L’insegnamento della filosofia non è esente dalla caduta di motivazione che investe più generalmente le discipline scolastiche e dal bisogno di venire ripensato a partire dal vissuto degli allievi, al limite di ciascun singolo discente, e dalla loro effettiva domanda di apprendimento (e, nel caso della filosofia, di senso).
Per di più la filosofia, come disciplina scolastica, soffre forse più di altre discipline di un certo ritardo nel campo della ricerca epistemologica e didattica che la riguarda.
Dalla storia della filosofia come esposizione di dottrine in ordine cronologico (a volte contrapposte l’una all’altra in modo puramente estrinseco, spesso a solo scopo mnemonico) si cerca sempre più di passare al filosofare come stile di apprendimento e di discussione dei problemi, come attività [1].
A questo scopo il rapporto con gli autori resta centrale, ma di questi si recuperano allora i testi, piuttosto che le sintesi, come modelli di ragionamento, di riflessione, di discussione di problemi, senza peraltro rinunciare a conferire senso anche alla loro dimensione storica.
La filosofia per problemi
Una prima forma di innovazione dell’insegnamento della filosofia consiste nel passare dalla tradizionale presentazione storica a un’esposizione per problemi [2].
Sotto il profilo didattico, un’adozione rigorosa di questa strategia dovrebbe implicare i seguenti passaggi.
La presentazione dovrebbe vertere su un tema, ad esempio il problema della conoscenza. Relativamente ad esso, l’insegnante dovrebbe illustrare le posizioni più significative emerse nella storia del pensiero, ma solo in quanto ancor oggi rilevanti e senza doverle riferire al contesto della filosofia in cui sono nate. L’esposizione avrebbe più o meno questo andamento: ‘a proposito di questo problema, il filosofo X afferma che...; a sostegno della sua tesi porta questi elementi... e sviluppa questa argomentazioni; il filosofo Y individua i seguenti punti deboli nelle argomentazioni di X e propone una diversa teoria, sostenendo... Seguendo questa ipotesi, si avranno le seguenti conseguenze... e risulteranno spiegati i seguenti fatti...’ [3].
Si possono notare subito alcuni limiti di questo approccio, in tale versione “pura”:
- la ricostruzione della “tradizione critica” è opera del docente o del manuale, la qual cosa pone la questione della sua attendibilità e del rischio di una forma occulta di dogmatismo (perché qualunque presentazione e selezione dei problemi non può non prendere le mosse da assunti non esplicitati da parte di chi la effettua);
- viene deliberatamente ignorato il contesto storico dell’emersione dei problemi e la sua eventuale rilevanza per la discussione degli stessi;
- l’analisi è fondamentalmente passiva, perché gli allievi sono chiamati solo a rendere conto dei passaggi argomentativi dei singoli autori e non invece a proporre soluzioni originali;
- l’indagine ha di mira le ipotesi avanzate per risolvere problemi, più che per sollevarne.
Il metodo “zetetico”
Per ovviare, in parte, alla rigidità dell’approccio “per problemi” puro, si può pensare di partire non da problemi già dati o proposti dal docente, ma di attingere al vissuto (ai “bisogni”) dei discenti per esplicitarne le domande e gli interessi, senza seguire schemi precostituiti di “risoluzione”.
Si tratta del metodo che, adottando una definizione di Franco Bianco [4], possiamo indicare come zetetico, cioè indagatorio (strettamente imparentato alla maieutica socratica, il metodo filosofico per eccellenza, di cui parleremo in seguito).
E’ chiaro il forte valore di questo approccio dal punto di vista della motivazione allo studio della filosofia, che è spesso proprio uno degli elementi più carenti.
Il rischio è che l’eccessiva condiscendenza al “vissuto” degli allievi faccia perdere di vista la dimensione del rigore filosofico, la necessità di formare competenze strettamente disciplinari attraverso l’indispensabile approfondimento dei contenuti culturali più importanti.
Valore e funzione dei testi e il recupero della dimensione storica
I rischi, sopra delineati, dell’“approccio problematico puro” alla filosofia, così come quelli legati all’adozione del “metodo zetetico puro”, potrebbero essere evitati qualora i problemi, comunque emersi e sollecitati, siano approfonditi attraverso i testi degli autori, opportunamente selezionati.
In che senso i testi sono importanti per un corretto recupero della dimensione storica?
Nel testo è l’autore stesso che, a partire dai propri presupposti, pone il problema filosofico e ne argomenta una possibile soluzione. L’insegnante e il manuale lasciano la parola, dunque, a un “soggetto” più (letteralmente) autorevole, anche se la responsabilità della scelta dell’autore (e del percorso in cui inserirlo) ricade sempre sull’insegnante, eventualmente coadiuvato e/o sollecitato dagli allievi.
Ciò consente di evitare il rischio del “dogmatismo occulto” prodotto dal docente che “ex cathedra” riassuma e presenti, sulla base soltanto dalla propria formazione culturale e metodologica, i problemi da discutere.
La “voce del passato”, rappresentata dall’autore, pur generando il problema supplementare (e tutt’altro che irrilevante) che consiste nell’intenderla e nell’interpretarla (problema evidentemente preliminare alla discussione del problema filosofico in sé), costringe tutti i soggetti coinvolti a misurarsi con la dimensione della storicità della problematica filosofica, intesa come questione
- del contesto in cui i problemi possono sorgere e
- della differenza tra il nostro contesto e quello di altre epoche e culture.
La storia, quindi, interviene nella dimensione filosofica non tanto come “sequenza” cronologicamente ordinatrice di temi e problemi filosofici, quanto come “ambiente” che ne rende possibile l’intelligenza (la comprensione).
