- Nel tuo modello l’Uno si incarna in ciascuna delle anime che popolano l’universo, in ciascuna alla volta, giusto?
Sì, è così.
- Allora, supponi che l’Uno si incarni “prima” in me e “poi” in te. Mentre l’Uno è in me, la sola coscienza cosmica, nel tuo modello, sarei io, giusto? Bene, supponiamo ora che io decida “liberamente” di chiederti di interrompere questa conversazione. Tu potresti accettare oppure rifiutare. Nel primo caso la conversazione si interromperebbe, nel secondo proseguirebbe per un altro tratto.
D’accordo…
- Supponiamo che, nella mia attuale prospettiva, tu rifiuti di interrompere questa conversazione. D’accordo? Bene, quando l’Uno “si incarnerà” in te, non sarai più “libero” di accettare o rifiutare di interrompere questa conversazione, perché, quando l’Uno era in me ai miei occhi tu l’avesti già proseguita.
Quest’obiezione, sulla quale ho a lungo meditato, contiene un errore di prospettiva temporale. Possiamo ricondurla al problema del Mitdasein o “esserci insieme“, dove “insieme” traduce il latino “simul” (da cui etimologicamente deriva attraverso “in simul”) e il greco “hàma“, cioè “simultaneamente”.
Riprendiamo il tuo esempio. Quando l’Uno è in te, agisce liberamente (alla sola condizione che la coerenza del tutto sia preservata) solo nel suo/tuo presente, quando è in atto, ad esempio quando mi chiede di interrompere la conversazione. Da quell’istante tutto può accadere: che io accetti di interromperla oppure no. Poi tu “assisti” al fatto che “io” la proseguo. Non puoi farci nulla, anche perché ciò a cui assisti si svolge nel passato (per quanto si tratti di nanosecondi, il tempo che la luce impiega per raggiungerti provenendo dalla mia persona). Come ogni evento passato, comprese le tue stesse azioni, è “determinato”, se ne sta immobile, nel film di se stesso, replicabile all’infinito nello stesso modo.
Ora dici: quando l’Uno “rinascerà” in “me” dovrà “di nuovo” proseguire la nostra conversazione, come è già accaduto che facesse ora. Esso non avrà alcuna libertà di agire diversamente, a meno di supporre una moltiplicazione di universi.
Il fatto è che non c’è nessun “di nuovo”. Tu assisti, “ora”, nella tua prospettiva, a ciò che l’Uno stesso liberamente “fa” (non: “farà”) quando “è” me!
Ricordiamo che il tempo “cronologico” scorre solo per i viventi, per le singole incarnazioni dell’Uno; esso esiste solo per loro. Per l’Uno stesso tutto accade simultaneamente, nell’âion, nell’eterno. Ciò che noi percepiamo come se si susseguisse in serie (ad esempio una serie di vite in successione), per l’Uno si dà, per così dire, in parallelo.
- Ma questo che cosa comporta?
C’è una sola azione, che appare a te ora come appena avvenuta (come tale irrevocabile), ma che io liberamente avrò compiuto allora (e che l’Uno, che io stesso sono, liberamente compie nel suo eterno presente).
- Spiegati meglio.
Ogni azione, una volta compiuta, comprese le proprie, in quanto passata, – come già osservato – è immutabile, non può essere diversa da quella che è, recita il film di se stessa. Si tratta di “fato”, di alcunché di detto (come Ettore che dovrà sempre di nuovo morire sotto le mura di Troia tutte le volte che qualcuno leggerà l’Iliade).
Tuttavia, mentre l’azione viene compiuta, nel presente in cui viene compiuta, quando non si tratta di potenza ma di atto, essa viene compiuta (dal solo Soggetto esistente, Dio o l’Uno), nei limiti che abbiamo detto, liberamente.
- D’accordo. Ma c’è qualcosa che ancora non mi torna?
Che cosa?
- Tu sostieni anche che la memoria non sia circoscritta nel cervello o, più in generale, nel corpo, giusto? Ciò rende almeno teoricamente possibile che qualcuno ricordi le sue “vite precedenti”.
In quanto ciascuno di noi non è altro che l’Uno, possiamo “ricordare” o, meglio, evocare qualsiasi vita, in ogni tempo (anche vite cronologicamente successive o contemporanee a quella che attualmente viviamo). Come detto, per l’Uno tutto si dà simultaneamente, ricordi?
