- Dunque, in che cosa credi?
Diciamo, in primo luogo, in che cosa spero. Si tratta di quello in cui, in fondo, probabilmente, (dall’epoca in cui fu steso il poema di Gilgamesh, ma verosimilmente da milioni di anni…) speriamo tutti.
- Vale a dire?
Nell’immortalità. Di più: nell’esistenza di un “mondo dietro al mondo”, come direbbe ironicamente Nietzsche (cfr. Così parlò Zarathustra, p. 30 e ss.), nel quale, magari, incontrare Dio e i miei cari estinti. In questa prospettiva le cose di questo mondo sarebbero cifra d’altro, avrebbero un senso che ci sfugge e ci sarà compiutamente rivelato altrove.
- Addirittura! La credenza, sulla quale questa tua speranza si fonda, mi sembra altamente sospetta. Sembra non altro che un wishful thinking. Marx la direbbe probabilmente frutto della frustrazione che ti deriva dall’alienazione che patisci sul lavoro e nelle relazioni umane, Nietzsche la direbbe effetto di una menzogna a te stesso, Freud una pia illusione… Come suggerirebbe il filosofo Stephen Cave, probabilmente, a suscitare in te queste false speranze, altro non è che la tua angoscia davanti alla morte, la tua paura del nulla ,
Può darsi. Mio padre, agnostico, inclinava verso un ateismo pratico, sulla base di considerazioni analoghe alle tue. Poiché, se il Paradiso esistesse, sarebbe troppo bello per essere vero, è probabile – diceva – che si tratti di un’illusione, frutto del nostro desiderio, come le illusioni di cui sono fatti i sogni.
- E come puoi, allora, rendere ragione della tua speranza?
In primo luogo riconosco che si tratta di una speranza altamente sospetta. Essa, infatti, si accompagna sempre alla paura che si tratti di non altro che di una pia illusione. Se – da un lato – la speranza è confortata da argomenti tesi a smontare ciò che le si oppone (sui quali concentrerò su queste pagine la mia attenzione), la paura – dall’altro lato – è alimentata dal sospetto che si tratti solo di un disperato tentativo di sfuggire all’angoscia davanti al nulla che ci attenderebbe dopo la morte. Sotto questo profilo la fede in ciò che spero , lungi dall’essere fondata su solida roccia, non è che l’affidamento a qualcosa sulla quale, come Pascal, ho semplicemente scommesso.
- E perché hai scommesso sull’immortalità anzichenò?
Se si deve sperare in qualcosa, è meglio sperare in qualcosa di bello piuttosto che in qualcosa di brutto, ti pare? Chi partecipa a un gioco, lo fa perché vuole vincere, non perdere, non ti pare? Ora, “prendere sul serio” l’ipotesi dell’immortalità conferisce un supplemento di senso al gioco della vita
- Perché? Se tu non fossi immortale, la tua vita non avrebbe senso?
Ne avrebbe comunque. certo. Per questo parlo di un “supplemento” di senso. Se non fossi immortale, la mia vita conserverebbe il senso che potrebbe conferirle un epicureo: potrei trarne il massimo piacere, riducendo al minimo la sofferenza, perché oggi ci siamo, domani chissà…
La cosa interessante è che lo stile di vita “epicureo” che, nel dubbio sui nostri destini oltremondani, sarebbe comunque intelligente che io adottassi non contrasta con lo stile di vita che dovrei adottare sulla base della mia inconfessabile speranza nell’immortalità.
- Davvero? Tradizionalmente si ritiene che chi crede nell’immortalità, a differenza dell’epicureo, tenda a sacrificare il piacere del presente, vissuto magari come “peccato”, al bene che spera di conseguire (illusoriamente?) nell’al di là, inteso magari come beatitudine.
