Carattere congetturale e incompleto di ogni descrizione logico-matematica del cosmo


universo

Lo stesso padre della scienza moderna della natura, Galileo Galilei, presenta le sue teorie come congetture che richiederebbero una dimostrazione “matematica” che – possiamo aggiungere -, per il carattere degli oggetti trattati dalla fisica, è impossibile.

Nel Dialogo sopra i massimi sistemi (1532) leggiamo:

Simplicio: - Aristotile fece il principal suo fondamento sul discorso a priori, mostrando la necessità dell'inalterabilità del cielo per i suoi principii naturali, manifesti e chiari; e la medesima stabilì doppo a posteriori, per il senso e per le tradizioni de gli antichi.
Salviati: - Cotesto, che voi dite, è il metodo col quale egli ha scritta la sua dottrina, ma non credo già che e' sia quello col quale egli la investigò, perché io tengo per fermo ch'e' proccurasse prima, per via de' sensi, dell'esperienze e delle osservazioni, di assicurarsi quanto fusse possibile della conclusione, e che doppo andasse ricercando i mezi da poterla dimostrare, perché così si fa per lo più nelle scienze dimostrative: e questo avviene perché, quando la conclusione è vera, servendosi del metodo resolutivo, agevolmente si incontra qualche proposizione già dimostrata, o si arriva a qualche principio per sé noto; ma se la conclusione sia falsa, si può procedere in infinito senza incontrar mai verità alcuna conosciuta, se già altri non incontrasse alcun impossibile o assurdo manifesto. 
E non abbiate dubbio che Pitagora gran tempo avanti che e' ritrovasse la dimostrazione per la quale fece l'ecatumbe, si era assicurato che 'l quadrato del lato opposto all'angolo retto nel triangolo rettangolo era eguale a i quadrati de gli altri due lati; e la certezza della conclusione aiuta non poco al ritrovamento della dimostrazione, intendendo sempre nelle scienze demostrative. Ma fusse il progresso di Aristotile in qualsivoglia modo, sì che il discorso a priori precedesse il senso a posteriori, o per l'opposito, assai è che il medesimo Aristotile antepone (come più volte s'è detto) l'esperienze sensate a tutti í discorsi; oltre che, quanto a i discorsi a priori, già si è esaminato quanta sia la forza loro.
  • In questo passo mi sembra che Galileo prenda le distanza dal procedimento a priori per giustificare il ricorso all’esperienza, quello che si sarebbe chiamato “metodo scientifico”…

Senza dubbio Galileo ha interesse a mostrare la rilevanza di questo approccio empirico. Tuttavia, lo distingue molto bene, con Aristotele, dal sapere dimostrativo: altro ciò che si può propriamente dimostrare, altro è ciò che si ricava per esperienza o induzione, senza che ancora sia dimostrato.

L’esempio di Pitagora chiarisce le cose. Pitagora congettura che l’area di un quadrato costruito sull’ipotenusa di un triangolo rettangolo potrebbe essere pari alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti. Misura queste aree su diversi triangoli e ricava per induzione quella che, per ora, possiamo chiamare la “congettura” di Pitagora. Ma il vero teorema si ha quando Pitagora (o altri) riesce a dare dimostrazione di questo.

 

In matematica ancora oggi numerose sono le congetture non ancora dimostrate (quella dei quattro colori ad esempio). Intuiamo che sono vere, ma non riusciamo ancora a dimostrarlo.

  • E, dunque, le teorie cosiddette scientifiche, a partire dalla teoria copernicana a favore della quale lo stesso Galileo ha recato numerosi indizi proprio empirici nel Dialogo, come le dobbiamo intendere alla luce di questo passo di Galileo?

Non certamente come “scienze dimostrative“, bensì non altrimenti che come congetture, falsificabili in caso di evidenza contraria (come ci insegnano Popper e, prima di lui, Newton), ma indimostrate e destinate per essenza a restare tali.

