Filosofia della mente



Una questione molto rilevante che investe discipline diverse, come la filosofia della mente, le neuroscienze, la psicologia (segnatamente cognitiva), le scienze cognitive, la biologia, la fisica, la teoria dell’informazione, la cibernetica, la computer science e altre ancora,  è la questione della coscienza.

La filosofia della mente, in particolare, che discute questo problema sotto il profilo filosofico, costituisce, secondo alcuni, un’evoluzione della filosofia analitica: la tradizione empiristica anglosassone che ha ispirato la filosofia analitica si sarebbe progressivamente orientata verso la filosofia della mente nella misura in cui avrebbe virato rispetto al proprio oggetto: non più il linguaggio che parliamo ma gli stati mentali che lo “precedono”.

Ma in che cosa consiste il problema della coscienza? Si potrebbe dire, semplicemente, che esso consiste nella domanda “Perché e come siamo coscienti anziché no?” (il primo tratto della domanda va sotto il nome hard problem, il secondo è spesso rubricato come easy problem).

Assumendo il paradigma riduzionistico si potrebbe provare a rispondere a questa domanda, come fa Daniel Dennett o  Jaegwon Kim, in questo modo: gli stati mentali corrispondono a stati fisici, considerando il fenomeno della coscienza come l’effetto di determinati processi fisiologici (per i quali si possono invocare e intrecciare biologia, chimica e fisica, eventualmente anche la scienza dell’informazione, come fa p.e. Tononi).

Oppure, come fanno i coniugi Churchland, si potrebbe negare addirittura che propriamente “esista” qualcosa come una coscienza (eliminativismo).

Tuttavia questi tentativi riduzionistici sembrano incontrare gravi problemi, come osserva Paternoster.

martellataQualunque operazione di questo tipo fallisce (come hanno dimostrato tra gli altri Hillary Putnam, Saul Kripke, David ChalmersJohn Searle e il fisico Roger Penrose), perché non può, per costruzione, rendere conto dell’esperienza soggettiva della coscienza (ossia dell’esperienza dei qualia, come si dice in filosofia della mente): una teoria riduzionistica, per quanto raffinata, può spiegare perché a una martellata sul dito segue un grido di dolore, a partire dagli impulsi che dal dito arrivano al cervello e di qui, dopo vari passaggi, giungono alla bocca attraverso i polmoni; ma essa non mi spiega perché, se la martellata l’ho presa io, dovrei esserne cosciente anziché no.

Anche qualora una teoria riduzionistica simile potesse esistere (cosa che si può dimostrare impossibile), resta, inoltre, il fatto che, nonostante generosi tentativi in tal senso, nessuno sia finora riuscito a costruirla. Come scrive Donald Hoffman:

Se ipotizziamo che l'attività cerebrale equivalga alle esperienze coscienti o le faccia sorgere in qualche modo, ci servono comunque leggi o principi esatti che colleghino ciascuna esperienza cosciente (come il sapore del basilico) alle specifiche attività cerebrali che equivalgano a quella o che la fanno sorgere. Finora nessuno ha offerto principi e leggi di questo tipo.
[L'illusione della realtà, p. 40]

Per “spiegare” perché abbiamo una coscienza si potrebbe allora tentare di attribuire alla “coscienza” (p.e. della martellata subita, attraverso la sensazione del dolore) una funzione (potrebbe p.e. indurmi a evitare di dare un secondo colpo di martello nella stessa direzione di prima) (funzionalismo), senza pretende di associare uno-a-uno ogni stato mentale a uno stato fisico.

Ma ciò significherebbe, come mostra ancora Paternoster, che qualcosa di “impalpabile” o immateriale (come una sensazione soggettiva) potrebbe esercitare un’azione sul mio corpo. Tecnicamente, in filosofia della mente, si parla, al riguardo, del “ruolo causale” che la coscienza svolgerebbe.

