- Ma, se, come sostieni, l’immagine scientifica del mondo, secondo la quale tutto accadrebbe sulla base di rapporti meccanici di causa-effetto, non è dimostrata, come dobbiamo o possiamo rappresentarci le cose?
Prima di tutto quello di cui abbiamo bisogno è di una filosofia adeguata.
- Filosofia? Non abbiamo piuttosto bisogno di una scienza migliore?
Bisogna intendersi sul concetto di scienza. La ricerca scientifica, probabilmente, non potrebbe essere migliore di com’è. Ma ciò a cui essa inesorabilmente conduce, nonostante tutti gli sforzi di limitarne la portata a una mera descrizione dei fenomeni, è un’interpretazione della natura. Certo, non si tratta di un’interpretazione arbitraria, ma di un’interpretazione compatibile con l’esperienza finora maturata o, in molti casi, prodotta, ad es. in laboratorio.
- Ma tu hai messo in discussione, mi sembra, proprio quest’interpretazione, imputandole una lettura meccanicistica del mondo, non adeguatamente giustificata.
Ma ho anche suggerito che tale interpretazione, sebbene oggi prevalente, soprattutto tra gli stessi scienziati, non è la sola possibile:
- nei secoli gli stessi scienziati (e anche oggi in maniera talora inconsapevole) hanno interpretato altrimenti le loro stesse scoperte (ammettendo p.e. cause finali);
- inoltre, indipendentemente da loro, noi stessi possiamo interpretare diversamente i risultati della ricerca scientifica.
Insomma, quando si riflette sull’esperienza scientifica non si può fare a meno di fare della filosofia, che la si voglia fare o meno. E, poiché l’oggetto di questa esperienza scientifica è la natura, ciò che si fa è precisamente una (rinnovata) filosofia della natura.
- Una filosofia della natura? Non una filosofia della scienza o epistemologia?
Una filosofia della natura che incorpora un’epistemologia. In effetti, è questa stessa epistemologia a farci comprendere come non sia possibile separare nettamente la filosofia dalla scienza, ma solo distinguere, all’interno di un’unica ricerca, il polo, per così dire, propriamente scientifico dal polo filosofico: quanto più ci si limita a ordinare la nostra esperienza in un ambito ristretto si registrano quelli che comunemente chiamiamo “risultati scientifici”; quanto più si amplia lo sguardo ad altri ambiti, approfondendone l’interpretazione, si fa filosofia.
- Ma non rischi in tal modo di confondere le idee ai tuoi lettori che potrebbero credere che tu esponga teorie scientifiche mentre si tratta soltanto di speculazioni filosofiche?
Come ha osservato Orman V. Quine, le teorie “scientifiche” sono “totalità”, nelle quali è difficile distinguere la “parte empirica” dalla “parte teorica”.
Ad esempio è impossibile distinguere tra giudizi analitici (o definizioni) e giudizi sintetici (o affermazioni relative a “fatti”).
In ultima analisi quello che si intende fare, scoprire e spiegare quando si fa scienza dipende strutturalmente da un’interpretazione del proprio operare di ordine eminentemente filosofico (oggi guidata da una precomprensione prevalentemente, ma non necessariamente di tipo meccanicistico), che lo si sappia oppure no.
Ma, se questo è vero, come dimostra anche Paul Feyerabend, è difficile distinguere le teorie scientifiche dalle concezioni filosofiche (o religiose).
Per la precisione: è impossibile fare scienza senza fare filosofia, anche se è epistemologicamente necessario distinguere tra le due “intenzioni”.
- Puoi fare un esempio di questa compenetrazione tra scienza e filosofia?
Considera che gli oggetti di cui tratta la scienza (p.e. un protone o un campo elettromagnetico) sono qualcosa di determinato soltanto in rapporto ad altri oggetti e, in ultima analisi, in rapporto all’intero, ossia all’oggetto proprio della filosofia. Ciascuno di questi oggetti, infatti, è definito sulla base di altri (p.e. la nozione di campo elettrico sulla base della nozione di “carica”), che sono a loro volta definiti sulla base di altri ancora e così via. Considera che ciascuno e tutti questi oggetti condividono almeno una proprietà, quella di “essere” qualcosa (e la questione dell’essere o “ontologica” è propria della filosofia).
