Il problema etico non è certamente nuovo. Esso nasce con la stessa filosofia e ha trovato numerose diverse soluzioni nella filosofia classica greca.
In questo contesto, a partire almeno da Socrate, si trattava di cercare quale fosse il bene da perseguire e come perseguirlo. In generale la più diverse tradizioni filosofiche (diverse soprattutto con riguardo ai mezzi da impiegare per perseguire il bene), come il platonismo, l’aristotelismo, lo stoicismo, l’epicureismo, lo scetticismo ecc., concordavano che il bene da perseguire conducesse alla felicità. Sotto questo profilo si trattava di etiche eudemonistiche (da “eudaimonìa”, cioè felicità), quale fu, paradigmaticamente, l’etica aristotelica (che fu anche la prima “etica” a darsi questo nome).
Con il trionfo del cristianesimo le cose non cambiano se non per il riconoscimento dell’incapacità dell’uomo di conseguire la felicità (beatitudine) con la sue sole forze (intellettuali). Ciò che ultimativamente occorre è la grazia di Dio, come emerge chiaramente p.e. in Agostino. Nondimeno ciò che noi possiamo e dobbiamo fare per meritare tale grazia (e quindi conseguire il bene) è, come per gli antichi Greci, esercitare le virtù (non è un caso che le virtù “cardinali” cristiane, cioè saggezza, coraggio, temperanza e giustizia, non siano altro che le virtù fondamentali, proprie del filosofo governante, secondo la Repubblica di Platone).
Nel Rinascimento rinascono, appunto, le antiche filosofie greche e, dunque, anche l’antico modo di porre la questione etica (nonché la speranza di conquistare la felicità con le proprie forze: homo faber fortunae suae), mentre nella prima età moderna, l’irruzione della visione meccanicistica del mondo, dovuta alla rivoluzione scientifica, sposta l’interesse etico-filosofico sulla questione di come “salvare” il libero arbitrio. Questo, infatti, appare negato dal meccanicismo, togliendo, così, sostanza alla problematica etica (se è tutto determinato meccanicisticamente non abbiamo più margini per valutare e, quindi, decidere che cosa sia bene fare o non fare).
In Kant, tuttavia, la questione etica si propone in modo decisamente nuovo. Per quale ragione? Kant non può costruire un’etica derivata da principi di tipo metafisico o religioso (come erano, in un certo senso, le etiche proprie delle filosofie antiche e quelle tratte dalle grandi religioni monoteistiche, ma anche, p.e., l’etica di Spinoza, “dedotta” da una radicale concezione meccanicistica del mondo), poiché, nella Critica della ragion pura, Kant ha argomentato che non è possibile venire a conoscenza di principi metafisici di alcun genere (ad esempio non possiamo sapere se Dio esiste o meno, se noi abbiamo o meno il libero arbitrio, se noi siamo e no il nostro stesso corpo o, magari, abbiamo un’anima immortale, se il mondo “reale” segue leggi meccaniche oppure no ecc.). Kant deve dunque cercare di costruire razionalmente un’etica puramente “laica”, cioè senza dedurla da una “metafisica” (come, viceversa, fecero tutti i filosofi fino a Kant, dagli atomistici che, su basi meccanicistiche, costruivano un’etica edonistica, ai platonici che, su basi idealistiche, costruivano un’etica che invitava a separare l’anima dal corpo, ai cristiani che, sulla base della loro fede nella parola di Dio e di Cristo, ne ricavavano i precetti per la vita quotidiana ecc.)
Come vedremo, l’etica laica di Kant costituisce forse la più “filosofica” e meditata giustificazione dei valori e dei principi etici e giuridici dell’illuminismo e del liberalismo moderni (p.e. dei diritti umani, della libertà ecc.). Non a caso l’opera in cui Kant presenta la sua “etica”, intitolata Critica della ragion pratica, viene pubblicata nel 1788, un anno prima della proclamazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino nella Francia rivoluzionaria.
Ma in che cosa consiste tale prospettiva? E come vi perviene Kant?
Kant è alla ricerca, dunque, di una legge morale che possa valere universalmente senza venire dedotta da principi metafisici determinati (da una specifica dottrina filosofica o religiosa). Tale legge dovrebbe essere scritta in modo tale che tutti gli uomini, in quanto tali, indipendentemente dalla cultura e della religione di appartenenza, dovrebbero sentirla come propria.
