Dalla libertà al bene attraverso l’esercizio

biforcazione fluviale

  • Mi hai illustrato la tua teoria relativa al margine di libertà di cui godremmo nell’agire, posto che tutto dipende in ultima istanza da Dio, quel Dio che, certo, noi stessi saremmo, ma che non siamo per lo più consapevoli di essere. Ora dimmi, in questo quadro, come perseguire il bene piuttosto che il male? Se neghi che chi decide in ultima istanza sia l’individuo, ma rimetti tale decisione, entro certi limiti libera, all’Uno (Dio, l’Assoluto) ecc., Costui non dovrebbe decidere sempre per il meglio?

In un certo senso forse è così, se non “tutto il male viene per nuocere” come si suol dire. Tuttavia, quale sarebbe l’alternativa?

  • L’alternativa sarebbe quella di ammettere francamente che chi decide liberamente sia proprio io e che io possa scegliere di fare il male.

E come sceglieresti il male?

  • Sceglierei sulla base di un atto di volontà.

Che cosa intendi per “volontà”? Intendi una “facoltà” che permette di scegliere liberamente che cosa fare o non fare, sulla base di quello che sai o, almeno, pensi che sia, rispettivamente, bene e male fare?

  • Sì, esattamente.

Ma una scelta “volontaria” avviene comunque in base a ragioni oppure no?

  • Direi di sì.

In questo caso, però, qualora tu scegliessi volontariamente di agire diversamente da quanto ti sembra bene, sulla base di qualche ragione, dovremmo supporre che non sia proprio vero che ti non ti sembra bene agire in quel determinato modo, non credi?

  • Perché?

Perché, come argomenterebbe Socrate, se fai qualcosa è perché, almeno nell’istante in cui agisci, credi o sai che fare quella determinata cosa sia bene, altrimenti non la faresti (intellettualismo etico).

  • Forse, però, agire volontariamente significa agire, non in base a ragioni (come quelle che mi farebbero preferire un’azione a un’altra), ma davvero liberamente.

Liberamente, cioè arbitrariamente?

  • Sì, senza ragione, appunto.

Può darsi che accada qualcosa del genere. Ma presupporre una “libertà” della volontà in questo senso significa ammettere un “punto cieco” nella comprensione dell’agire di una persona ed abdicare a ogni tentativo filosofico (e, se vogliamo, anche psicologico) di comprensione.

Come sceglierebbe, infatti, liberamente la volontà? La volontà non è che il nostro desiderio, in ultima analisi la nostra anima, il dèmone di cui parla Eraclito, ciò che muove il nostro corpo sulla base di ragioni (anche se queste ci rimangono, per lo più, inconsce).

Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio.
Lettera ai Romani, 7, 19

E con questo?

  • Per quanto tu cerchi di agire nel modo migliore puoi cedere sempre alla tentazione di perseguire il male…

Nei sei certo? Se faccio qualcosa è perché voglio ciò che faccio; se lo voglio è perché lo credo buono.

Non si può non volere quello che si fa e non credere buono quello che si vuole. Se, come San Paolo, si crede di fare ciò che non si vuole è solo perché non si esamina con attenzione il proprio “volere”: si fa sempre qualcosa che almeno una “parte” di noi, in quel momento dominante, desidera, ossia crede buona, anche se non lo si ammette. Ciò a cui si assiste, in questi casi, non è che a un conflitto tra desideri o, il che è lo stesso, credenze, ovvero tra anime che in noi si agitano e dibattono.

  • Ma, se le cose stanno così, qualunque cosa io faccia, è in qualche modo necessaria!

Non lo è mentre la compi, nella misura in cui giochi sul margine di libertà che l’indeterminazione di fondo della natura ti concede e su cui abbiamo a lungo riflettuto.  Necessaria, tuttavia, senz’altro appare “col senno di poi”, quando cioè se ne sviscerano le ragioni.

  • Quindi non è possibile, a rigore, sbagliare?

No, è possibilissimo, ma non perché  si  possa essere indotti a fare qualcosa che si “sappia” o “si creda” essere male, il che sarebbe contraddittorio, bensì perché si può cadere in forme di autoinganno.