Dunque, le teorie scientifiche, in quanto totalità organiche, incorporano sempre anche, implicitamente, teorie filosofiche, all’interno delle quali dobbiamo ricercare i presupposti che rendono sensati i risultati della stessa ricerca empirica.
Questa prospettiva “olistica” rende peraltro difficile, se non impossibile, falsificare le teorie in campo, a causa del paradosso di Duhem-Quine [1]: se qualcosa non torna, non è mai possibile individuare con certezza il livello a cui qualcosa non funziona (se p.e. si tratta di un fenomeno inatteso, di un errore strumentale, di un errore matematico, di un limite teorico, di una cattiva interpretazione ecc.)
Come osserva anche il fisico teorico David Bohm
instead of supposing that older theories are falsified at a certain point in time, we merely say that man is continually developing new forms of insight, which are clear up to a point and then tend to become unclear. [Wholeness and the Implicate Order, p. 6]
Bohm fa l’esempio della teoria tolemaica dei cieli (geocentrica), basata sull’ipotesi di complessi epicicli: da un certo momento in poi è apparsa più convincente l’interpretazione copernicana (eliocentrica).
Si potrebbe sostenere che quegli epicicli “non esistevano” e che la corrispondente teoria era “falsa”, ma è proprio così? Ciò sembra suggerire, cosa tutt’altro che scontata, che qualche altra teoria, p.e. quella di Copernico, Newton o Einstein, possa essere finalmente “vera”.
Questo approccio realistico resta debitore di una rappresentazione del rapporto tra pensiero e realtà come se fosse possibile associare biunivocamente le due cose, per discriminare infine il vero dal falso. Non è, tuttavia, possibile istituire tale corrispondenza (come la chiama Bohm, ivi, p. 4), non foss’altro perché uno dei due termini (la “realtà”) non è dato se non attraverso l’altro!
In ultima analisi, si tratta sempre solo di modelli del cielo, dunque di interpretazioni.
Ecco perché non vi può essere una netta separazione, come ricordano anche Quine e Feyerabend, tra pensiero (o teoria) ed esperienza.
Nelle parole di Bohm:
Clarity of perception and thought evidently requires that we be generally aware of how our experience is shaped by insight (clear or confused) provided by the theories that are implicit or explicit in our general ways of thinking. To this end, it is useful to emphasize that experience and knowledge are one process, rather than to think that our knowledge is about some sort of separate experience. [Wholeness and the Impliciti Order, p. 7]
In effetti – possiamo rilevare – si tratta sempre e solo di immagini della realtà (Bohm sottolinea giustamente, cfr. ivi pp, 4-5, la comune etimologia di teoria e teatro: si tratta sempre di “visione”, in una certa prospettiva, possiamo aggiungere): in un certo senso resta vero (p.e. per chi si muove in barca sul mare) che i pianeti si muovono come se girassero su epicicli, proprio come ora ci piace immaginare che essi si muovano come se subissero gli effetti dell’attrazione gravitazionale del Sole o della curvatura impressa dalla massa della nostra stella sullo spaziotempo.
Ora, le immagini sono tali che non vi sono regole (algoritmi, funzioni, leggi) che possano legare ciascuna immagine (sia questa espressa in parole o finanche in equazioni matematiche) a ciò di cui l’immagine è immagine, pena la risoluzione della similitudine, sottesa alla stessa nozione di immagine, in un’identità camuffata.
Per quanto l’immagine (la parola, la “funzione” supposta legare due grandezze matematicamente espresse) sia simile alla cosa che significa, il rapporto tra le due è incommensurabile (come il rapporto tra il diametro di un cerchio e la circonferenza): permane sempre uno scarto, un resto, una differenza incolmabile.
