Se anche il tutto è un po’ di parte…


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A ben vedere la visione che espongo su questo sito, una forma di monismo prospettico, permette di tracciare un filo conduttore che partendo dall’ontologia giunge fino all’etica e alla politica.

Sotto il profilo ontologico, come sappiamo, da un lato ciò che è non può non essere, dall’altro lato esso si manifesta a se stesso “in atto” o come “reale” sempre soltanto in prospettiva, cioè come un tutto che non appare tuttavia a se stesso in modo isotropo e omogeneo, ma in chiaroscuro; precisamente in modo tale che un lato molto ampio di sé permane nascosto, in ombra: il lato che appare è ciò che si manifesta alla coscienza; il lato che non si manifesta rimane inconscio, come “potenza” di ciò che via via, di volta in volta, nel tempo (un tempo che sorge proprio in questo modo), si manifesta.

Qui ciò che vorrei mettere in luce è che il tutto si dà necessariamente nella parte che, a sua volta, non è altro che una forma (un modo) dello stesso tutto.

Sotto il profilo gnoseologico quanto più qualcosa ci è vicino tanto più ci appare nella nostra prospettiva, in forma idiosincratica (e causalmente manipolabile); quanto più è lontano, tanto più appare in modo simile a come appare agli altri; fino ad arrivare a nozioni metaforicamente collocabili all’infinito (come i numeri), che appaiono uguali per tutti e non soggetti a manipolazione causale.  Nondimeno ci serviamo dei numeri e delle forme geometriche per “ricostruire” in prospettiva le cose più vicine e delle cose vicine come di modelli per spiegare le cose anche metaforicamente lontane (ad esempio delle onde del mare per spiegare le onde di probabilità quantistica).

Anche qui il vicino non sarebbe tale senza il lontano e viceversa.

Sotto il profilo epistemologico ci troviamo in questa situazione: non è possibile costruire una teoria del tutto senza cadere in antinomie. Come non è possibile proiettare una superficie sferica su un piano senza perdere certe proprietà della sfera, così nessuna teoria sull’universo può combaciare completamente con l’esperienza dell’universo stesso, sia perché nessuna teoria può essere dimostrata ultimativamente coerente (per i teoremi di Goedel, le antinomie degli insiemi di Russell ecc.), sia soprattutto perché, anche se una teoria (supponiamo sviluppata interamente in forma matematica) fosse internamente coerente, essa non potrebbe escludere mai il verificarsi di eventi incongruenti con essa prodotti ad arbitrio da qualcuno che, all’interno dell’universo, fosse a conoscenza nei minimi dettagli della medesima teoria . Ogni teoria può dunque essere soltanto un’immagine, più o meno simile, mai identica, del tutto di cui essa stessa è parte.

Anche sotto questo profilo, dunque, il tutto può solo manifestarsi in una parte che, nel rispecchiarlo, sempre anche necessariamente lo deforma.

Sotto il profilo fisico possiamo rappresentarci l’universo visibile come un ologramma, proiettato da una “lastra olografica”, nella quale ogni parte contiene un’immagine (sfocata) dell’intero. Ciò è suggerito, tra l’altro, dall’entanglement quantistico, dalla teoria dell’ordine implicato di David Bohm e da altre ipotesi e congetture, secondo le quali ogni “particella” dell’universo esiste e ha certe proprietà correlate a quelle di tutte le altre.

D’altra parte, come è noto, non possiamo conoscere simultaneamente la quantità di moto e la posizione di una particella, ma solo una combinazione di questi valori.

Ciò suggerisce una rapporto figura/sfondo (parte/tutto) tale per cui, combinando epistemologia e fisica, se conosco ciò che emerge alla coscienza il resto rimane in ombra e viceversa, ma in modo tale che i valori in gioco restino comunque correlati.

Sotto il profilo biologico possiamo riconoscere in ciascun organismo vivente nient’altro che un inviluppo dello stesso universo all’interno del quale l’entropia è mantenuta nulla, quale era congetturalmente all’inizio dell’universo stesso, prima che fosse possibile tracciare una freccia del tempo. Il vivente non ha, peraltro, un confine netto che lo separi dal proprio ambiente (può essere concepito come una piega del piano che rappresenta l’universo). D’altra parte l’universo “esiste” come ambiente di ciascun organismo e come “mondo” che ciascun organismo percepisce a proprio modo.

Di nuovo, dunque, anche sotto questo profilo la “parte” non sarebbe senza il tutto e viceversa.

Ma – ecco quello a cui qui volevo arrivare – anche sotto il profilo etico possiamo registrare una caratteristica tensione tra la parte e il tutto. Ciascun organismo (come tale, anche l’uomo) persegue il proprio fondamentale interesse, che è quello di sopravvivere e di riprodursi (in modo tale da moltiplicare, come in un gioco di specchi, i modi attraverso i quali l’universo si manifesta a se stesso, da punti di vista sempre diversi). Nel perseguire questo interesse egoistico ciascun vivente può anche danneggiare, uccidere o perfino divorare altri viventi. Tuttavia, questo egoismo non può superare una certa soglia critica, pena la distruzione dell’ambiente in cui lo stesso organismo e la sua prole possono sopravvivere. Inoltre, se il fine è quello di moltiplicare i punti di vista del tutto su se stesso, ciò si può conseguire anche sacrificandosi a favore di altri viventi.

