Tutti gli articoli di pythagoras

L'autore del sito è consulente filosofico, docente di filosofia e dottore di ricerca in filosofia politica. È stato segretario nazionale di Phronesis, ha insegnato pensiero politico all'università di Udine. Attualmente è vicepresidente della Società Indologica "L. P. Tessitori".

Inconsistenza della “realtà fuori di me”

  • La prospettiva francamente idealistica che delinei su questo sito è delirante. La tipica negazione idealistica di una realtà al di fuori del soggetto senziente e pensante (perché in ultima analisi è questo che risulta dalla tua speculazione!) è incredibile. È del tutto evidente che “là fuori” esiste una realtà contro la quale, spesso anche se malvolentieri, andiamo a cozzare, a sbattere.

Questa tipica obiezione a ciò che tu chiami “idealismo” (termine troppo storicamente compromesso con forme di “titanismo” romantico per non preferirgli ad es. il termine “monismo” o “platonismo” per contraddistinguere la mia prospettiva) è certo motivata da un’esperienza molto forte dell’esistenza di “qualcosa” di irriducibile ai propri sogni e ai propri desideri. Tuttavia, tale obiezione, nella sua classica formulazione, che anche tu riesumi, confonde i piani.

“Dentro” e “fuori” sono indicatori che alludono, implicitamente, allo spazio rispettivamente contenuto nel mio corpo ed esterno al mio corpo. Ma, se usati in riferimento al soggetto, in quanto soggetto di conoscenza, o alla “coscienza”, perdono significato. O meglio: presuppongono ciò che, mediante il loro uso, si vorrebbe dimostrare: che il soggetto “abiti” il corpo, come lo abita il cervello (che, ingenuamente, viene considerato la “sede” della mente o, anche, sinonimo della stessa mente, come quando si dice: “Usa il cervello, sei senza cervello!” o simili).

  • Perché, dove altrimenti si troverebbe la coscienza?

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Plotino, un autore che non si smette di meditare

Plotino

Nel saggio Meditare Plotino il concetto di filosofia come esercizio dell’anima (cui è dedicato specificamente quest’altro scritto) vi viene sperimentato come guida ermeneutica per comprendere le Enneadi di Plotino, il celebre filosofo neoplatonico del III sec. d.C.

Tratto  da un seminario tenuto all’Università di Padova, nel “lontano” (ahimé) marzo 1994, Meditare Plotino propone provocatoriamente, non già di “studiare” il (presunto) “pensiero” di Plotino (perduto per sempre), bensì, a partire dalla sollecitazione maieutica proveniente dalle Enneadi di Plotino, di sperimentare ciò di cui Plotino ha (forse) scritto. Questo approccio non sembra aver perduto smalto (cliccare per credere).

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Chi era Gesù?

La ricerca storico-critica ha ricostruito in modo abbastanza attendibile la figura storica di Gesù. Tuttavia, anche l’immagine di Gesù di Nazareth che risulta dalla ricerca storica non può rimanere indifferente al modo in cui concepiamo teologicamente (e filosoficamente) la sua figura (p.e. quella di un uomo che è anche Dio), noi stessi e l’intero universo. Vediamo perché.

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Destino e carattere

Éthos anthròpo dàimon

diceva Eraclito di Efeso (fr. 119 Diels-Kranz), il che si può intendere: “il carattere (éthos) è il destino (dàimon) per l’uomo”; o anche:  “si agisce secondo il proprio dèmone”…

Come impostare la questione etica in un orizzonte radicalmente monistico, come quello offerto su questo sito?

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È tutto informazione?

Supponiamo che l’altezza degli oggetti che vedi si dimezzi (che l’altezza dello schermo che hai di fronte si riduca da quaranta a venti centimetri e così tutto il resto). Supponiamo che, simultaneamente, anche la tua altezza si dimezzi e così quella dei tuoi organi di senso e, in generale, quella di tutte le cose (comprese le onde luminose che, provenienti dagli oggetti esterni, colpiscono le tue retine). Non ti accorgeresti di nulla, è vero? Poiché tutte le proporzioni sarebbero conservate, ti sembrerebbe che tutto fosse rimasto uguale.

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Tutto è uno

essere
Ascoltando non me, ma il Lògos, è saggio convenire che tutto è uno.
[Eraclito di Efeso, frammento 50 DK]

Prendiamo la tesi “Tutto è uno” (titolo di un fortunato e discusso libro di Michael Talbot, giovane precocemente scomparso, forse troppo incline a credere al paranormale per essere, a sua volta, credibile, ma dotato di straordinarie capacità intuitive).

La tesi, in sé, è tutt’altro che originale. L’argomentano, variamente, Parmenide, Plotino, Shankara e altri ancora. La si ritrova in qualche misura in Niccolò Cusano, Giordano Bruno, Baruch Spinoza (nella versione di un panenteismo costantemente a rischio di venire equivocato come volgare panteismo). Ritorna nella teoria dell’ordine implicato di David Bohm (ispirata ai risultati della fisica dei quanti).

Assumiamo questa tesi (che tutto è uno) per ora come ipotesi o, meglio, come postulato. Essa, insieme ad altre ipotesi accessorie, potrebbe contribuire a “salvare” (“spiegare”) tutti i fenomeni noti.

  • In che modo ciò avverrebbe?

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C’è una sola coscienza cosmica alla volta

La coscienza è sempre tale “una ogni volta” (ayam atma brahman). Non vi sono simultaneamente più coscienze (la mia e la tua, per esempio), ma sempre solo una alla volta, come luogo di riflessione dell’universo.

Nei termini di Erwin Schroedinger:

La coscienza è un singolare di cui non si conosce plurale.
[cit. in Odifreddi, Il Vangelo secondo la scienza]

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Un’abissale angoscia

La prospettiva cosmoteandrica, a sfondo (neo)platonico, che su questo sito vado via via delineando è vivacemente contrastata, in me stesso, da due fondamentali ostacoli:

  1. la resistenza che il dominante paradigma meccanicistico offre, quando, ad esempio, invoca a proprio vantaggio i risultati di secoli di successi sperimentali, a fronte delle difficoltà ad accertare “scientificamente” visioni alternative (un esempio di tali difficoltà è offerto del desolante spettacolo di un premio Randi, tristemente ben lontano dall’essere vinto da qualcuno…)
  2. la paura (il sospetto) che il paradigma alternativo che propongo sia solo il frutto del mio disperato desiderio di “senso”, anzi di salvezza

E se questi due ostacoli, in radice, fossero il medesimo?

Se l’ipotesi cosmoteandrica  fosse valida, come dovremmo, infatti,interpretare questo doppio ostacolo?

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Esserci: ovvero essere “in prospettiva”

Generalmente, quando ci si chiede che cosa intenda Heidegger (in Essere e tempo e altrove) con l’espressione “esserci” [Da-sein], si immagina che si tratti di un quasi-sinonimo di “coscienza” (il che è accettabile, ma solo in una determinata accezione di “co-scienza”), “individuo”, “essere umano” (il che è meno accettabile). Lo stesso Heidegger, a volte, sembra suggerire questa interpretazione, sebbene egli si sforzi di argomentare variamente il senso della scelta dell’espressione “esserci”.

Tuttavia, a ben vedere, l’esser-ci non è altro che la forma che l’essere, in generale, assume quando è percepito e concepito, ossia nel solo modo in cui esso è dato. “Ciò che è” è sempre qualcosa di determinato che appare ora, in un determinato modo e in un determinato luogo (“ci”, qui). Il “ci” di “esser-ci” è, dunque, il modo in cui l’essere si manifesta. In una parola: sempre in prospettiva.

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