- In linea di principio, allora, ciascuno potrebbe evocare ciò che l’Uno stesso compie (compì, compirà, rispetto al nostro asse temporale) “in altri”. Ma, se le cose stanno così, nell’esempio precedente, tu potresti evocare ciò che io faccio, attingendo alla vita in cui tu “eri” o “sarai” (l’Uno è) me. E saremmo daccapo: evocheresti, ad esempio, non solo la mia domanda (se tu volessi interrompere la conversazione con me), ma anche la tua risposta (consistente nel proseguire la conversazione), sia pure dal mio punto di vista. A questo punto, se tu potessi cambiare modo di reagire (ad esempio interrompendo la conversazione), l’universo risulterebbe sdoppiato, mentre se non potessi farlo, ti riveleresti affatto privo di libero arbitrio.
Ma ti ricordi il solo limite che abbiamo riconosciuto alla divina libertà, alla libertà dell’Uno tutto?
- Quale?
In ogni istante, in ogni presente l’Uno tutto è assolutamente libero, libero anche dalle leggi di natura, la cui incidenza è tanto maggiore quanto più alta è la credenza che abbiamo in loro, frutto di abitudine… Ma vi è un limite a questa divina libertà: non ci si possono rap-presentare cose contraddittorie, p.e. cerchi quadrati.
- Ricordo, e con questo?
Presagire il “proprio” comportamento futuro, sia pure attraverso l’evocazione del modo in cui esso apparirà agli occhi di un altro, in quanto quest’altro sono sempre ancora io (poiché siamo entrambi il Tutto), non è forse rappresentarselo, letteralmente presentificarlo? Se, dunque, presagito tale mio comportamento, poi mi comportassi diversamente da quanto presagito, nello stesso istante, nel medesimo presente, “io” agirei in due modi diversi (nel tuo esempio: proseguirei & interromperei la conversazione con te), il che è contraddittorio.
Perciò delle due l’una:
- o non riesco davvero (si tratta solo di un’illusione) a presagire in questa maniera (né in qualsiasi altra, p.e. consultando una “sfera di cristallo”…) qualcosa che sono destinato a sperimentare nel mio futuro mondano (vi è come una resistenza inconscia a tale capacità di evocazione, legata al mio desiderio, altrettanto inconscio, di conservare il mio libero arbitrio)
- oppure, qualora vi riuscissi, grazie a qualche straordinaria esperienza spirituale, quasi contemplando me stesso e gli altri nello specchio dell’Uno, non potrei poi più deflettere dal mio destino, pena la violazione del principio di non contraddizione, che richiede che nello stesso tempo non accadano cose incompossibili.
- Tuttavia, non è necessario che, nel momento stesso in cui tu violassi quanto avevi presagito, p.e. interrompessi la conversazione con me (che invece “ti eri visto” proseguire), tu sia cosciente del comportamento alternativo mancato. Dunque non si darebbe alcun presente contraddistinto da eventi contraddittori. Potresti, ad esempio, con largo anticipo, metterti nelle condizioni di non avere affatto quella conversazione con me. Anche in questo modo, tuttavia, costringeresti, per così dire, l’universo a sdoppiarsi, se il tuo presagio fosse stato davvero corretto.
Il discorso non cambia. Come un quadrato non può essere “visto” come un cerchio, così non si può neppure operare oggi sul quadrato, affinché esso, domani, restando quadrato, diventi anche un cerchio.
La cosa può essere vista anche da quest’altra angolazione. Come abbiamo osservato, il passato non può essere modificato. Dunque, se presagisco, evocando la tua anima o in qualsiasi altro modo, che proseguirò la nostra conversazione, questa rappresentazione di quello che accadrà diviene immediatamente una rappresentazione di qualcosa che “sarà accaduto”, cioè di un futuro anteriore, di un passato del futuro. Come tale esso non potrà più essere modificato. Vige qui per l’Uno (o Dio), anche se riferito al passato del futuro, il classico
factum infectum fieri nequit
N. B. Inversamente, se, presagito un certo evento futuro, poi questo non si verificasse (si tratti o meno di un evento determinato da me), se ne ricava che la sua evocazione aveva necessariamente carattere illusorio.
Vige qui il principio di autoconsistenza di Novikov originariamente concepito per evitare le implicazioni incongruenti dei viaggi nel tempo e, in particolare, il famoso paradosso del nonno.
- Che c’entrano ora i viaggi nel tempo?