Anche sotto questo profilo, dunque, i fini della parte e quelli del tutto sembrano implicarsi reciprocamente.

Ciò si rende evidente anche sotto il profilo politico. Ciascun gruppo umano persegue il proprio legittimo interesse, a volte combattendo anche altri gruppi umani. Tuttavia, non sarebbe interesse di nessuno che tutti ci distruggessimo a vicenda. È piuttosto interesse di tutti accettare di limitare il perseguimento del proprio interesse per favorire il bene comune, non solo per evitare la guerra di tutti contro tutti, ma anche per favorire tutte quelle forme di cooperazione che possono incrementare la felicità di ciascuno. Ciò vale sia nel rapporto tra gruppi umani (Stati) sia all’interno di ciascun gruppo (Stato) nel rapporto tra gli individui. La politica volta a tutelare gli interessi di parte si trasforma nel diritto che tende a perseguire fini universali (nei quali sono ricompresi anche i fini della natura non umana, degli ecosistemi ecc.).

Anche sotto questo profilo, dunque, i diritti (e gli interessi) della parte e quelli del tutto sembrano implicarsi reciprocamente.

Quest’impostazione permette di sciogliere alcuni apparenti dilemmi politici tradizionali.

Si suol rappresentare la politica tradizionale come fondata su un modello di società organicistico e inegualitario: la parte sarebbe sacrificabile per il bene del tutto all’interno di un ordine gerarchico che non avrebbe riguardo per la felicità degli individui. La politica moderna, inaugurata dalle rivoluzioni americana e francese, si fonderebbe, viceversa, su un modello egualitario e meccanicistico: lo Stato sarebbe una macchina che dovrebbe operare al servizio degli individui (che lo avrebbero costituito mediante un patto tra loro), teoricamente egualmente liberi e liberamente uguali tra loro.

Tuttavia, se si esaminano più attentamente i modelli tradizionali di società, ad esempio lo Stato ideale platonico, ci si rende conto che (come nel modello di Hegel) l’idea di fondo è che affinché anche gli individui possano perseguire il loro bene è necessario che sia perseguito il bene del tutto (a partire dalla sua stessa sussistenza) di cui essi sono parte: le “discriminazioni” tra gli uni e gli altri sono funzionali al conseguimento del bene comune (i custodi sono “sovraordinati” agli altri cittadini per le loro virtù e non ad esempio per il loro “sangue”, come i nobili francesi del XVIII secolo). D’altra parte il primo articolo della Dichiarazione dei diritti del 1789, nell’affermare che tutti i cittadini sono uguali, concede che le differenziazioni tra loro siano ammesse per “l’utilità sociale”.

Insomma non sembra che possa esistere un ordine politico in cui i legittimi interessi degli individui (spesso tradotti in diritti) non siano contemperati dai loro doveri sociali e politici (un esempio luminoso è quanto previsto dall’attuale Costituzione Italiana, erede per questo contemperamento della dottrina “dei diritti e dei doveri” di Mazzini).

Invece di contrapporre egoismo e altruismo, interessi privati e bene comune, diritti e doveri, si potrebbe comprendere che “dialetticamente” la “parte”, anche in questo campo, non può sussistere senza il “tutto” e viceversa, come da sempre la migliore teoria politica (ed economica) ha argomentato.

Ciò permetterebbe di superare anche la vieta contrapposizione tra destra e sinistra.

Se è “di sinistra” incrementare i diritti di cui si gode ed estenderli a un numero sempre maggiore di soggetti, umani e animali, tale mossa non può non implicare un correlativo incremento dei doveri reciproci di solidarietà, come appunto storicamente accade. Ciò configura società sempre più integrate, differenziate e organiche che possono paradossalmente ricordare le società tradizionali, care alla cultura di destra (non a caso esiste anche una destra sociale, non meno “statalista” delle sinistre di matrice socialista). Anche chi guarda con favore al mercato (diciamo da un “centro” politico) non può non desiderare che esso sia regolato proprio per essere reso efficiente. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

In questa luce la differenza maggiore è tra politiche lungimiranti e miopi, politiche in cui le ragioni del bene comune e del futuro sono tenute in maggior conto e politiche in cui gli interessi di parte e di breve periodo (“prospetticamente” rilevanti) sono prevalenti.

Il portato di tutto questo qual è?

Ho sempre creduto e insegnato che il grado di oggettività a cui si perviene in campo scientifico fosse decisamente superiore al grado di oggettività raggiungibile in campo etico, politico e anche religioso.

Ma, se ci riflettiamo bene, da un lato anche la ricerca scientifica non può che essere governata da diversi paradigmi in competizione nella lettura della realtà, dall’altro lato anche le politiche che oggi possiamo praticare sono soggette a tali vincoli ambientali, sociali e antropologici, che anche i loro fini (o i valori che mediante esse è ragionevole perseguire) risultano piuttosto naturalmente “assegnati” (corrispondono all’incirca alle mappe di obiettivi definiti dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea).

 

 

 

 

di Giorgio Giacometti