Un monismo neutrale?

albero

Galileo, come è noto, ha fondato la nuova scienza su un’immagine dell’universo “matematica” di ascendenza pitagorica. Tuttavia, adottando la distinzione di origine atomistica tra qualità oggettive e soggettive dei corpi, ha operato la vera “rivoluzione” concettuale, che è alla base della scienza (più precisamente del meccanicismo che costituisce il presupposto filosofico misconosciuto che sta “dietro” molte descrizioni pretese scientifiche) e che io esprimerei così: ha “orizzontalizzato” la distinzione verticale platonica tra “mondo sensibile” e “mondo delle idee”.

Nella concezione classica platonico-aristotelica viviamo in un mondo “sfocato”, confuso, contraddistinto dal divenire, che possiamo comprendere “riducendolo” a forme o idee eterne, immaginariamente collocate nell’iperuranio.

Cartesio, su premesse galileiane, che operazione compie? Le forme eterne diventano proprietà oggettive dei corpi (spazio, tempo, massa ecc.). Dove finisce il “mondo sensibile”, confuso e sfuggente? Dentro il “cogito”, nella “neonata” coscienza (termine del tutto sconosciuto ai Greci nel significato che gli assegniamo noi), ricettacolo (quasi pattumiera) delle qualità soggettive (i celebri qualia della filosofia della mente).

Quale la rilevanza teorica di questa ricostruzione storica?

La “coscienza” su cui oggi ci interroghiamo, immaginata come qualcosa che si trova da qualche parte “dentro” il corpo e di cui si cercano (finora invano) i correlati neurali,  è un costrutto teorico relativamente recente e non necessario.

  • Non necessario a che cosa, esattamente?

Intendo dire che non è necessario assumere che esista qualcosa come una coscienza distinta da ciò di cui è coscienza. Si tratta di un’assunzione caratteristicamente moderna. Infatti i Greci la ignoravano come dimostra il fatto che non disponessero neppure di un termine per indicare quella che noi chiamiamo “coscienza” (almeno nel senso di “consciousness” o di “Bewusstsein“).

Aristotele certamente distingueva tra sonno e veglia, diversi stati di coscienza, ma non ha mai distinto da una parte “la coscienza” p.e. umana e dall’altra parte “una realtà di cui si è (più o meno) coscienti”. Un albero ad es. rimane in potenza finché resta nel seme o nella nostra immaginazione. Passa all’atto quando lo vediamo qui e ora. L’atto è inscindibilmente un “actus essendi” e un “actus cognoscendi“.

  • Non credo proprio che Aristotele abbia mai detto una cosa del genere (che, cioè, sia la nostra percezione che trasforma le cose dalla potenza all’atto)!

Aristotele non poteva certamente dire una cosa del genere e neppure io la affermo. Non poteva dirlo appunto perché non assegnava a “noi”, in quanto soggetti, un ruolo sufficientemente distinto dal resto della natura da poter acquisire addirittura una funzione demiurgica (questa è una funzione che ci siamo assegnati nella modernità post-cartesiana, una deriva unilaterale dell’antropocentrismo rinascimentale).

In Aristotele la nostra percezione e la nostra intellezione, in modi diversi, costituiscono non tanto la causa del passaggio di una cosa dalla potenza all’atto, quanto piuttosto una condizione necessaria di questo passaggio.

Del resto, come potrebbe essere ora in atto un albero che nessuno percepisse, a meno che esso non percepisca ora se stesso? Un albero, che prima è stato un seme e poi sarà legna da ardere, ora è compiutamente un albero adulto solo “agli occhi” di qualche vivente per il quale si possa dare un tempo presente (non a caso “attuale” in italiano è sinonimo di presente, a differenza ad esempio dell’inglese “actual“). In assenza di un osservatore vivente un ente privo di coscienza, essendo perciò privo anche di un proprio presente, in un certo senso è simultaneamente in tutti gli istanti del suo divenire, dunque il minimo che si possa dire è che non è più in atto di quanto non sia in potenza