Se l’Uno incontra se stesso ogni volta che due “persone” si incontrano (etimologicamente “maschere” dietro cui Egli si cela anche a se stesso) è come se tu, viaggiando indietro nel tempo, incontrassi te stesso. Se magari ti uccidessi, si avrebbe l’effetto incongruo che non saresti potuto partire per ucciderti (nel paradosso del nonno la tua vittima sarebbe tuo nonno prima che generasse tuo padre, ma il risultato è il medesimo). Ora, secondo Novikov la coerenza (consistenza) dell’universo non solo vieta che qualcosa del genere possa succedere, ma giunge perfino a concepire l’effetto di un loop temporale positivamente: tu potresti agire nel tuo passato in modo da determinare ciò che sei ora (potresti involontariamente far sì che tuo nonno incontrasse tua nonna, in modo che poi tu possa nascere).
Se ci rifletti questo loop non è che un modello in miniatura dell’idea di un “partecipatory universe“, che per altre ragioni ci convince, secondo la quale l’universo intero sarebbe scaturito in quel determinato modo dal big bang affinché se ne potesse essere coscienti, come se l’esserne coscienti fosse insieme causa ed effetto dell’universo; il quale, in termini procliani, rimane ciò che è solo in quanto procede (inconsciamente) da se stesso e ritorna (consciamente) o si converte a se stesso.
- La cosa che mi sembra paradossale è che, se qualcuno riesce a elevarsi alla contemplazione di ciò che accadrà, guardando, per così dire, al futuro nello specchio dell’Uno, egli stesso, ipso facto, invece di conseguire un maggior grado di libertà, finisca per venire costretto nelle maglie di un destino irrevocabile.
Possiamo considerarlo il paradosso di Cassandra. Tuttavia, il paradosso è forse meno assurdo di quello che sembra.
- Davvero? Come è possibile?
Partiamo dall’assunto dell’intellettualismo etico (o socratico) secondo il quale chi sa ciò che è bene necessariamente lo compie. Se si commettono errori è perché si crede che sia bene qualcosa che in effetti non lo è.
- In questa prospettiva, tanto il sapiente (o Dio stesso) quanto l’ignorante sembrerebbero privi del libero arbitrio. Semplicemente ciascuno agirebbe necessariamente come gli sembrasse bene sulla base del suo grado di conoscenza…
Apparentemente… Tuttavia, nella condizione di relativa ignoranza nella quale versiamo si registra una moltiplicazione di “beni apparenti” (come se la vista si facesse miope e i contorni delle cose divenissero sfocati o addirittura si vedesse “doppio”, come si dice che accade agli ubriachi). In altre parole vige una certa confusione circa il nostro bene che può essere rappresentata anche come una moltiplicazione delle anime che ci abitano (razionale, irascibile, concupiscibile; Io, Es, Super-Io ecc.). Si registra, dunque, anche sempre una condizione simile a quella dell’asino di Buridano: siamo come sul crinale di una montagna e le ragioni per andare da una parte o dall’altra tendono sempre a equivalersi.
- Perché queste ragioni dovrebbero tendere a equivalersi?
Immagina queste ragioni come le forze responsabili del moto vorticoso di una trottola. Quando una tende a prevalere sulle altre inclinando pericolosamente l’asse della trottola, le altre, per così dire, si “coalizzano” e spingono in direzione opposta fino a ripristinare l’equilibrio.
Osserva, poi, che tale condizione riguarda ogni forma di vita (come sappiamo il “campo di forza” non è altro che ciò che anticamente si denominava “anima“, come nel caso emblematico dei campi morfogenetici). Insomma questa sarebbe la radice dell’indeterminazione di fondo dei processi naturali.
Dunque, proprio come una particella in sovrapposizione di stati quantistici contraddittori (p.e. con polarizzazione verticale & orizzontale), anch’io devo sempre de-cidere qualcosa allorquando interagisco col mio ambiente, senza che si possa determinare prima come agirò poi.
Certo, esattamente come nel caso dei fenomeni microscopici, anche per quelli macroscopici (p.e. i processi storico-sociali), opera una sorta di “mano invisibile” (un campo morfico) che, nonostante la relativa libertà d’azione delle parti, tende a ricondurre l’insieme sempre e comunque verso un fine (si tratti della pace che segue a un conflitto militare, si tratti di un fenotipo nel caso dei campi morfogenetici, si tratti dell’emergere dell’uomo dalle altre specie viventi nel caso dell’evoluzione biologica, si tratti semplicemente la caduta di un grave verso un centro di gravità nel caso di un campo gravitazionale).