Qualsiasi tentativo volto a ridurre a zero tale resto genera antinomie. Ciò fa apparire la realtà (la “cosa in sé) intrinsecamente antinomica, mentre, in effetti, l’antinomia è solo quella nella quale incorre il pensiero quando tenta di afferrare compiutamente e senza residui ciò su cui verte.
In generale devi considerare quanto segue:
- le teorie scientifiche sono sottodeterminate dai fenomeni che pretendono di spiegare (gli stessi fenomeni possono essere spiegati e anche previsti da teorie differenti, come, storicamente, è stato il caso per le teorie geocentriche ed eliocentriche o per la teoria della gravità di Newton e quella di Einstein);
- le teorie scientifiche costituiscono modelli ipotetici interpretativi dei fenomeni che spiegano, a loro volta interpretabili sulla base di paradigmi più comprensivi (come p.e. quello meccanicistico e quello olistico), senza nulla togliere alla loro capacità predittiva;
- non è necessario che l’interpretazione “filosofica” che uno scienziato offre della sua teoria, corroborata come teoria scientifica, sia valida.
- E quale criterio adottare, allora, per distinguere una buona teoria, scientifica o filosofica che sia, dalla fantasia di qualche ciarlatano, magari interessato a catturare l’attenzione di chi ha il desiderio, il bisogno o la necessità di credere in quello che il ciarlatano spaccia per vero (che esista una vita dopo la morte, per esempio, o che certe erbe siano curative ecc.)?
Il criterio che risale ai Greci è il seguente: la determinata teoria
a) deve essere internamente coerente (o, almeno, apparire tale fino all’insorgere di qualche contraddizione, se Goedel ha ragione a negare la possibilità di dimostrare a priori la coerenza di alcunché ) e
b) “salvare i fenomeni“.
Ciò non assicura che la determinata teoria sia vera, ma la rende almeno verosimile, fino a prova contraria (prova empirica o prova teorica: un’incongruenza o una contraddizione).
- Ma non puoi certo competere con un fisico e un biologo sul terreno della conoscenza scientifica! Costoro dispongono di potenti mezzi di verifica sperimentale per le loro ipotesi. In particolare, i “veri” scienziati sviluppano teorie abbastanza precise da essere predittive di determinati eventi, in modo tale che, se questi non si verificano, esse sono falsificate. Tu sei in grado di fare lo stesso?
Certo non posso competere con gli scienziati sul terreno della ricerca empirica, tuttavia credo di poter avanzare timide ricerche di quella che chiamerei “protoscienza“.
- Ovvero?
Posso sviluppare ipotesi verosimili sulla base dell’attuale stato di sviluppo delle ricerche in un certo campo, ipotesi tutt’altro che dimostrate, ma anche difficili da smentire (soprattutto non incongruenti con l’attuale stato delle conoscenze accessibili sul determinato problema), congetture simili (anche se molto più embrionali, p.e. con riguardo alla formalizzazione matematica) a quelle che uno scienziato elabora prima di darsi la pena di verificarle su basi sperimentali.
Einstein, ad esempio, sulla base della circostanza già ben nota della costanza della velocità della luce per qualsiasi sistema di riferimento e delle trasformazioni di Lorentz, ha congetturato come reinterpretare tutte le altre grandezze, tenendo fermi tali “punti fissi”.
Prima delle celebri verifiche sperimentali della sua teoria, si trattava a tutti gli effetti di protoscienza.
- Si, ma poi la teoria di Einstein, essendo abbastanza precisa, si è sottoposta a controlli (la celebre osservazione relativa alla curvatura impressa dalla massa del Sole a raggi di luce provenienti da lontane stelle) che l’hanno suffragata o, per usare la terminologia di Popper, corroborata. La tua “filosofia della natura” è in grado di mettere in campo ipotesi sufficientemente predittive da essere falsificabili?
Una “filosofia della natura” si propone innanzitutto come interpretazione di ciò che è già stato scoperto dalla ricerca sul campo più che come elaborazione di ipotesi falsificabili.
Il rapporto del filosofo della natura con lo scienziato può essere paragonato a quello dello storico con l’archeologo.
