Il limite dell’empirismo radicale di Mach è la difficoltà, in una prospettiva come la sua, di maneggiare “oggetti”, indispensabili per la scienza della natura, non immediatamente osservabili come tali, come atomi, molecole, elementi chimici ecc. Che cosa sono tutti questi “oggetti”? E, più in generale, nozioni come “energia”, “campo elettromagnetico” ecc., che si riferiscono ad “entità” di cui si possono solo verificare gli effetti, ma non direttamente osservabili, come vanno trattate?
Poincaré, rovesciando il punto di vista di Newton che si rifiutava di introdurre ipotesi, propone di interpretare le teorie che dànno significato a queste nozioni appunto come ipotesi, modelli utili per interpretare la natura. Gli oggetti a cui si riferiscono sono “costrutti” della mente dello scienziato, indispensabili (a differenza di quello che credeva Mach), ma non necessariamente “reali”. Si tratta, dunque, di adottarli per convenzione. In fondo si tratta di tornare all’antica concezione greca (platonica) delle matematiche come scienze ipotetiche, capaci di “salvare i fenomeni”, ma pur sempre bisognose di essere fondate su un “principio” incontrovertibile per essere dimostrate vere.
Lo sviluppo della teoria atomica, che ha visto susseguirsi una serie di modelli dell’atomo tra loro incompatabili (Rutherford, Bohr ecc.), esemplifica bene questa nozione. Difficile credere che uno di questi modelli sia reale, soprattutto considerando la velocità con cui si è passati dall’uno all’altro. Si tratta, quindi, di convenzioni (né più né meno di quelle adottate per definire le unità di misura), utili per rendere conto dei fenomeni osservati (che si comportano “come se” la materia fosse fatta in questo o quel modo).
Questo approccio, più adeguato all’effettiva natura delle teorie scientifiche di quello di Mach, che le riduceva a mere “abbreviazioni matematiche” di esperienze, pone, tuttavia, un problema fondamentale, che si poneva già nel modello platonico. Più teorie (ipotesi) possono essere compatibili con gli stessi fenomeni osservati. In linguaggio epistemologico diremmo che i fenomeni sottodeterminano le rispettive teorie (ossia non sono sufficienti a determinare quale tra più teorie alternative, tutte in grado di “spiegarli” e/o di favorire previsioni corrette, sia quella “giusta” o “vera”).
In base a quale criterio, allora, si dovrebbe preferire un modello a un altro, un’ipotesi a un’altra? Come addivenire a una convenzione piuttosto che a un’altra (se di “convenzioni” si tratta)? Poincaré, come Mach, pensa che si tratti di scegliere la soluzione più efficiente, quella che egli chiama la più “comoda“. Come lo stesso Einstein, Poincaré considera criteri adeguati per la scelta tra teorie rivali l’eleganza, la semplicità. Per questa ragione anche se la teoria di Copernico e quella di Brahe (che collocava la Terra al centro del sistema, ma faceva ruotare gli altri pianeti intorno al Sole) erano perfettamente equivalenti matematicamente ed entrambe “salvavano i fenomeni” meglio del sistema tolemaico, la teoria di Copernico, per la sua semplicità, doveva essere preferita.
In che senso, allora, l’adozione di criteri di scelta di questo tipo (utilità, praticità, economicità) distingue questi approcci da quelli francamente pragmatistici di tipo americano? La differenza fondamentale consiste nel fatto che Poincarè quando parla di utilità si riferisce al lavoro dello scienziato (al risparmio di tempo e di energie, per esempio nell’effettuare calcoli). L’obiettivo resta essenzialmente quello della spiegazione e della previsione dei fenomeni. Dunque concerne la conoscenza, non l’azione.