  • E come è possibile?

A causa della radicale incoerenza dell’infinito dei possibili. Non scegliamo mai avendo davanti a noi chiaramente l’alternativa tra il bene (il bello)  e il male (il brutto), altrimenti, come ha insegnato Socrate, sceglieremmo sempre il bene. L’errore, che è sempre relativo a un determinato contesto, non mai assoluto, scaturisce dall’inganno: dallo scambiare la copia per il modello, l’immagine per ciò di cui è immagine. Altrimenti non avrebbe senso pentirsene.

  • Di che cosa ci si pente? Se tutto è determinato da ragioni che ci sfuggono…

Ci si pente di quello che si fa quando non si sono messe in conto le sue conseguenze negative.

Non vi è altra etica, sotto questo profilo, che l’etica della responsabilità. Non vi è altro imperativo, che ipotetico: se vuoi quello, non fare questo;  se fai questo, perdi quello.

  • Dunque è tutta una questione di calcolo? Il fine giustifica i mezzi?

In un certo senso sì. Lògos significa anche calcolo.

  • Ma come riconoscere, da ultimo, il bene?

Non ci sono a priori garantiti.  Non basta osservare in modo eteronomo norme (delle quali si dovrebbe sempre di nuovo richiedere la giustificazione). Non basta neppure agire kantianamente secondo una regola che possa valere anche per tutti gli altri, per “mettersi in pace” con la propria coscienza (in senso morale). Infatti, come indovinare regole che possano davvero contribuire al bene comune, e non invece rappresentare mere proiezioni dei propri apparenti o arbitrari interessi (come ha osservato una volta per sempre Hegel, criticando l’impostazione kantiana)? Ma neppure basta osservare, hegelianamente, la “legge dello Stato”, provvisoria e fragile convenzione dalla debole giustificazione pratica e storica, gravemente sospetta di essere non altro che strumento ideologico per coprire questo o quell’interesse di parte.

  • Come puoi negare che esista una legge morale, dettata dalla ragione, che siamo liberi di seguire o meno!

Ogni pretesa di fondare un’etica su leggi inderogabili che, tuttavia, si sarebbe liberi di seguire o meno è illusoria. In base a che cosa si sceglierebbe? C’è sempre, come abbiamo osservato, una ragione, da qualche parte, che spiega perché si è fatto quello che si è fatto.  Dammi questa ragione e io ti darò l’azione che necessariamente (dunque innocentemente) ne  è conseguita.

La credenza nell’esistenza di leggi morali che si sarebbe liberi di seguire o meno, radice di ogni moralismo, ha un’origine “umana troppo umana”, ormai sviscerata dal lavoro dei maestri del sospetto di ogni tempo e, in particolare, da Schopenhauer, Marx, Nietzsche, Freud. Si è indotti a credere che si sarebbe potuto agire altrimenti da un meccanismo perverso che ci induce a provare un senso di colpa o, qui è lo stesso, del peccato, che ci lascia preda di strutture di dominio (si tratti di sovrastrutture che perpetuano il potere di alcuni su altri o, più sottilmente, di formazioni inconsce che controllano il nostro operare, come il Super-Io freudiano), alle quali finiamo per asservirci.

Ogni autentica redenzione dal peccato scaturisce da una misericordia talmente infinita da permetterci non solo di espiare (passaggio necessario nell’economia del senso di colpa) il nostro peccato, ma, alla fine, di riconoscerne finanche la provvidenzialità nell’economia del tutto.

“Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno” (Lc, 23, 34)  significa “Perdonali, perché sono radicalmente innocenti, ma non sanno di esserlo e finché non l’avranno compreso profondamente continueranno a credersi colpevoli anche se riceveranno una superficiale assoluzione da qualcuno, al quale, tuttavia, non attribuiranno alcuna autorevolezza”.

  • Ma tutto questo autorizza a liberare in noi l’istinto, la volontà di potenza, la libido più sfrenata?

Tutt’altro. Tale è l’equivoco in cui sembra talora incorrere Nietzsche (quando si allontana troppo, fantasticamente, dal modello che, pure, rappresentano per lui i Greci o, anche, gli uomini del nostro Rinascimento).