- Ma anche lo storico non si limita a interpretare, inquadrandoli storicamente, i reperti portati alla luce dell’archeologo, ma a) può smentire le sue stesse precedenti ricostruzioni storiche sulla base di nuove evidenze archeologiche; b) può suggerire agli archeologi nuove campagne di scavo sulla base di nuove ipotesi ricostruttive.
Ma è precisamente ciò che fa il filosofo della natura: a) la sua elaborazione teorica tiene conto dei risultati della ricerca empirica, che possono anche metterla in discussione (dunque, in questo senso, anche tale elaborazione filosofica è falsificabile o, per meglio, dire, discutibile); b) egli può suggerire allo scienziato nuove linee di ricerca (che il filosofo stesso, per lo più, non è sufficientemente attrezzato per sviluppare).
- Puoi farmi un concreto esempio di come una scoperta scientifica potrebbe mettere in discussione un’ipotesi del filosofo della natura?
Se, ad esempio, si riuscisse a produrre in laboratorio, in modo puramente fisico-chimico, senza cioè ricorrere a materiale biologico precedentemente trattato, una cellula vivente, uno degli enigmi della natura, che nella mia prospettiva filosofica dovrebbero essere insolubili se indagati su basi meccanicistiche, sarebbe viceversa dissolto, smentendo la mia ipotesi al riguardo.
- E puoi farmi un concreto esempio di come un filosofo della natura potrebbe suggerire una linea di ricerca scientifica?
Rupert Sheldrake, colui che più di altri ha sviluppato l’idea del campo morfico (nel senso dinamico e vettoriale in cui anch’io lo concepisco), ha supposto anche l’esistenza di una cosiddetta “risonanza morfica” tra campi morfici (“anime”) tale che organismi simili, ma separati da spazio e tempo, apprenderebbero gli uni dagli altri a distanza, senza entrare in contatto diretto. Anche se ad oggi non si registrano esperimenti conclusivi a favore di questa ulteriore ipotesi (che, indirettamente, confermerebbe l’esistenza degli stessi campi morfici), si tratta comunque di un esempio di una linea di ricerca sperimentale che una determinata prospettiva di filosofia della natura potrebbe suggerire.
- Se coerenza interna e compatibilità con i fenomeni osservabili sono caratteri comuni alle teorie scientifiche e alle teorie elaborate dal filosofo (della natura); se, inoltre, anche queste teorie filosofiche possono essere considerate, sia pur debolmente, falsificabili, che cosa propriamente le distingue dalle teorie scientifiche?
L’intenzione. Mentre lo scienziato cerca di formulare ipotesi originali per rendere conto di fenomeni oscuri o per mettere alla prova e magari smentire teorie precedenti, il filosofo della natura cerca di comprendere il mondo nel suo insieme. A questo scopo egli attinge agli indizi offerti dall’esperienza che egli stesso, personalmente, ne ha, arricchita, certamente, dell’esperienza assai più approfondita e mirata che ne hanno gli scienziati (la quale, tuttavia, presenta il limite di non essere diretta, autoptica, bensì testimoniata, mediata da testi e bisognosa di interpretazione).
Per distinguere il suo lavoro da quello di uno scienziato, con riguardo soprattutto alla sua intenzione, ferma restando l’inestricabilità di fatto tra teoria ed esperienza, che hanno messo Feyerabend e Quine, il filosofo della natura , inoltre, osserverà le seguenti regole.
- Il filosofo della natura onesto (anche se, essendo nutrito di epistemologia , dubita dell’esistenza di un univoco “metodo scientifico”) non spaccerà come “scientificamente dimostrate” le sue “ipotesi” (che, come detto, potrebbero essere considerate, piuttosto esempi di “protoscienza”, qualcosa che potrebbe successivamente venire riconosciuto come scientifico, ma che manca ancora di un’adeguata validazione).
- Queste, inoltre, non dovranno neppure essere “scientificamente disconfermate” da evidenze sufficientemente forti.