Immaginiamo di essere un insegnante di scuola primaria e di dover impartire alcune regole di condotta a una classe di allievi di diversa cultura, religione, “filosofia” (cattolici, protestanti, musulmani, buddisti, atei, di destra, di sinistra, “stoici”, “epicurei” ecc.). A che cosa si potrebbe appellare il docente senza fare riferimento ai valori presupposti da alcuni, ma non da altri? Quale regola, ci si deve chiedere, potrebbe essere accettata da tutti? Evidentemente una regola che valesse per tutti e non solo per alcuni.
Kant risolve il problema analizzando il problema stesso. Quale regola potrebbe valere per tutti senza essere ricavata da principi validi solo per alcuni e non per altri?
Bisogna appunto che la regola in base alla quale si agisce possa essere parte in modo non contraddittorio di una legislazione universale.
Ed ecco, infatti, la prima fondamentale enunciazione della legge morale (che Kant chiama anche imperativo categorico):
Agisci in modo che la massima (o regola) a cui obbedisce la tua azione possa essere parte di una legislazione universale
In questa prospettiva per sapere se un’azione è morale posso adottare una sorta di “test di universalizzabilità”.
Ad esempio “ Ruba!” (massima) può prescrivere un’azione etica? Solo se sono disposto a concedere a tutti gli altri di poter seguire la stessa massima.
Notiamo, tuttavia, che sarebbe autocontraddittorio elevare la massima “Ruba!” a legge universale. Supponiamo, infatti, che in uno Stato si autorizzi il furto per legge . Ciascuno sarebbe autorizzato a impossessarsi di beni altrui. Ma in uno Stato simile verrebbe sostanzialmente meno la proprietà privata dei beni, perché ciascuno potrebbe disporre dei beni degli altri. Ecco la contraddizione: come sarebbe possibile tecnicamente “rubare” se niente è più di nessuno? La legittimazione del furto si rivela autocontraddittoria perché ciò che legittima, appunto perché legittimato, diventa simultaneamente impossibile.
“Uccidi” è una massima immorale perché sarebbe assurdo che ammettessi che altri potessero seguirla nei miei stessi confronti; laddove ammettere la “legittima difesa” è certamente morale, perché posso accettare di poter essere ucciso qualora, cosa che non intendo certo fare, minacciassi qualcuno di morte.
Un altro modo per accertarsi di agire moralmente è quello di verificare se la propria azione segue il criterio della trasparenza.
Chiediamoci: “Sarebbe sensata la mia azione se la rendessi pubblica?”.
Immaginiamo di mentire, di ordine un complotto politico, di preparare una rapina in banca… Nessuna di queste azioni sarebbe efficace se resa nota anzitempo.
Bisogna, in generale, accettare di subire l’azione che si pretende di fare agli altri (“regola aurea“):
Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te!
In questa versione, per la verità, la regola è molto antica. Kant, tuttavia, le conferisce una giustificazione razionale caratteristicamente moderna.
Agisce moralmente chi agisce secondo principi universalizzabili, ossia colui che ammette senza contraddizione principi che possano valere anche per altri. Ma altri chi? Altri “esseri razionali”, capaci a loro volta di moralità.
Il che ci porta a un’altra fondamentale formula della legge morale:
Considera sempre l’altro uomo sempre anche come fine e non mai solo come mezzo
Infatti, l’altro uomo in quanto soggetto morale deve essere considerato come un altro me stesso, libero di dare a se stesso le regole che vuole, a condizione che ammetta che anche tutti gli altri possano fare la stessa cosa, e non soggetto ad alcuna costrizione. I “diritti umani” possono essere filosoficamente fondati su questo principio.
N. B. Questa formula della legge morale non implica che non ci si possa anche servire di altri esseri umani. L’importante è che non li si riduca a semplici strumenti, ma si rispetti la loro dignità (qui identificata con la loro capacità di autodeterminazione). Kant fa l’esempio del portalettere di cui mi servo per mandare una missiva a qualcuno. Non per questo egli diventa un mio schiavo. Egli accetta liberamente l’incarico, che potrebbe altrettanto liberamente rifiutare, in cambio, verosimilmente, di un compenso.
La necessaria universalità della legge morale comporta anche un altro suo carattere: la formalità (su cui si incentreranno le critiche di altri filosofi, tra cui Hegel).
La legge morale, infatti, non prescrive alcun contenuto determinato, non contiene precetti (p.e. “non mangiare carne di maiale”, come richiede la religione musulmana), ma obbliga soltanto a seguire qualsiasi precetto che si ammetta che anche tutti gli altri possano seguire.
Ciò preserva il concreto pluralismo morale. Musulmani e cristiani possono non essere d’accordo se si possa o meno mangiare carne di maiale. L’importante è che chi segue il precetto di non mangiarla (che in se stesso non è vincolante per tutti), da un lato accetti che anche gli altri facciano lo stesso, se vogliono, dall’altro lato si guardi bene dall’imporre tale precetto a chicchessia, lasciando gli altri liberi di seguire le norme (del pari universalizzabili) che essi intendono seguire (p.e. osservare il digiuno quaresimale).
