I cosiddetti maestri del sospetto, come Schopenhauer, Marx e Nietzsche, ci hanno indotto a dubitare delle nostre credenze, non semplicemente mettendone in discussione la veridicità (sul piano epistemologico), ma cercandone, in qualche modo, una spiegazione (di tipo genealogico) al di fuori della nostra coscienza, ad esempio in una volontà cosmica e impersonale oppure nell’interesse del capitale oppure nel corpo e nella sua volontà di potenza.
Compiendo una parabola iniziata con Copernico (che ha riconosciuto come la Terra abitata dall’uomo non fosse affatto al centro dell’universo, ma fosse piuttosto alla sua periferia) questi filosofi hanno contribuito, quindi, a de-centrare (de-tronizzare) il soggetto della conoscenza e dell’azione (l’uomo) da se stesso, dall’autodominio e dell’autocontrollo. La parabola è tanto più paradossale in quanto inizia proprio con le pretese rinascimentali, moderne e illuministiche di un’affermazione senza limiti dell’uomo sulla natura, sulla base dell’idea (anche se non sempre esplicita) della “morte di Dio” (Nietzsche).
Parallelamente a questa presa di coscienza filosofica del fatto che l’uomo non è (più) “padrone in casa propria” si svolge il processo del sapere scientifico, nell’ambito della biologia e della psicologia. Tale processo, compiendo la parabola del positivismo ottocentesco, sembra portare allo stesso risultato: dove prima si riteneva di poter individuare dei fini, di Dio o dell’uomo stesso, liberamente voluti, sembra di dover postulare ora soltanto gli effetti di un misto di caso e di necessità (Monod) che nessuno ha coscientemente voluto e che tutti, in qualche modo, subiamo. È come se la cartesiana res extensa occupasse ora tutto lo spazio, togliendo ogni residua funzione alla res cogitans, cioè alla coscienza, ridotta a mero epifenomeno (manifestazione superficiale) del corpo e della natura (o, semplicemente, del cervello, come ci suggeriscono le cosiddette neuroscienze).
Tale sviluppo è quanto mai evidente nelle concezioni rivoluzionarie di Darwin e Freud. Freud stesso, in un celebre passo, interpreta la sua dottrina come il compimento di una parabola di “sloggiamento” dell’uomo dal centro dell’universo, inaugurata da Copernico e proseguita da Darwin.
È vero che nel Novecento, come abbiamo visto, l’approfondimento epistemologico porterà a relativizzare e ridimensionare le certezze del positivismo al riguardo, riconoscendo nelle teorie scientifiche (dunque anche in quelle di Darwin e Freud, così come nelle più moderne neuroscienze) soltanto dei modelli esplicativi dei fenomeni, falsificabili e correggibili. Tuttavia questa critica interna ai singoli prodotti del sapere scientifico non si è mai spinta, in ambito strettamente epistemologico, a mettere in discussione alcune conquiste fondamentali caratteristiche della scienza moderna, e in particolare il principio di oggettività (come lo chiama Monod), ossia l’abolizione delle “cause finali” e l’orientamento metodologico a spiegare i fenomeni (compresi quelli umani) ricorrendo solo a cause meccaniche e materiali (esterne rispetto alla coscienza o allo “spirito”).
Ma è davvero possibile “ridurre” la conoscenza dell’uomo, nella sue diverse articolazioni (psicologia, sociologia, antropologia, economia, politologia ecc.), alla stregua della conoscenza di qualsiasi altro oggetto (come l’animale, la pianta, il pianeta, l’atomo ecc.)? O il fatto che nelle scienze dell’uomo il “soggetto” della conoscenza è simile o identico all'”oggetto” (l’uomo studia l’uomo) produce un curioso gioco di specchi o cortocircuito che richiede una diverso metodo d’indagine, rispetto a quelli della scienza della natura?