Accondiscendere all’anima concupiscibile o a quella irascibile non procurerebbe che errori, pentimenti, nuovi sensi di colpa senza fine; per la semplice ragione che tali passioni sono cieche e conducono a compiere gesti dei quali poi, a causa delle loro conseguenze sgradevoli, saremmo i primi a pentirci.

Il saggio agisce come il santo, persegue il bene comune, desidera il desiderio dell’Altro, congioisce con coloro che godono e compatisce coloro che soffrono. Soltanto: agisce in tal modo non perché senta il dovere di conformarsi a norme, apparissero pure dettate dalla ragione (ma da quale ragione? la ragione non detta norme morali, ma, semmai, ne sviscera il fondamento o la mancanza di fondamento), ma perché è mosso da quello spontaneo amore dell’Uno o di Dio, che si esprime attraverso il bello (anche inappariscente), perché gode nel massimizzare l’armonia del mondo.

In questo agire, per eterogenesi dei fini, egli consegue insieme la felicità nell’immediato e getta le basi, fecondamente, della futura felicità propria e altrui.

  • Ma come fare a diventare saggi? Come essere certi di perseguire il bene?

Come sappiamo, non siamo liberi di desiderare e, quindi, di volere questo o quello (“a cuor non si comanda”), perché ciò che in noi decide, in ultima analisi, non siamo noi, ma l’Uno in noi.

Tuttavia, proprio per questo, quanto più ci eleviamo nella direzione dell’Uno che noi stessi siamo, tanto più saremo anche artefici del nostro destino.

Diogene

  • E come elevarci in questa direzione?

Per migliorare se stessi e il mondo, aumentando la probabilità di agire sempre bene in ogni circostanza, non basta esercitare di quando in quando il proprio “libero arbitrio” (anche nella versione di “margine di libertà” riservato all’anima del mondo). Infatti, come dice Seneca,

fata volentem ducunt, nolentem trahunt

cioè: il destino guida chi si lascia guidare, trascina chi recalcitra (nella direzione del medesimo fine).

Infatti, come sappiamo, il fine a cui le cose tendono (per la precisione: appaiono tendere nella coscienza che se ne ha, in quanto essa si svolge nel tempo) non cambia, per quanti giri e rigiri vengano fatti prima che esso sia conseguito.

Esso non può non essere raggiunto, per quanto oblique siano le vie percorse, come la “Signora Morte” nella celebre canzone Samarcanda di Roberto Vecchioni.

  • E che cosa dobbiamo fare, allora, per conseguire più rapidamente il fine che comunque abbiamo?

Non c’è altra via che quella dell’esercizio, del fare di una certa linea d’azione una “seconda natura” (il proprio carattere e, perciò, il proprio destino), come si ricava p.e. dal Manuale di Epitteto, e vedere l’effetto che fa. L’auspicio è che tale linea d’azione, divenuta abituale, costituisca una virtù, piuttosto che un vizio, ossia che tale linea d’azione sia la più breve in rapporto al fine.

L’anima, cioè, non deve solo o tanto scegliere il bene, quanto soprattutto praticarlo, attraverso le “belle azioni” o, come dicono gli zoroastriani, “i buoni pensieri, le buone parole e le buone opere”.

La tradizione antica, così come quella orientale, – non a caso – non sa nulla di scelte da compiersi sulla base del “libero arbitrio”, il cui operare ci espone sempre a decisioni appunto “arbitrarie”, non adeguatamente giustificate, in quanto non adeguatamente sperimentate.

Nondimeno ci è dato sempre un margine di libertà (un fondo di indeterminazione) quanto meno nella “scelta” della via (più corta o più lunga, vale a dire migliore o peggiore, più retta o più obliqua) che conduce al fine. Possiamo decidere o meno di impegnarci in questo o quell’esercizio. In tale margine risiede quello che chiamiamo “libero arbitrio” in quanto riferito a ciascuno di noi. Esso, in ultima analisi, come la phrònesis di cui parla Aristotele, consiste soltanto nella scelta di mezzi più o meno idonei a perseguire il fine che, comunque, abbiamo, cercando di evitare di cadere nella trappole (gli autoinganni) che la vita, di volta in volta, ci tende.