Ecco perché nel De anima ad esempio (cfr.  III, 2, 425b27-426a28) Aristotele scrive:
L'atto del sensibile [aisthétou enèrgeia] e del senso [aisthéseos] sono il medesimo ed unico atto.
  • Si, ma poi prosegue:
La loro essenza non è la stessa: intendo, ad esempio, il suono in atto e l'udito in atto.
Certo, ma solo perché
è possibile che chi possiede l'udito non oda, così come l'oggetto sonoro non sempre risuona. Quando, però, ciò che è capace di udire ode in atto e ciò che è capace di risuonare risuona, allora l'udito in atto e il suono in atto si producono simultaneamente.
Ancora:
Poiché l'atto del sensibile [aisthétou] e quello della facoltà sensitiva [aisthetikoû] è unico [mià enèrgeia], ma la loro essenza è diversa, l'udito e il suono così intesi devono cessare e conservarsi simultaneamente, e così pure il sapore e il gusto e gli altri sensi e sensibili, il che invece non è necessario quando essi si intendono in potenza.
  • Se come tu sostieni secondo Aristotele coincidono l’atto del conoscere e la cosa conosciuta (in questo caso attraverso i sensi), perché Aristotele ha tanta cura ad affermare che le loro essenze sono diverse?
Per quello che chiarisce alla fine della citazione precedente e in altri passi (dove critica ad esempio gli antichi fisiologi): l’identità ad esempio tra visione e veduto si ha solo quando entrambi sono in atto. Ma, se ad esempio tu potessi vedere un albero, ma attualmente non lo vedessi e l’albero fosse ancora nel seme, non vi sarebbe alcuna identità tra la tua facoltà di vedere un albero e il seme.

 

Certo, finché rimaniamo sul terreno della sensibilità, resta comunque lo scarto tra la forma p.e. dell’albero e l’albero visibile, sinolo di materia e forma, contraddistinto da un continuo divenire, un continuo e inafferrabile passare dalla potenza all’atto, che “adombra” continuamente (per usare un lessico husserliano) parti di sé che sfuggono a una piena conoscenza.

 

P.S. Non è un caso che la psicologia aristotelica possa avere influenzato Husserl, Meinong e i padri della Gestaltpsychologie tramite Franz Brentano, il fondatore della moderna psicologia continentale, dichiaratamente ispirato dal De anima aristotelico.

 

Non si tratta, però, di misconoscenze dovute alla “distanza” tra un soggetto e un oggetto modernamente intesi, ma del pegno che in Aristotele (e Platone) si deve pagare alla “materia”, al caos indeterministico a cui soggiace il divenire.

 

Ancora più chiara è l’identità tra actus essendi e actus cognoscendi se leggiamo quanto scrive Aristotele a proposito dell’intellezione.

 

Premesso che l’intelligenza (noûs), come luogo delle forme, non è “mescolata” al corpo (precorrimento del carattere “trascendentale” della coscienza?), Aristotele dà per scontato che “intendere” (noêin) le cose significhi per l’intelligenza “diventarle”, come ad es. quando scrive che l’intelligenza
non è in atto nessuna delle cose che sono prima di intenderle [outhén estin energéiä tôn ontôn prin noêin] [De anima, III, 4, 429a24-25]
sottintendendo, con questo, che, per intenderle, deve “esserle”.
E infatti poi continua:
Quando poi l'intelligenza è divenuta ciascuna cosa [hòtan d'outôs èkasta génetai] ecc. [ivi, 429b6-7]
Se ci fossero dubbi sul senso letterale di queste espressioni Aristotele chiarisce in un fondamentale passo (che sarà ripreso non a caso da Plotino):
Nel caso delle cose senza materia sono lo stesso [tautò] ciò che intende [nooûn] e ciò che viene inteso [nooûmenon]; infatti la scienza [epistéme]  teoretica e il suo oggetto [epistetòn] sono la stessa cosa [ivi, 430a3-5]

Dunque nella prospettiva aristotelica (ma a maggior ragione il discorso vale per la tradizione platonica) conoscere a fondo qualcosa è essere quel qualcosa, secondo il principio parmenideo

Tò gar autò noêin estì te kài éinai
 [la stessa cosa è intendere ed essere]
 [Parmenide, Poema sulla natura, fr. 3 DK]
  • Se conoscere consistesse nell’essere ciò che si conosce, perché Aristotele avrebbe inaugurato una logica distinta dalla sua metafisica? Ciò suggerisce che Aristotele distingua molto bene le cose dal discorso sulle cose, il quale, non a caso, quando è apofantico, può essere sia vero sia falso.