Si tratta di un’illusione di prospettiva. Da un lato l’autentico epicureo non è il gaudente, ma colui che sa centellinare i piaceri dell’esistenza, esercitando tutte le fondamentali virtù che eserciterebbe, ad esempio, anche un cristiano (a cominciare dalla moderazione o temperanza), anche se lo fa per ragioni diverse da quelle che accamperebbe un cristiano. Dall’altro lato il credente non rinuncia a godere del “ben di Dio” che la vita gli offre, anche se lo fa con un atteggiamento diverso da quello del filosofo materialista.
- Sarà. Noto, tuttavia, che in entrambe le prospettive (quella epicurea e quella del “credente”) mi sembra che tu non assegni alcun ruolo agli altri, al prossimo. L’aspirazione all’immortalità, così come quella al piacere, suonano in te come alcunché di disperatamente egoistico...
Figlio unico (“unigenito”, in questo senso) nasco, come tutti i bambini, narcisista ed egocentrico. Tuttavia, nel corso della mia esistenza, ho scoperto quanto ciò che siamo dipenda dagli altri; quanto, come dice Jacques Lacan, i nostri stessi desideri non siano che i desideri degli altri; quanto, soprattutto, – se la mia speranza è fondata – noi stessi, in fondo, siamo gli altri!
- In che senso?
Gli altri non sono altro che quello che io stesso avrei potuto essere e non sono stato. Essi sono diversi da me, certo, ma non più di quanto io stesso sia diverso da me stesso: da quello che ero e da quello che sarò; anche da quello che sono adesso, ma che non sono consapevole di essere. Siamo più che fratelli: siamo tutti la stessa anima unigenita dello stesso Padre che noi stessi siamo… Veramente, amando gli altri come noi stessi, ma nel senso che noi siamo loro ed essi sono noi, esercitando la massima comprensione nei loro confronti, per conoscere meglio, attraverso di loro, noi stessi, guadagniamo da subito l’immortalità storica, anche se quella metafisica ci dovesse essere preclusa…
- Parli di amare gli altri… Ma in che cosa si traduce concretamente questo tuo amore?
Riconoscendo nell’ultimo dei “fratelli” Dio stesso li amo offrendo loro, come posso, la mia disponibilità a ricercare con loro la verità, poiché non vi è bene superiore, nella mia prospettiva, della conoscenza. Insomma, il mio è un amor tui intellectualis.
- Queste implicazioni etiche ed erotiche della tua speranza me le spiegherai meglio un’altra volta. Ma mi dovevi rendere ragione di questa tua speranza, ricordi?
Osserviamo subito una cosa. Il sospetto, gettato sulla speranza in un “mondo dietro al mondo”, come quello nutrito da Nietzsche (o da Marx), scaturisce, generalmente, da una credenza: quella che il mondo sia fatto in modo tale da frustrare i nostri desideri. Tale sospetto deriva, in altre parole, da un convinzione di carattere materialistico: il solo vero mondo sarebbe quello che percepiamo, non quello che sogniamo o ci immaginiamo.
- Mi sembra che tale convinzione di carattere materialistico sia tutt’altro che infondata. Se desiderio un pollo arrosto, ad esempio, non per questo me ne si offrirà magicamente uno. La “materia” di cui sono fatte le “cose” offre una certa resistenza all’esaudimento dei nostri desideri, non ti sembra?
Vero. Ma è anche vero che non desidereresti un pollo arrosto, se tu non avessi uno stomaco adatto a digerirlo (se tu non fossi “programmato” per digerirlo), se non esistessero polli arrosti e se tu non ne avessi fatto esperienza. Il desiderio di qualcosa potrebbe non essere necessariamente un’obiezione all’esistenza di ciò che si desidera, anzi. Anche in una prospettiva naturalistica è verosimile che il desiderio di qualcosa suggerisca che ciò che si desidera, anche se non è facile da raggiungere (altrimenti, verosimilmente, non lo si desidererebbe, non ci “mancherebbe”), si nasconda da qualche parte. Non basta, certo, che tu desideri il pollo perché questo ti si offra. Tuttavia, puoi fare senz’altro qualcosa per procurartelo. E questo perché il tuo stesso desiderio, pur non potendo dimostrarla, postula l’esistenza del proprio oggetto, ne è un indizio.