  • Perché le teorie scientifiche non potrebbero venire “dimostrate”?

La dimostrazione dovrebbe essere a priori, come nel sogno cartesiano e spinoziano: riuscire a dedurre da pochi assiomi autoevidenti tutte le principali leggi di natura senza ricorrere all’esperienza, se non a titolo di conferma. Ma nessuno oggi chiamerebbe codesto approccio “scientifico”, salvo che si riferisca alla logica e alla matematica. Questo approccio “iperscientifico” non è, a ben vedere, che la versione moderna della nozione platonica di “episteme“, esposta nel VI libro della Repubblica, che Socrate presenta a Glaucone in questo modo:

Parlo della [...] porzione dell’intelligibile che la ragione stessa attinge con la potenza della dialettica, facendo delle ipotesi non già principi primi ma vere e proprie ipotesi, cioè basi e ormeggi tali che essa, andando fino al non ipotetico, cioè al principio di tutto e attingendolo, quindi tenendosi a propria volta alle cose che ad esso si tengono, ridiscenda così fino alla fine, senza servirsi in alcun modo di alcunché di sensibile, ma ricorrendo soltanto alle idee, grazie ad esse, fino ad esse, e termini in esse

Ma noi per “scientifico” intendiamo, invece, un sapere fondato sull’esperienza. Ne segue che le teorie che oggi consideriamo “scientifiche”, sono tutte tecnicamente congetturali o, il che è lo stesso, sono tutte più o meno “speculative”.

Come hanno giustamente mostrato Feyerabend e Quine, esse sfumano in più comprensive teorie filosofiche o paradigmi esplicativi, senza una vera soluzione di continuità, ponendo, proprio come le teorie filosofiche, importanti questioni epistemologiche ed ermeneutiche (p.e. sul significato di nozioni come “massa”, “energia”, “tempo”, “entropia”, “entanglement” etc.) per rispondere alle quali è impossibile non invocare questa o quella “filosofia” anche solo implicitamente.

  • Dunque, solo la matematica e la logica sarebbero scienze dimostrative?

A quanto pare, almeno se conferiamo ai loro assiomi o, almeno, dopo la cosiddetta “crisi dei fondamenti”, ai loro procedimenti un’evidenza razionale diversa da quella empirica.

Abbiamo così da una parte le “scienze formali”, rigorose, dimostrative, scienze in senso pieno, e dall’altra parte le “scienze materiali”, tra le quali una fisica che sfuma sempre necessariamente in una filosofia della natura e, in definitiva, in una filosofia tour court;  “scienze” congetturali che dobbiamo chiamare “scienze” solo per analogia, poiché non recano un effettivo sapere, ma soltanto un sapere ipotetico (non possiamo dire a rigore ad es.: “Sappiamo che l’universo è nato ca. 13 miliardi di anni fa”,  ma dobbiamo dire: “Allo stato attuale della ricerca l’ipotesi più plausibile è che l’universo sia nato ca. 13 miliardi di anni fa, sulla base di questa e quest’altra evidenza empirica e di questo e quest’altro ragionamento etc.”).

  • Continuo a non capire perché un giorno non si potrebbe sperare di realizzare il sogno cartesiano, cioè di fare delle attuali “congetture” in campo fisico un vero e proprio sapere dimostrativo.

In effetti l’approccio meccanicistico assume che sia possibile, almeno in linea di principio, ridurre la complessità a una gigantesca equazione in grado di descrivere tutto ciò che è accaduto, accade e accadrà nell’universo in ogni istante e in ogni punto.

