui i malati sono relazionati, con riferimento particolare all’educazione dei figli. In tal senso privilegerei i genitori di figli in minore età rispetto per esempio agli adulti che non hanno figli. In ogni caso, ogni decisione dovrà essere presa in accordo tra la maggior parte dei medici (le uniche persone competenti in questo ambito) e dovrà essere comunicata con largo anticipo e documentata in modo esaustivo. Decidere la vita o la morte di un individuo è un compito che non è attribuibile a nessuno, ed è per questo che comunque, per il paziente “non scelto”, dovrebbero essere garantite le migliori cure alternative possibili.
Comprendo le tue (le vostre) difficoltà ad assumervi responsabilità in materia, soprattutto quando si tratta di vita e di morte. Tuttavia, vorrei farti un esempio apparentemente meno drammatico. Sei un responsabile politico devi decidere come impegnare un certo stanziamento di denaro. Puoi (far) costruire un ospedale o un centro di ricerca. Se impegni il denaro nella prima scelta, probabilmente alcuni, che altrimenti non si sarebbero salvati (supponiamo che l’ospedale sia costruito in una località di montagna), riceveranno cure in tempo utile per salvarsi. Altri, però, affetti da una certa malattia rara, non essendo stata fatta abbastanza ricerca nel campo, moriranno. Il contrario potrebbe accadere se tu facessi finanziare il centro di ricerca. Che cosa voglio dire? Che anche nelle ordinarie scelte politico-amministrative a cui è chiamato un sindaco, un assessore alla sanità (ma anche chi si occupa di traffico, di sicurezza dei trasporti ecc.) è questione di vita e di morte. Firmare un certa carta può avere per effetto che Tizio muore e Caio sopravvive o viceversa. La differenza è che il rapporto tra la tua scelta e l’effetto sulla vita e sulla morte di altri è meno diretto e visibile che in un reparto di terapia intensiva. Ma una persona che voglia riflettere eticamente sul suo agire non può eludere la questione delle implicazioni bioetiche delle proprie scelte, non credi?
Molto probabilmente, in questo momento, il ruolo del medico è il lavoro più difficile da compiere in queste condizioni. Nessuno vorrebbe mai trovarsi davanti a questa scelta. Ma oggi essa è necessaria e se nessuno si prende le responsabilità si rischia solamente di lasciar morire altre persone oltre a quelle che stanno già morendo ogni giorno. Se fossi costretto io a decidere chi curare e chi destinare alla morte ricadrei sulla persona con le aspettative di vita più alte. Non vorrei mai trovarmi in una condizione simile però mi sento di far continuare a vivere quello che ha ancora più tempo a disposizione, che ha ancora tutta la vita davanti. Pertanto, a mio parere, il comandante dovrebbe scegliere di trasferire in un reparto di terapia intensiva il soldato più giovane.
Comprendo le tue difficoltà psicologiche. Ma quanto dovresti avere studiato con riguardo alla bioetica non ti ha dato alcuno spunto? Lo scopo dell’esercizio è anche quello di studiare possibili criteri d’azione e discuterli, anche nel caso che non li si condividesse.