Poiché sul concetto di “causa” si potrebbe discutere all’infinito va precisato il senso di questo “ruolo causale”: una determinata sensazione cosciente dovrebbe potermi far assumere un comportamento che, in assenza di tale “sensazione”, solo sulla base di impulsi – poniamo – elettrici (ai quali non si accompagnasse alcuna sensazione cosciente), il mio corpo non avrebbe assunto.

Ciò che si può escludere, se la coscienza assolve un ruolo causale, è che la sensazione che la “riempie” (p.e. il dolore per la martellata sul dito) possa semplicemente “sopravvenire” rispetto a un determinato stato cerebrale. Questo, infatti, non dovrebbe per definizione essere “causalmente equivalente” alla sensazione cosciente a cui è associato, pena l’azzeramento del ruolo causale della coscienza stessa (che diverrebbe superflua).

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Il problema è che, se la coscienza svolgesse un ruolo causale tale da cambiare il corso di un evento (cioè tale che, se essa non lo svolgesse, l’evento avrebbe un corso diverso), si registrerebbe la rottura della chiusura causale del mondo fisico, ossia del fisicalismo. La natura sarebbe soggetta a “influenze” derivanti da una sfera “soggettiva”, non riconducibili a forze fisiche note.

Queste forze fisiche note, infatti, anche quando si manifestano nei processi “superiori” chimici e biologici (in quanto si presume che essi siano riducibili, in ultima istanza, a processi fisici), nella prospettiva fisicalistica non sono “per costruzione” sensibili a qualcosa come una “coscienza”.

La “coscienza”, per funzionare,  dovrebbe retroagire causalmente sui “livelli” inferiori di realtà (esercitare, cioè, una cosiddetta downward causation), in particolare sul “corpo” di cui è coscienza.

Ma tutto ciò è contrario all’ipotesi riduzionistico-fisicalistica assunta inizialmente.

L’alternativa è che la coscienza non assolva alcun “ruolo causale”, ma sia un mero, come si dice, “epifenomeno“. Questa è l’ipotesi di coloro che la considerano alcunché di sopravveniente, qualcosa, cioè, che si aggiunge ai processi neurofisiologici senza interferire con essi.

Essa sorgerebbe a certe condizioni (ad esempio quando si raggiunge un certo livello di complessità nel gioco delle informazioni o, se si preferisce, degli impulsi che circolano per il nostro corpo, secondo il modello di TononiTegmark e altri).

Ma quest’ipotesi lascia inevasa la domanda: “Perché siamo dotati di coscienza?”. Se la coscienza non assolvesse alcuna funzione (se l’assolvesse, dovremmo, di nuovo, attribuirle un ruolo causale), come potrebbe essere spiegata all’interno del paradigma meccanicistico?

Essa, in particolare, non potrebbe venire spiegata biologicamente (darwinisticamente), come, viceversa, pretenderebbero i “materialisti”, perché non determinerebbe alcun “vantaggio evolutivo”.

A meno che la coscienza non possa costituire un carattere free rider (nel senso che a questo termine assegna Massimo Piattelli Palmarini nel libro, scritto con Jerry A. Fodor, Gli errori di Darwin), ossia un carattere emerso casualmente senza assolvere alcuna funzione e senza rappresentare alcun vantaggio evolutivo per la sopravvivenza della specie che ne è dotata.

Ma come si potrebbe risolvere, in questa ipotesi “epifenomenistica”,  il “paradosso di Chalmers” (esposto in La mente cosciente)? Come distinguere, cioè, se la coscienza non assolvesse un ruolo causale, cioè non svolgesse alcuna funzione, il nostro mondo (in cui vi sono entità dotate di coscienza, io ne conosco almeno una, io!) e un mondo “zombie”, in cui tutto si svolgesse identicamente, ma nessuno fosse dotato di coscienza? E, se tali mondi fossero esteriormente indistinguibili, perché mai solo in uno di essi dovrebbe essersi sviluppata la coscienza? Sembrerebbe più confacente a un principio di economia (nel modo di operare della natura) che, piuttosto che il nostro, esistesse soltanto il mondo zombie. Ancora una volta manca uno straccio di spiegazione del perché nel nostro mondo vi sia qualcuno dotato di coscienza.