L’aspirazione contemporanea a una “Teoria del Tutto” (Theory of Everything), che consenta di unificare matematicamente le forze fondamentali della natura e spiegare logico-matematicamente esattamente tutto ciò che è accaduto dagli istanti immediatamente successivi al big bang fino ad ogginon fa che rievocare il celebre “sogno” cartesiano/spinoziano di Laplace (che si trova in Teoria analitica delle probabilità, 1812):

Noi dobbiamo considerare lo stato presente dell'universo come l'effetto del suo stato anteriore e la causa di quello che seguirà. Un'intelligenza che, per un istante dato, conoscesse tutte le forze da cui la natura è animata e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se fosse abbastanza vasta per sottomettere questi dati al calcolo, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell'universo e quelli del più leggero atomo: niente sarebbe incerto per essa e l'avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi.

A tale sogno si oppongono, tuttavia, le implicazioni strettamente logico-matematiche dei teoremi di Goedel, in base ai quali è impossibile disporre di un sistema assiomatico (quale è anche una buona teoria fisica) insieme coerente e completo.

E si oppongono , anche considerazione legate all’epistemologia della fisica.

Scrive ad esempio Russell Stannard:

Un'autentica Teoria del Tutto non deve spiegare solo come è venuto in essere il nostro universo, ma anche perché è il solo tipo di universo che potrebbe esistere - perché può esserci un solo insieme di leggi fisiche.
Ritengo illusorio questo traguardo [...]. Questa incompletezza intrinseca e inevitabile dev'essere rispecchiata dal sistema matematico, qualunque esso sia, che modella il nostro universo. In quanto creature appartenenti al mondo fisico, noi faremo parte di questo modello; ne segue che non potremo mai giustificare la scelta dei suoi assiomi - e di conseguenza le leggi fisiche cui tali assiomi corrispondono. Né potremo rendere conto di tutte le proposizioni vere enunciabili sull'universo.
[da Russell Stannard, No faith in the grand theory, "The Times", 13 novembre 1989]

Aggiungi che molti processi fisici (come gli uragani, i terremoti, ma anche certi processi chimici e biologici) hanno carattere caotico, cioè sono tali che la loro evoluzione non si può di fatto prevedere se non, approssimativamente, su basi statistiche…

  • Certo, ma si suppone che in questi casi (a differenza p.e. che in meccanica quantistica, dove sembra essere di casa un principio di indeterminazione ontologico) sia in gioco un caos deterministico. I processi a cui ti riferisci sarebbero ancora deterministici, ma troppo difficili da calcolare per noi.

La distinzione a cui alludi tra indeterminazione epistemica (quella relativa ai fenomeni caotici), cioè tale solo per noi, e indeterminazione ontologica (quella relativa alla meccanica quantistica), cioè intrinseca ai fenomeni stessi, è puramente, a sua volta, speculativa.

Essa presuppone acriticamente il paradigma del dualismo cartesiano, per cui il mondo al di fuori di noi sarebbe a priori contraddistinto da meccanicismo e determinismo.

Se ci collochiamo, invece, in un monismo neutrale, fedele ai dati dell’esperienza (secondo quanto mostra uno sguardo condotto in rigoroso stile fenomenologico), non abbiamo modo di distinguere tra i due tipi di indeterminazione: registriamo semplicemente che si dànno processi che le nostre equazioni non sono in grado di rappresentare adeguatamente fino in fondo.

In ultima analisi, dunque, quella che chiamiamo “scienza” procede per modelli, costruiti bensì (per lo più) logico-matematicamente, non soltanto congetturali, ma anche tali, strutturalmente, da “salvare” sempre solo parzialmente i fenomeni.

Possiamo paragonarli a proiezioni su un piano di una superficie sferica (la natura, in quanto comprende anche il soggetto che a osserva): esse permettono di riconoscere con precisione certi rapporti e certe misure, ma solo al prezzo di rinunciare ad afferrare con la stessa precisione altri rapporti e altre misure (non si può fare a meno di pensare, al riguardo, al principio di indeterminazione di Heisenberg, per il quale, se misuro la quantità di moto di una particella, la sua posizione può essere determinata solo approssimativamente e viceversa).

 

di Giorgio Giacometti