- In linea di principio, inoltre, (ma vedi le limitazioni che porrò tra poco) vale il rasoio di Ockham: se una teoria scientifica spiega in modo esauriente un fenomeno o un processo, ulteriori speculazioni su di esso non hanno ragion d’essere.
Volgendo in negativo quest’ultimo criterio, si potrebbe dire che la filosofia della natura interviene con le sue speculazioni quando il fenomeno o il processo da spiegare non ha trovato ancora convincenti e/o esaurienti spiegazioni da parte della scienza attuale (come è il caso degli enigmi della natura che ho evidenziato in altra pagina).
- E chi stabilisce quando una spiegazione scientifica è o non è adeguata? Lo stesso filosofo della natura?
In molti casi sono gli stessi scienziati onesti a riconoscere di basare le loro teorie su programmi di ricerca o paradigmi efficienti, ma non per questo validati in tutti i loro aspetti (come p.e. la teoria dell’evoluzione per selezione naturale). In tali casi appare del tutto legittimo proporre nuove ipotesi, a condizione che a propria volta non le si presenti come validate scientificamente.
In generale saranno preferibili le ipotesi più semplici ed eleganti a quelle più articolate e complesse.
Ad esempio, è certamente più elegante interpretare, come fece Darwin, i differenti caratteri evoluti dalle diverse specie di fringuelli delle isole Galapagos come effetto di “selezione naturale” di caratteri più adatti ai rispettivi ambienti, mentre sarebbe “barocco” invocare un intervento “artistico” di Dio a giustificazione di ogni singolo “nuovo” carattere.
Viceversa appare “barocco” cercare di spiegare, come pure ci si ostina a fare, la differenziazione morfogenetica delle cellule originariamente totipotenti di un organismo appellandosi a incredibilmente complessi (e in gran parte sconosciuti) meccanismi biochimici, quando si può ricorrere alla semplice ed elegante ipotesi di un “campo morfogenetico“.
Si potrebbe, poi, aggiungere un ulteriore criterio guida per le ipotesi avanzate dal filosofo della natura; criterio che potrebbe limitare la portata del rasoio di Ockham sopra evocato.
- Quale?
Queste ipotesi scaturiranno, verosimilmente, da una reinterpretazione globale dell’esperienza (ad esempio, in senso “olistico” piuttosto che “meccanicistico”). Ora, tale quadro o cornice potrebbe rendere plausibili o, comunque, meritevoli di ulteriori indagini anche ipotesi apparentemente superflue in presenza di spiegazioni “meccanicistiche” apparentemente esaurienti.
In questo senso van Inwagen scrive:
Suppose there is a certain fact that has no known explanation; suppose that one can think of a possible explanation of that fact, an explanation that (if only it were true) would be a very good explanation; then it is wrong to say that that event stands in no more need of an explanation than an otherwise similar event for which no such explanation is available [van Inwagen, p. 135].
Analogamente John Leslie (il celebre cosmologo platonizzante):
A chief (or the only?) reason for thinking that something stands in [special need for explanation] is that one in fact glimpses some tidy way in which it might be explained [Leslie, p. 10].
In generale, come propone intelligentemente Rupert Sheldrake [p. 397 e ss.], bisognerebbe rianimare non tanto il cosiddetto dibattito, ma un autentico dialogo scientifico, in senso socratico, aperto anche ai non esperti, nel quale chi pensa di avere qualche interessante congettura da proporre possa liberamente argomentare le proprie ipotesi, attingendo a dati, ragionamenti, indizi, indicazioni di qualsivoglia origine purché pertinenti. Viceversa, anche il cosiddetto esperto, appartenente alla “comunità scientifica”, dovrebbe riuscire a rendere conto e a convincere anche il profano (potenziale fonte di finanziamento per le sue ricerche, qualora il crowdfunding scientifico fosse “democratizzato”) delle sue tesi.