Tuttavia, per una sequenza sufficientemente breve di eventi, l’attore coinvolto non “vede” il fine (se lo vedesse lo perseguirebbe immancabilmente, come si suppone che faccia Dio o facciano gli angeli, se esistono) e, nella sua confusione, dovuta alla sua ignoranza, è relativamente libero di fare più di una scelta.
In ultima analisi è proprio l’ignoranza a permetterci di godere di quello che chiamiamo “libero arbitrio”.
Ora, quest’ignoranza è frutto dell’incarnazione di Dio. Quando Dio si incarna in me o in te dimentica ogni altra cosa (evento mitologicamente rappresentato dall’immersione dell’anima nelle acque del Lete). Dunque, proprio in quanto dimentichiamo Chi siamo (Dio, l’Uno), in tanto, paradossalmente, siamo liberi, nel senso di dotati di libero arbitrio.
Sappiamo, del resto, che proprio la difficoltà a evocare “le vite degli altri” nello specchio dell’Uno preserva la nostra libertà in questo senso.
Quello che abbiamo chiamato paradosso di Cassandra consiste esattamente in questo. Quanto più ricordo Chi sono, quanto più riesco a evocare le “vite degli altri” sub specie aeternitatis, quanto più, insomma, riesco a rompere la “prigione” del mio corpo (e del mio cervello) che limita la mia memoria, tanto meno sono “libero” (nel modo del libero arbitrio), perché non potrò agire se non come ho presagito che avrei agito.
Tuttavia, riflettiamoci bene. Si tratta davvero di una costrizione?
Si presume che se riesco perfino a evocare le vite degli altri, ciò sia perché mi sono “indiato”, mi sono unificato con l’Uno-Tutto. Ma, se è accaduto questo, tenderò ad agire come Dio (come un Santo, come Cristo, come un jivanmukta, come Buddha ecc.), cioè, per l’intellettualismo etico, nel solo modo che mi appare ora migliore. La divina onniscienza, a cui sarei giunto, infatti, renderebbe assurda qualsiasi deviazione da tale linea d’azione. Sotto questo profilo, divenuto “divino”, sarei libero dalla confusione, dunque dal male, godrei di quella che Agostino chiama libertas maior, a differenza di quell’incarnazione divina che, in quanto può fare tanto il bene quanto il male, gode del libero arbitrio vero e proprio (libertas minor). Nella prospettiva di questa “teodicea” agire in modo tale da non compromettere la coerenza dell’universo sarebbe non soltanto un obbligo, ma un vero piacere.
Dobbiamo insomma postulare una relazione di proporzionalità inversa tra libertà (intesa come arbitrio) e memoria (o di proporzionalità diretta tra libertà e ignoranza), relazione legata alla differenza tra noi e l’Uno, che è misurata proprio dal grado di ignoranza che ci differenza tanto dall’Uno quanto gli uni dagli altri.
Insomma, se per evocare fino in fondo la tua vita devo essere te, ma per essere te devo ricordarmi di essere l’Uno, alla fine la tentazione, di “cambiare le carte in tavola” (“facendo saltare” letteralmente il tavolo di questo universo, infrangendone la coerenza), verrebbe meno per la stessa vicinanza all’Uno, che mi avesse permesso tale evocazione. Sarei santamente coerente con me stesso, perseguendo quanto meno quel bene che consiste nel non moltiplicare gli universi invano.
- Comunque, non si può propriamente dire che “io sia te” e “tu sia me”, come pure tu hai suggerito altrove. Ciò che siamo è soltanto l’Uno…
Vero. Tu e io siamo senz’altro l’Uno che si è dimenticato di essere tale. Quindi possiamo continuare bensì a dire che io sono te e tu sei me, certo, ma “nell’Uno”! Mediatamente, non immediatamente. Ora, infatti, siamo diversi e spazialmente separati. “Un giorno” nell’Uno, nell’âion, al di fuori del tempo ordinario, quando tutto sarà passato, tu e io ci renderemo conto finalmente di essere la stessa Cosa. Allora, e solo allora, tutti i nostri ricordi e quelli di tutti i viventi dell’universo si ricongiungeranno.
- Eppure tu hai sostenuto altrove che tu sei me e io sono te e ciascuno di noi è anche tutti gli altri. Saremmo spazialmente separati gli uni dagli altri né più né meno di come ciascuno di noi è temporalmente separato da quello che è stato in passato….