La conoscenza “per identità” di cui abbiamo parlato finora costituisce per così dire il caso ideale o il modello di ogni altra forma di conoscenza. Nel mondo sensibile ci si deve accontentare di una sua approssimazione compendiata nella formula di origine presocratica:  il simile si conosce mediante il simile.

N. B. La conosciamo bene anche noi quando costruiamo la scienza della natura su metafore, ponti tra diversi suoi campi di applicazione, come quando parliamo di “corrente elettrica” per analogia con la corrente di un fiume.

Questa conoscenza per similitudine è il massimo di approssimazione alla “conoscenza per identità”, caratteristico della scienza delle pure forme (p.e. dei teoremi della geometria). A tale conoscenza per similitudine  siamo “condannati” nel mondo sensibile, contraddistinto da materia e articolato secondo le note categorie.

Aristotele fonda quella che poi si sarebbe chiamata “logica” (termine che egli ignora, come anche quello di “metafisica”) sulla base della convinzione che il nostro linguaggio/pensiero (lògos) possa essere simile a ciò a cui si riferisce, quando è vero, dissimile, quando è falso. Ma tale identità “parziale” è caratteristica appunto del mondo contraddistinto dal divenire (e dalla materia) per il quale valgono le categorie (non a caso le stesse riferite sia all’essere sia al discorso sull’essere).

E in ogni caso la conoscenza che viene condotta logicamente ha sempre come oggetto non le cose fuori di noi come tali, ma le loro forme (l’universale), ciò che appunto possiamo cogliere pienamente “diventandole” mediante l’intelligenza.

Dunque il problema della conoscenza è posto dai Greci in generale e da Aristotele in particolare non come un problema che riguardi la relazione di un soggetto con un oggetto, ma come il problema di cogliere la verità eterna (delle forme) a partire da una condizione di confusione (il mondo sensibile).

  • Però nella Fisica (cfr.  I, 1, 184a16-22) Aristotele distingue molto bene tra ciò che è più conoscibile per noi da ciò che lo è meno. Dunque egli sembrerebbe distinguere un “polo soggettivo” e uno “oggettivo” del sapere.

Osservazione interessante. Tuttavia, come caratterizza Aristotele ciò che è meno conoscibile per noi? Non come una “cosa in sé”, cioè qualcosa che esista indipendentemente dalla sua conoscibilità.   Al contrario, come ciò che è massimamente conoscibile, manifesto “per natura” [tê physei] (ad esempio Dio).

Noi non riconosciamo subito Dio o le proprietà dei triangoli perché siamo immersi in passioni e sensazioni confuse che ci distraggono facendoci credere più conoscibile una cosa materiale che una forma pura. Ma la forma pura è tanto più intrinsecamente “esistente” quanto più essa è intrinsecamente conoscibile!

Anche nel caso dell’albero ciò che ci permette di riconoscerlo è la forma “albero” che non coincide con il “confuso” e imperfetto albero individuale. La cosa è semplicemente ancora più chiara se, invece che di alberi, parliamo del riconoscimento di linee, quadrati o punti inestesi.

  • Va bene, supponiamo che la tua ermeneutica aristotelica sia fondata. Ma quale è il suo portato teorico?

La mia tesi è che dobbiamo abbandonare il “dualismo cartesiano”, per cui esistono una res cogitans, bisognosa di qualche genere di spiegazione (se intesa come “coscienza”), e una res extensa (contraddistinta da proprietà oggettive, eredità dell’iperuranio platonico).

Ciò permette di superare anche la contrapposizione (che presuppone questo dualismo, per superarlo unilateralmente) tra idealismo e materialismo.