- Ma lasciando che emergano da pubblici dibattiti interpretazioni “filosofiche” dei risultati della ricerca scientifica, diverse da quelle “ufficiali”, non si rischia favorire la diffusione di fake news a carattere pseudoscientifico, come quelle diffuse spesso da soggetti afferenti alla galassia (in effetti piuttosto… nebulosa) cosiddetta New Age? Su quello su cui non è possibile sviluppare un discorso rigorosamente scientifico non è meglio tacere, dal momento che non disponiamo di alcuna fonte di conoscenza, alternativa alla scienza, sufficientemente attendibile?
Non si tratta di fare della pseudoscienza, ma, in primo luogo, di discriminare ciò che effettivamente la ricerca scientifica suggerisce dai presupposti filosofici occulti alla luce dei quali spesso gli stessi scienziati pretendono di “spiegare” o “illustrare” le loro teorie – gli stessi che per lo più gliele hanno ispirate – (generalmente, anche se non sempre e non in tutti, presupposti di tipo “meccanicistico”); in secondo luogo, di proporre altre chiavi di lettura degli stessi fenomeni, basate su altri presupposti.
La discriminazione iniziale è il passaggio decisivo. Se non si fa questo, può sembrare che la “scienza” abbia dimostrato qualcosa (p.e. che l’homo sapiens sarebbe una “scimmia nuda”, evolutasi per puro caso nelle savane qualche milione di anni fa), che, in effetti, è tutt’altro che assodato.
- Ma che te ne fai di un sapere, come quello filosofico, così “debole”, così preliminare, così congetturale? Come potrebbero essere attendibili e meritevoli di interesse da parte di altri le conclusioni a cui pervieni?
Anche se sulle singole questioni tecniche il filosofo si limita a far congetture verosimili, scarsamente dimostrabili, ma, si spera, neppure confutabili, la “massa” degli indizi (provenienti dai campi più disparati) sperabilmente “gravi e concordanti” in una certa direzione (per esempio circa l’esistenza di una mente ordinatrice o circa l’irriducibilità della coscienza al cervello) potrebbe costituire una sorta di “prova” di quello che si vuole dimostrare, come avviene in certi procedimenti giudiziari.
- A me sembra che in questo modo tu, al massimo, possa edificare una “religione”…
Tra “credere” e “sapere” vi è continuità. Non c’è alcun salto, come ci ha mostrato Quine. Si crede a ciò che si reputa “utile” per rendere ragione di ciò che viviamo, osserviamo, sperimentiamo, senza poter mai dimostrare che sia “vero”: si tratti di molecole, atomi, campi elettromagnetici, campi morfogenetici, anime, angeli custodi, dèi morti e risorti per noi…
- Intendi dire che religione e scienza sarebbero la stessa cosa?
Si tratta di “visioni” che tendono, rispettivamente, a un massimo di compatibilità con “esperienze del cuore” o dell’intuizione (o, se preferisci, di gratificazione di bisogni e desideri soggettivi) e a un massimo di compatibilità con fenomeni osservabili; ma, come detto, senza soluzione di continuità. Senza contare che dimentichiamo, appunto, il “terzo incomodo” in questo duo, troppo spesso trascurato, forse perché scombina i giochi di credenti e scientisti di ogni tempo; e fa saltare il tavolo.
- Quale terzo?
La filosofia! Fa comodo considerarla pura speculazione, “meta-teoria”; o confinarla a questioni “etiche”, sottraendole quell’indagine sulla natura che fin dalle origini l’ha animata.
Il C.I.C.A.P. (Comitato Italiano di Controllo sulle Affermazioni sul Paranormale) non solleva problemi se qualcuno crede (o fa credere ad altri, magari traendone lauti guadagni) nella liquefazione miracolosa del sangue di San Gennaro o anche semplicemente nella morte e resurrezione di Cristo, uomo e Dio; purché questi non dica che si tratta di “scienza”. Perché, allora, tu dovresti sollevare obiezioni, se qualcuno postula l’esistenza – poniamo – di un “campo morfogenetico” per rendere conto della differenziazione delle cellule di un embrione (processo che nessuno finora ha saputo spiegare a fondo, meccanicisticamente)?