A meno che il mondo zombie sia semplicemente impossibile. Magari c’è una misteriosa “legge di natura”, secondo la quale a un determinato grado di complessità, raggiunto da determinati aggregati di materia vivente (o anche non vivente), deve associarsi qualcosa come una coscienza, senza che questa possa assolvere, tuttavia, alcun ruolo causale.

Si tratta ad es. dell’ipotesi di Marco Giunti. Tale ipotesi richiede, per l’esattezza, che  questa misteriosa “legge di natura” viga non solo nel nostro mondo, ma in ogni mondo possibile.

Rimane, in quest’ipotesi, che una “cosa”  così complessa, come la coscienza, non assolva alcuna funzione.

Ogni ipotesi che tenga fermo che la coscienza, come mero epifenomenonon possa retroagire causalmente sui livelli inferiori di realtà, si scontra, poi, con un fatto indiscutibile: in generale, le ricerche sulla coscienza (come quella che stiamo conducendo noi, adesso!) presuppongono la coscienza e sembrano anche dimostrare che essa assolva una funzione causale, almeno in quanto causa finale (in quanto oggetto che muove la ricerca stessa).

Infatti sembra ragionevole supporre che io stia scrivendo questo articolo perché, avendo una coscienza, mi chiedo (e me lo chiedo al fine di sapere) perché (a che fine, con quale funzione) ce l’ho. Le mie dita non si muoverebbero sulla tastiera se non mi chiedessi perché sono cosciente. Se non fossi cosciente, ma fossi uno zombie, identico in tutto e per tutto a me stesso, non avrei alcun motivo (alcuna ragione, alcuno scopo) per interrogarmi sulla coscienza e per scrivere questo articolo.

Lo stesso paradosso di Chalmers può essere risolto, molto meglio che invocando implausibili leggi relative al necessario emergere della coscienza in determinate condizioni (come fanno Giunti, ma anche Tononi e Tegmark, già evocati), se ci si chiede: “Nel mondo zombie, identico al nostro, i nostri cugini zombie sviluppano ricerche di filosofia della mente, si chiedono che cosa sia la coscienza?”. Se sì, allora non sarebbero “veri zombie” (il loro comportamento sarebbe assurdo: gli zombie cercherebbero di comprendere qualcosa di cui ignorerebbero l’esistenza!). Se no, contro l’ipotesi, il mondo zombie non sarebbe affatto (esteriormente) identico al nostro (non vi si celebrerebbero convegni sul problema della coscienza, come avviene nel nostro).

Insomma, le cose sembrerebbero andare diversamente da come presumibilmente andrebbero se tutto fosse apparentemente identico, ma non vi fosse coscienza. Dunque la coscienza – si direbbe – “fa la differenza”, assolve un ruolo causale.

Ma, se la coscienza assolve una funzione causale (anche solo come causa finale, anche solo come qualcosa su cui effettuare ricerche, come facciamo noi ora, mentre non avrebbe senso che lo facessero i nostri amici zombie), il paradigma meccanicistico (tradizionale), come è detto, è rotto.

Ora, se possiamo riabilitare l’ipotesi che la coscienza possa assolvere un ruolo causale, ci si deve chiedere in che cosa tale ruolo possa consistere.

La coscienza potrebbe forse svolgere una funzione biologica?

Non si vede perché tutto ciò che il sistema nervoso ci permette di realizzare consciamente, per la nostra sopravvivenza, rispondendo agli stimoli ambientali, non potrebbe benissimo venire realizzato inconsciamente.

Ma, se non biologica, che funzione potrebbe assolvere?

d Giorgio Giacometti