  • Già, ma in che cosa consiste il bene a cui tendere?

Nella forma, nell’ordine, nella bellezza.

Non ex-siste, propriamente, se non ciò che è coerente con se stesso.  Ed è bene e bello che sia tale. Quanto maggiore è la coerenza, dunque l’unità dell’essere, tanto migliore e più bello è ciò che si dà, ciò che è in quanto mi appare.

Per questa ragione la ricerca della coerenza muove il mondo, è l’anima dell’essere, in ogni campo:

  1. in logicaça va sans dire, senza di cui non si darebbe alcuna comprensione;
  2. in fisica (dove si parla di “coerenza quantistica”), nella quale la coscienza mostra pienamente la sua  perfetta coincidenza con il mondo, in quanto forma in cui l’universo intero si offre, come un tutto coerente, in ogni determinata prospettiva;
  3. in biologia, dove si traduce nell’organizzazione funzionale del vivente (grazie all’azione – se ho ragione – di campi morfogenetici);
  4. in etica, dove si prolunga l’azione del campo morfogenetico all’ambito del comportamento (ethos), in particolare a quelli che gli eto-logi chiamano “atti di consumo”, mediante i quali conserviamo la nostra forma, e agli atti d’amore (èros), mediante i quali ci riproduciamo carnalmente o spiritualmente (in ultima analisi siamo animali che si distinguono dai vegetali per questa estensione del campo morfogenetico); etica in cui  ne va, dunque, tanto del mio bene, quanto dell’immagine che ho di me stesso e che gli altri si possono fare di me;
  5. in politica, dove la ricerca riguarda il bene comune, la difficile costruzione di un ordine sociale stabile nel quale ognuno possa agire secondo virtù….

desiderio sempre necessariamente frustrato, sempre tale da incontrare l’antinomia nel proprio percorso, il disordine, il negativo, la morte, l’altra faccia del mondo, il contraddittorio che preme per venire alla luce e che rivendica il proprio diritto all’essere, anche se non è attualmente compossibile con ciò che tuttavia si offre.

  • Ma, se èros non è che amore della bellezza, e la bellezza è forma, e la forma è coerenza, perché non amiamo  ciò che conviene amare, perché “cadiamo nel peccato”, erriamo dalla via del bene?

Proprio per l’impossibilità di perseguire stabilmente il bene. Non c’è salute senza malattia, riposo senza fatica, bene senza male (come diceva ancora Eraclito). La coerenza non è garantita, ma scaturisce dalla lotta, eterna, dell’ordine contro il disordine. L’ordine non è altro che il risultato effimero del conflitto, non la quiete di una pace troppo simile alla morte per “essere” alcunché. L’ordine, infatti, è essenzialmente vita, ed è verità solo in quanto via e vita.

Consideriamo il caso della vita etica nel senso corrente del termine. Si desidera perseguire la “virtù”, agire bene… Ma come praticare la virtù? Si dovrebbe agire (stoicamente) come l’organo del tutto (politico, cosmico) di cui si è parte, per il bene dell’intero. Il nostro “dovere”, il nostro “lavoro” consisterebbe in questo. Ma “il tutto è falso”, come direbbe Adorno. L’intero, il cosmo politico che dovremmo servire, non c’è, non esiste a priori, va costruito. Manca letteralmente il “lavoro” da fare. Chi ha il lavoro lo spende per il proprio effimero interesse, chi potrebbe servire l’intero è letteralmente disoccupato. Il disordine è ampio. Ancora più nel dettaglio: come osservare la legge, testimoniare il valore della legalità, se la legge stessa viene scritta ad personam? Se lo Stato reale, a differenza di quello ideale, esprime non altro che la copertura ideologica di una sommatoria di interessi malamente aggregati, come compiere il proprio dovere? La coerenza del tutto è in questione.  Occorre sempre di nuovo metterla in gioco, produrla da capo, nella parte come nel tutto.

 

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di Giorgio Giacometti