- Perché costui toccherebbe una questione scientifica, “biologica”, per la precisione, suggerendo, anche solo implicitamente, ma senza prove, una visione alternativa a quella della scienza ufficiale (visione alternativa che potrebbe diventare perfino pericolosa, se, per esempio, si traducesse in corrispondenti pratiche pseudo-terapeutiche).
Nessuno può parlare di embrioni (p.e. umani) se non il biologo? Non ne può parlare, ad esempio, il sacerdote, scandalizzato per l’uso che se ne fa, quando magari li si distrugge a scopo di ricerca? Sarebbe come dire che se io mi sentissi triste e tu mi consolassi, eserciteresti abusivamente la professione di psicologo! Parleresti di quello di cui soltanto altri avrebbero diritto di parlare?
- Mi sembra che il caso dello sviluppo delle cellule embrionali sia diverso… È troppo tecnico perché ne trattino “cani e porci”, privi di adeguata competenza!
Se vuoi parlare di questi temi, informati, documentati, riflettici e poi parlane da filosofo, filosofo della natura! Fai il terzo incomodo e vedi l’effetto che fa. Formula ipotesi, forse non verificabili, ma neppure falsificabili: credibili, dunque possibili, magari perfino verosimili. Saranno sempre più credibili delle “storie” della resurrezione di Cristo o del miracolo di San Gennaro, a cui moltissimi dànno credito senza scandalo per nessuno. Se ti perseguiteranno, non essere da meno del martire dei filosofi della natura: brucia sul rogo (auspicabilmente metaforico) su cui ti collocheranno (i credenti da un lato, i positivisti dall’altro), con lo stesso coraggio e la stessa parrhesìa di Giordano Bruno.
- Tutto questo mi sembra molto antiscientifico!
La critica che la filosofia può e deve esercitare riguarda il riduzionismo meccanicistico di matrice positivistica, non il sapere scientifico in generale. Anzi, essa può aiutare tale sapere a ritrovare la strada che da Galileo Galilei e prima ancora, in età classica, essa aveva imboccato.
A mio parere, infatti, siamo prossimi a un cambio di paradigma nei termini seguenti:
come l’eliocentrismo, inizialmente grossolano e impacciato perfino nel salvare i più banali fenomeni astronomici, ma matematicamente ed esteticamente elegantissimo, alla fine ebbe la meglio sul geocentrismo, elaborato da secoli e molto più raffinato nella capacità predittiva (p.e. delle eclissi);
così oggi un nuovo paradigma, di carattere essenzialmente informazionale e teleologico, piuttosto che energetico, potrebbe spiegare con grande eleganza una somma di fenomeni di varia natura (quelli che costituiscono ad oggi enigmi della natura) che ora si tenta bensì faticosamente di spiegare con i mezzi tradizionali, ma con risultati simili a quelli che si conseguivano nel Medioevo moltiplicando eccentrici ed epicicli e ipotesi tanto accessorie quanto barocche.
1) Scrive Quine:
Tutte le nostre cosiddette conoscenze o convinzioni, dalle più fortuite questioni di geografia e di storia alle leggi più profonde di fisica atomica o financo della matematica pura e della logica, tutto è un edificio fatto dall'uomo che tocca l'esperienza solo lungo i suoi margini. […] Un disaccordo con l'esperienza alla periferia provoca un riordinamento all'interno del campo; si devono riassegnare certi valori di verità ad alcune nostre proposizioni. […] Una volta data una nuova valutazione di una certa proposizione dobbiamo darne un'altra anche a certe altre, che possono essere proposizioni logicamente connesse con la prima o esse stesse proposizioni di connessioni logiche. […] Ma l'intero campo è determinato dai suoi punti limite, cioè l'esperienza, in modo così vago che rimane sempre una notevole libertà di scelta per decidere quali siano le proposizioni di cui si debba dare una nuova valutazione alla luce di una certa particolare esperienza contraria. [da Quine, Willard Van Orman Quine, Il problema del significato (1953), tr. it. Ubaldini, Roma 1966].
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