- In questo modo, però, tu non solo speri in quello che, di volta in volta, desideri, ma, in generale, sembri credere che questo modo di sperare sia fondato. Anche questa tua più generale credenza nella fondatezza dei tuoi desideri mi sembra fondata, a sua volta, su un desiderio! Insomma, mi sembri preda di un wishful thinking ricorsivo, tendente a una vera e propria mise en abyme!
E se anche fosse? La scommessa è che si tratti, complessivamente, di de-sideri fondati, giustificati, ragionevoli; proprio in quanto essi esprimono la mancanza di… qualcosa.
- A meno che, come suggeriscono Schopenhauer e Leopardi [1], i nostri desideri non ci siano stati istillati dalla Natura, ingannandoci, per farci conseguire determinati scopi, ad esempio quello di riprodurci, salvo poi sbarazzarsi di noi e dei nostri desideri stessi. Pensa al maschio della mantide religiosa: mosso dal desiderio, programmato da Madre Natura, di accoppiarsi con la femmina, finisce per esserne divorato!
Ecco perché, per rendere ragione della mia speranza, così come di quella di molti di coloro che si dicono “credenti”, è indifferibile una rinnovata “filosofia della natura“. L’ “Avversario”, per così dire, è sempre quello. Sarebbe ora di prenderlo per le corna!
- Chi sarebbe?
“Che cosa sarebbe?” vuoi dire! Si tratta del dominante paradigma meccanicistico (fisicalistico, riduzionistico).
- Non sarà che tu, attaccando il paradigma dominante in campo scientifico, voglia reintrodurre la fede in una sorta di “Dio tappabuchi“, per dirla con il teologo protestante, martire della resistenza al nazismo, Dietrich Bonhoeffer? Ma una “fede adulta” ha davvero bisogno di un “Dio tappabuchi”, invocato per rendere ragione di ipotetiche lacune nella spiegazione scientifica del mondo?
Sì, nel linguaggio di Bonhoeffer, ho proprio bisogno di un “Dio tappabuchi”! D’altra parte, il rifiuto di questo “Dio”, da parte del teologo luterano, se preso sul serio, mi sembra condurre a un fideismo irragionevole.
- In che senso?
Se la “spiegazione scientifica del mondo” o, per meglio dire, l’interpretazione meccanicistica del mondo che si pretende scientifica (senza esserlo affatto, come spero di dimostrarti) fosse esauriente, rendesse ragione di ogni cosa, perché mai si dovrebbe credere a qualcosa di – neppure assurdo (come suggeriva Tertulliano), ma – francamente inutile? Per il rasoio di Ockham dovremmo consegnarci, (anima e) corpo, al dominante paradigma “scientistico”.
Sì, quello di cui abbiamo assoluto bisogno è proprio, non solo di un “Dio” (credere in Dio, infatti, significa ben poco se non si precisa “Chi” sia il Dio in cui si crede), ma anche e soprattutto di una più complessiva prospettiva non meccanicistica che “tappi” i “buchi” (veri e propri buchi neri) lasciati aperti dal paradigma meccanicistico.
- E come intendi tappare questi buchi?
Secondo il preciso programma che guida l’elaborazione di questa sezione del sito, ma per prima cosa mostrando che assumere una prospettiva meccanicistica è assai meno “scientifico” di quello che si crede.
1) Cfr. Giacomo Leopardi, Dialogo della Natura e di un Islandese in Operette morali (1845), Guida, Napoli 1986, p. 181: «[Dice la Natura all’Islandese: –] Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Or sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi e ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità». Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, vol. II, § 60, p. 434: «L’istinto sessuale […] per l’uomo, come per l’animale, è il fine ultimo. […] La natura, la cui essenza intima è appunto la volontà di vivere, trascina con ogni sua possa l’uomo, come l’animale, alla continuazione della specie. Ella ha con ciò raggiunto lo scopo, a cui l’individuo poteva servirle, ed è oramai affatto indifferente al suo perire».
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