Vi è certamente un’analogia tra questi due modi di essere “identici nella separatezza”. Tuttavia, l’analogia non è perfetta. Tu puoi ricordare quello che eri, ma, salvo il caso eccezionale dell’acquisizione della visione divina, non puoi davvero immedesimarti in me (non puoi “evocare” quello che provo io ora, ma solo credere di intuirlo, di comprenderlo – magari esercitando la famosa empatia – , mentre in effetti si tratta solo di una proiezione).
Nell’esatta misura in cui non puoi essere me, né sapere che cosa sto pensando ora, viene meno il tuo argomento contro il libero arbitrio basato sulla possibilità di evocare “le vite degli altri”. In effetti, non evochiamo le vite degli altri, ma tutt’al più le immaginiamo. Abbiamo “bevuto le acque del Lete” e, salvo il caso eccezionale dell’acquisizione della visione divina, non siamo assolutamente in grado di sapere come gli altri agirono, agiscono o agiranno.
- Ma se l’Uno che si è incarnato in te non ha alcuna coscienza (alcun ricordo) dell’Uno che si è incarnato in me e viceversa, come si può dire che si tratti dello stesso…. Uno? Non sembra più ragionevole ammettere, come tutto sembra suggerire, che semplicemente esistano molti diversi viventi? Come Leibniz scrisse una volta a Malebranche: se lo stesso Malebranche fosse diventato il re della Cina in una vita successiva, ma, come tale, non fosse più in grado di ricordare la sua vita precedente, come non considerare il re della Cina e Malebranche due persone diverse?
A che vi servirebbe, signore, diventare re della Cina a patto di dimenticare ciò che siete stato? Non sarebbe come se Dio, nello stesso tempo che vi ha distrutto, creasse un re nella Cina? [G. Leibniz, Lettera a Malebranche, 1679, p. 53]
In un certo senso è proprio così. L’abisso dell’oblio ci consente non solo di essere liberi, ma anche di distinguerci gli uni dagli altri, preservando la nostra identità ed evitando di confonderci reciprocamente.
Ho precisato, tuttavia, che non si possono evocare le “vite degli altri” salvo il caso eccezionale dell’acquisizione della visione divina. Poiché siamo tutti l’Uno, non si può escludere, in assoluto, che il re della Cina “si ricordi”, a certe condizioni (“se guarda nello specchio dell’Uno”), di “essere stato” Malebranche (dunque di essere stato “uno” con lui). Soltanto: qualora, attraverso qualche particolare pratica meditativa o simili, qualcuno potesse evocare la vita di un altro egli si sarebbe implicitamente avvicinato alla visione di Dio e, nella stessa misura, come abbiamo argomentato, perderebbe il proprio libero arbitrio a favore di un’assunzione della divina libertas maior, cioè di un’adesione al piano della divina provvidenza.
***
N. B. In una precedente versione delle cose, come si era accorto il mio corrispondente Dario (si veda la discussione qui sotto), attribuivo all’Uno un comportamento grossolanamente “temporale”. L’Uno avrebbe “inanellato” prima Giorgio, poi Dario, poi Platone, poi Kant ecc. (sicché le diverse “incarnazioni” avrebbero potuto ricordarsi di quelle precedenti, ma non delle successive, per evitare problemi con il libero arbitrio) in un tempo “Suo” non necessariamente in rapporto con il tempo “nostro”. Tuttavia, il modo di procedere dell’Uno appariva decisamente troppo simile al nostro (prima… dopo… ecc.).
Un altro mio corrispondente, Ficocle, più seccamente, giudicava l’introduzione, da parte mia, in quella versione, di quel particolare “divieto” di evocare vite future come una scarsamente plausibile ipotesi ad hoc, paragonabile ai famigerati epicicli tolemaici.
Poiché è a tale versione che si riferisce la discussione riportata in calce a questa pagina, la riporto qui di seguito in colore rosso.
Evidentemente c’è un principio che vieta che una cosa simile possa accadere [cioè che uno, presagendo come agirà in futuro attraverso l’evocazione dell’anima di un altro, cambi il proprio destino], pena l’esito che tu paventi. Tale principio dovrebbe suonare all’incirca: nessuno può ricordare ciò che accadde quando era incarnato in coloro con i quali egli attualmente interagisce; più precisamente nessuno può “ricordare” ciò che allora accadde, ma che, rispetto all’attuale situazione di interazione, deve ancora accadere . La vita (futura) dei viventi con cui interagiamo ci deve rimanere inconscia, così come devono, del resto, rimanere inconsci molti processi del nostro pensiero, affinché il libero arbitrio possa essere preservato.