Recuperando la visione classica ci possiamo collocare in un “monismo neutrale“. Possiamo ragionare fenomenologicamente distinguendo tra “invarianti” e “variabili” all’interno della nostra esperienza, senza “ipostatizzare” pretesi “sostrati” di questi “oggetti”.

  • Fino a rendere tutte le esperienze di Tizio accessibili a Caio, esattamente come Tizio ne ha esperienza? Se no, quali sì e quali no, e perché?

Il carattere privato dell’esperienza non dipende dalla differenza tra il soggetto della conoscenza e il suo oggetto, ma dalla circostanza che a quanto pare l’essere si manifesta a se stesso sempre in prospettiva, cosa ben nota agli antichi (per esempio ai sofisti).

Se ci rifletti la domanda sul carattere privato è in effetti un domanda sul carattere prospettico della coscienza, che si attenua quanto più sono (anche metaforicamente) distanti i suoi oggetti. Se tu e io ci “eleviamo” alla comprensione, ad esempio, di un teorema, mettendo tra parentesi tutti i “disturbi” legati alle nostre percezioni, ai nostri ricordi e alle nostre emozioni, in che cosa la nostra esperienza è diversa?

È un’esperienza che tutti abbiamo fatto da bambini. Se corri lungo un viale alberato, gli alberi sembrano fuggire in direzione contraria alla tua, ma la Luna, ad esempio, sembra sempre nello stesso punto, quasi che ti segua ovunque tu vada.

Più una cosa è distante meno si allontana da te, in un certo senso.

Possiamo anche aggiungere: più una cosa è distante, più è universale, comune a tutti (così come è comune alle diverse occorrenze della tua stessa coscienza, cosa che non è, ad esempio, degli alberi in fuga del viale alberato).

Ciò che è oltre lo spazio e il tempo, come i numeri, è paradossalmente qualcosa “alla portata di tutti” e uguale per tutti.

Se guardiamo a una casa in lontananza, anche se la guardiamo in prospettive leggermente diverse, ci appare quasi nello stesso modo. Ma se ci avviciniamo, tu magari ne vedi soltanto la porta e io soltanto una finestra. Le nostre esperienza si sono via via “privatizzate”.

N. B. Corrispondentemente possiamo maggiormente interagire con ciò che entra nelle nostre rispettive sfere: tu puoi aprire la porta e io posso lanciare un sasso contro la finestra.

Nota che questo monismo neutrale consente di intendere anche il quantum bayesianism. Dato un sistema quantistico, invariante potrebbe essere un certo “prodotto” o combinazione di singoli parametri, mentre il valore di questi resta indeterminata (p.e. se determino la velocità non conosco con precisione la posizione ecc.).  Il monismo neutrale permette di non dare significato alla domanda: “Ma l’incertezza quantistica dipende da un nostra incapacità strumentale o teorica o da un’effettiva indeterminazione della natura?”. Questa domanda, che distingue tra l’aspetto “epistemico” e l’aspetto “ontologico” p.e. dell’incertezza probabilistica non avrebbe alcun senso (così come chiedersi se l’entropia esiste oggettivamente o dipende dal nostro modo di distinguere tra ordine e disordine).

  • Rimane inspiegato perché anche le invarianti svaniscono dalla nostra esperienza quando ci addormentiamo.

Le invarianti sono sempre lì, 2 +2 fa sempre 4, ma non ne siamo sempre coscienti. Sono qualcosa di necessario, ma non sono sempre attuali. Viceversa la tua attuale esperienza sembrerebbe contingente e, inoltre, non è mai pienamente condivisibile.

Penso che la spiegazione dello strano comportamento delle invarianti debba essere ricercata nel loro ruolo funzionale: dalla loro combinazione incomputabile e imprevedibile scaturisce l’esperienza di ciascuno di noi o, meglio ancora, ciascuna occorrenza della coscienza nella sua irriducibilità (anche quello che percepivi tu ieri è in un certo senso perduto, neppure tu sei più in grado di farne esperienza, se non nel modo alterato del ricordo).  Le invarianti funzionano molto bene quando sono inconsce: conscia ne è soltanto la risultante imprevedibile e privata, per così dire. Ma su questo occorre certamente interrogarsi ancora…

Ma il punto che volevo sottolineare qui è che non è possibile distinguere tra quanto dipende dal nostro sistema percettivo e quanto dalla “realtà”, là fuori.