… con valenze trasversali
Il modello ermeneutico-laboratoriale
Combinando insieme tutti questi approcci si può sviluppare un modello di didattica della filosofia, che sembra quello a tutt’oggi più accreditato e che possiamo qualificare come ermeneutico-laboratoriale.
Non è cosa da poco il fatto che questo modello didattico intersechi una della correnti di filosofia che, almeno in ambito “continentale” (europeo), vanno per la maggiore: l’ermeneutica appunto; non senza una “strizzatina d’occhi” alla vecchia e non tramontata idea gentiliana (ben poco realizzata nella stessa scuola che dalla riforma di Gentile prese il nome) del “laboratorio filosofico”.
Questa modalità, apparentemente ibrida, storico-problematica, di proporre oggi la filosofia, che scaturisce dalla combinazione delle varie proposte fin qui riassunte, era del resto suggerita dai cosiddetti “programmi Brocca”, purtroppo ora abbandonati, che costituirono la più cospicua innovazione “istituzionale” nell’insegnamento della filosofia dal dopoguerra a oggi.
Il modello ermeneutico, attivando il circolo interpretativo, che mette in relazione
- vissuto del discente,
- testo da decifrare dell’autore e
- problema su cui autore e allievo si affaticano,
appare la strategia più consona a a restituire significatività allo studio della filosofia.
Tale modello non si limita, peraltro, alla sola didattica della filosofia, ma può essere praticato con successo, più in generale, nella didattica delle discipline storiche, artistiche e letterarie.
Infine, non va trascurato il fatto che, secondo quanto suggeriscono un numero sempre maggiore di autori, come Richard Rorty, l’approccio ermeneutico non è fondamentalmente diverso da quello scientifico, quando esso sia epistemologicamente avvertito, ossia dalla strategia per “congetture e confutazioni” messa in luce, ad esempio, da Raimund Popper.
A ben vedere, infatti, lo stile di indagine epistemologico, per congetture e confutazioni, per dirla con Popper, e quello ermeneutico, che consiste nel negoziare a più riprese il senso di un “testo”, che può anche essere un “progetto”, un’attività ecc., non appaiono così lontani l’uno dall’altro, nonostante le diverse matrici culturali e il diverso lessico con cui tali atteggiamenti si esprimono.
Prendiamo il caso emblematico della traduzione, che costituisce il modello dello stile ermeneutico: chi interpreta un testo comincia formulando un’ipotesi circa il suo senso globale (ipotesi spesso derivante dai propri pregiudizi) e via via la corregge se non è congruente con i dati testuali (falsificazione) fino a conseguire una provvisoria “fusione di orizzonti” (Gadamer) tra il proprio orizzonte di senso e quello, presunto, dell’autore (nel caso che l’“altro” non sia un testo, ma un soggetto parlante, si parlerà di “negoziazione” del senso, di “conversazione”, di “intesa comunicativa”).
In entrambi i modelli si parte da un’ipotesi (che può derivare anche in questo caso da “pregiudizi”: Popper, come è noto, parla dei miti o della metafisica come fonti della creatività scientifica) e la si saggia per prova ed errore sul materiale empirico (il “testo”, “il libro dell’universo” nell’immagine di Galileo).
Del resto si sa ormai che anche in campo “scientifico” l’oggettività è sì connessa alla verifica, ma questa
non può essere intesa come verifica fattuale, ammesso e non concesso che si possa continuare a parlare di ‘fatti’ (e non si può). L’oggettività è un processo di riscontro con il ‘reale’ che passa sempre e comunque attraverso l’interpretazione, la spiegazione/comprensione, la rielaborazione mentale/culturale e che, quindi, reclama verifiche di tipo ormai più sofisticato e più complesso, anche più problematiche: interpretative, appunto, come ha sottolineato il neopragmatismo da Davidson a Rorty e oltre, fino a Nozick [5].
La stessa psicologia dello scienziato viene a mutare: non è più il fanatico del laboratorio, il ricercatore ossessionato dai ‘fatti’, colui che formula ipotesi dopo una procedura di osservazioni il più esaustiva possibile. è piuttosto un intellettuale che lavora con le categorie dell’interpretazione (pregiudizio + ricerca + ipotesi + verifica + nuovo pregiudizio) e che abita lo spazio inquieto della ricerca, appunto [6].
[1] Cfr. Franco Bianco, Insegnamento della filosofia: metodo ‘storico’ e metodo ‘zetetico’, “Paradigmi”, 1990, 23, , pp. 393-97.
[2] In questa direzione andava, per esempio, la proposta di estensione dell’insegnamento della filosofia nei bienni superiori e nelle scuole non liceali, elaborata dalla “Commissione dei Saggi” istituita dal Ministro Berlinguer. Essa metteva in luce l’opportunità di proporre “da un lato le questioni di senso e di valore (obblighi, scopi, diritti e doveri, valutazione delle condotte, questioni di giustizia): insomma, la costruzione della capacità di sviluppare razionalmente i proprio punti di vista, e di comprendere e di discutere quelli altrui, a partire dalla situazioni e dai problemi dell’esperienza concreta (questioni di etica e di bioetica, responsabilità, cittadinanza). Dall’altro, le questioni di verità (a partire da nozioni elementari di logica, teoria dell’argomentazione, epistemologia)” (I contenuti essenziali della formazione di base ***).
[3] Eugenio Ruffaldi, Insegnare filosofia, La Nuova Italia, Firenze 1999, p. 114.
[4] Cfr. Franco Bianco, Insegnamento della filosofia: metodo ‘storico’ e metodo ‘zetetico’, cit,, p. 11-32
[5] Franco Cambi., Saperi e competenze, Laterza, Roma-Bari 2004., p. 39.
[6] Franco Cambi, op. cit, p. 79.