Questo principio potrebbe rendere conto del fatto che in tutte le tradizioni a noi note, nelle quali si crede nella metempsicosi o nelle reincarnazione, non si dànno mai casi di persone che ricordino vite future, ma solo vite passate.
Certo, si potrebbe pensare che ciò dipenda dalla circostanza apparentemente ovvia che non si possono aver già vissute vite future.
Tuttavia, se il tempo è soggettivo e l’Uno si deve poter incarnare in tutti i viventi, dobbiamo supporre che esso si incarni anche necessariamente nei viventi che conducono la loro esistenza contemporaneamente.
Anzi, non vi è neppure alcuna preclusione al fatto che l’Uno, che esiste fuori dal tempo, “inanelli” in un primo “tempo” la vita p. e. di Einstein e in un secondo “tempo” la vita p.e. di Platone, cronologicamente antecedente. Il tempo dell’Assoluto non è, infatti, il tempo ordinario.
- Ma se, in quanto interagiamo, l’Uno che si è incarnato in te non deve avere alcuna coscienza (alcun ricordo) dell’Uno che si è incarnato in me e viceversa, come si può dire che si tratti dello stesso…. Uno? Non sembra più ragionevole ammettere, come tutto sembra suggerire, che semplicemente esistano molti diversi viventi? Come Leibniz scrisse una volta a Malebranche: se lo stesso Malebranche fosse diventato il re della Cina in una vita successiva, ma, come tale, non fosse più in grado di ricordare la sua vita precedente, come non considerare il re della Cina e Malebranche due persone diverse?
A che vi servirebbe, signore, diventare re della Cina a patto di dimenticare ciò che siete stato? Non sarebbe come se Dio, nello stesso tempo che vi ha distrutto, creasse un re nella Cina?
[G. Leibniz, Lettera a Malebranche, 1679, p. 53]
Il principio che abbiamo appena introdotto non vieta affatto al re della Cina di ricordarsi, a certe condizioni, di essere stato Malebranche (dunque di essere stato “uno” con lui). Soltanto, tra queste condizioni, vi è che Malebranche sia vissuto prima e non dopo il re della Cina, sull’asse cronologico “mondano”, “oggettivo”; o, nel caso che il re della Cina e Malebranche siano vissuti, almeno in una fase della loro vita, contemporaneamente, che il re della Cina, in ogni istante t, non possa ricordare (pur avendolo vissuto in prima persona in precedenza) quello a cui Malebranche assisterà in ogni istante cronologicamente (mondanamente, oggettivamente) successivo a t.
Nulla quaestio, dunque, per eventuali reminiscenze relative a vite sotto ogni profilo passate (tanto soggettivamente, quanto oggettivamente). Insomma, se non si possono ricordare le vite che si sono vissute… in futuro, si possono certamente ricordare, a certe condizioni, quelle che si sono vissute in passato.
Le giuste osservazioni fatte dai miei interlocutori (si veda ancora la discussione qui sotto) mi hanno costretto a una revisione radicale della mia prospettiva.
Ora, dunque, come ragiono? In che modo questa mia nuova prospettiva differisce da quella enunciata allora?
Se ammettiamo che il tempo come lo conosciamo noi (lineare, cronologico, sequenziale) sia soggettivo, esista solo nel vivente, non c’è un tempo assoluto rispetto al quale si possa dire in quale ordine l’Uno inanella i viventi. Nella prospettiva dell’Assoluto (dell’Uno) la Sua moltiplicazione in innumerevoli vite è simultanea e queste vite gli appaiono “in parallelo”, non in serie. Solo nella prospettiva di ciascuna di queste vite alcune sono precedenti e altre successive (le vite costituiscono, rispetto ad essa, una serie). Dunque non è esatto dire che “prima” l’Uno è stato me, e “poi” sarà te o viceversa (ciò comporterebbe una proiezione sull’Uno del tempo cronologico misurato da noi). L’Uno è simultaneamente entrambi (me e te), anzi è entrambi fuori da ogni relazione temporale, salvo che a me esso appare ora me e a te esso appare ora te. Resta, dunque, valido l’assioma di Schoedinger in base al quale si dà solo una coscienza alla volta.
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