Resta la questione. Ma un gorilla o un’ameba percepiscono o meno i colori, ma anche lo spazio e tempo come noi?

Tuttavia, non possiamo accedere alle loro esperienze e possiamo solo fare congetture sulla base del loro comportamento.

Verosimilmente vivono in mondi diversi, forse con alcuni invarianti diversi e altri no.

 Se ci fossero invarianti universali, transpecifici sarebbero più “profondi” di altri invarianti e potrebbero essere attribuiti al “noumeno”, al polo oggettivo. Tuttavia, continuo a pensare che nulla sarebbe in assenza di un polo soggettivo, variamente configurato a seconda delle specie e degli individui (e degli stati di coscienza diversa di ciascun individuo).

 

  • Ci sono, però,  fenomeni fisici (per esempio i suoni a frequenze oltre i ventimila Hertz) che non entrano mai nella nostra esperienza e per alcune frequenze probabilmente nell’esperienza di nessun’altra entità conscia. Che cosa dunque rende questi fenomeni reali se, per ipotesi, non possono essere percepiti da nessuno? In questo scenario avresti un universo fatto come un formaggio svizzero in cui ci sono delle cose che diventano attuali come effetto delle coscienze che ne hanno esperienza ma molte, moltissime altre (forse la maggioranza) che non vengono mai  percepite da nessuno e come conseguenza non divengono mai reali.

Ma in che senso dici che “ci sono” questi fenomeni di cui non siamo consci? Per quel che ne sappiamo potrebbero “esserci” questi fenomeni, esattamente come in un videogioco ci potrebbe essere un mostro nascosto dietro una roccia.

In realtà non c’è nessun mostro, ma soltanto un programma ben scritto che, se muovi il joystick in un certo modo, ti fa apparire il mostro.

Un’ipotesi ardita se riferita al nostro bel mondo reale? Non direi, se consideri che molto o tutto di quello che ci appare tale dipende dal nostro modo di percepirlo. Se, come io argomento (con Kant), tali fossero anche lo spazio e il tempo, che cosa resterebbe delle frequenze sonore in assenza di una “coscienza” di esse? Tornando ad Aristotele esse rimarrebbero in potenza, dal momento che una frequenza ha bisogno di “tempo” per manifestarsi e, come lo stesso Aristotele sostiene,

risulta impossibile l’esistenza del tempo senza quella dell’anima [Fisica, IV, 14, 233a21-26].

La questione sottesa alla tua obiezione, secondo me, è un’altra. Se, quando mi sveglio, percepisco un certo suono e, a quel punto, “ricostruisco” il mondo come se quel suono si fosse prodotto anche prima che mi svegliassi, che cosa fa sì che anche tu operi la medesima mia ricostruzione? Ne nasce l’impressione di un mondo comune oggettivo perché sussiste un accordo intersoggettivo sui modi nei quali ricostruiamo il mondo quando noi non c’eravamo (e anche sui modi nei quali ciascuno di noi lo costruisce mentre l’altro ad esempio dorme di sonno profondo).

Secondo me la questione si risolve ammettendo che tutte le occorrenze della coscienza siano appunto tali: manifestazioni di una coscienza unica che, per così dire, fa collassare in  un colpo solo, ovunque si manifesti, la funzione d’onda.

Non si tratterebbe che dell’altra faccia dell’entanglement quantistico: se Alice vede un fotone polarizzato verticalmente anche Bob vedrà il fotone gemello, entangled con il primo, polarizzato nello stesso modo. Sebbene in se stessi i fotoni esistano in  sovrapposizione di stati (sono polarizzati in molti modi diversi e contraddittori), appena ne viene osservato uno, zac, tutti quelli entangled con lui si comportano di conseguenza.

Misteriosi legami superluminali tra particelle o un effetto del vero e solo entanglement, quello tra le diverse occorrenze della medesima coscienza cosmica?

di Giorgio Giacometti