Tuttavia – ecco un altro aspetto fondamentale, sottolineato da Kant – la legge morale secondo Kant non deve essere solo qualcosa che possa valere universalmente. Essa deve prescrivere anche il nostro dovere in modo tale che noi lo compiamo al solo fine di compierlo e non per altri scopi (“dovere per il dovere“). Si tratta del carattere dell’autonomia della legge morale, che si contrappone all’eteronomia delle norme p.e. giuridiche.
Per comprendere ciò che ha in mente Kant possiamo partire da un aneddoto.
A un bambino era stato detto che se fosse andato sempre a messa la domenica e se si fosse sempre pentito dei propri peccati in confessione, quando fosse morto, sarebbe andato in Paradiso. Un giorno, però, lesse in un libretto di catechismo che i santi, che certamente erano andati in Paradiso, non avevano agito bene allo scopo di salvarsi, il che sarebbe stato in ultima analisi un atto di egoismo e, dunque, un peccato, ma avevano agito per amore di Dio e delle creature.
Il paradosso, dunque, era che per salvarsi bisognava … non desiderarlo! Sforzarsi, però, di non desiderare il Paradiso…. allo scopo di andarci, era un ennesimo paradosso.
Se dal punto di vista cattolico agire bene allo scopo di salvarsi ci rende meno perfetti che agire bene per il solo amore di Dio (dunque, si potrebbe supporre, ci fa commettere un peccato “veniale”, degno del Purgatorio, ma non dell’Inferno), dal punto di vista di Lutero qualunque nostro atto, se non è ispirato dalla fede e dalla grazia (dunque dall’amore di Dio), è peccaminoso, proprio perché, in ultima analisi, dettato dall’egoismo: esso non ci permette di salvarci, proprio perché, paradossalmente, salvarci è proprio quello che (egoisticamente) vorremmo.
Kant proviene da una cultura protestante e prende molto sul serio il paradosso luterano nella sua formulazione originaria, che risale a S. Paolo: non solo la legge esiste perché esiste il peccato (se non inclinassimo verso il male non sarebbe necessario stabilire una legge e prescrivere una punizione), ma anche il peccato esiste perché esiste la legge (nel senso che chi si limita ad osservare la legge, credendo così di non peccare, continua a peccare, perché solo l’amore salva, e non la nuda legge).
Preso alla lettera il comandamento cristiano “Ama il prossimo tuo come te stesso” – se ci si riflette – è un’ingiunzione paradossale.
I 10 comandamenti dell’Antico Testamento erano prescrizioni legali che gli Ebrei anticamente dovevano semplicemente osservare (esteriormente) per essere graditi a Dio.
Ma come si fa ad “amare” a comando?
Nell’interpretazione luterana questo comandamento di Gesù, come la stessa legge di Mosè, funge semplicemente da criterio per sapere chi si salva, più che essere una norma da osservare: chi, di fatto, ama il prossimo è salvo perché è animato dalla grazia; ma sforzarsi di amare per obbedire al comandamento è già tradirlo.
- Perché non si potrebbe desiderare di andare il Paradiso, nutrendo, per così dire, un “nobile egoismo”? Anche i santi, in fondo, agiscono per amore di se stessi, dal momento che aiutare il prossimo li rende felici e prossimi alla salvezza… Amare se stessi non è affatto escluso dal comandamento di Gesù, che prescrive appunto di amare gli altri come se stessi (non più di se stessi)!
Vero. Ma il punto fondamentale dal punto di vista luterano è che l’amore di sé non deve essere il motivo principale dell’azione.
Il punto di vista da assumere è quello di Dio: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”, dice Gesù. Il santo agisce come “terminale” o longa manus di Dio: aiuta se stesso come aiuterebbe qualsiasi altra creatura e come Dio farebbe con lui e con gli altri. Il punto di vista assunto, dunque, non è più l’io personale, ma Dio, ossia qualcuno che ha di mira il bene comune, il bene universale.
- D’accordo. Ma tutto questo che cosa c’entra con l’etica di Kant?
Se trasferiamo quest’ordine di ragionamenti dall’etica religiosa all’etica laica troviamo il terzo carattere della legge morale razionale (dopo i caratteri dell’universalità e della formalità della legge), il carattere dell’autonomia (vs eteronomia).
Quale legge, ci si deve chiedere, deve ispirare un’azione perché questa possa essere morale e non dettata, cioè, da propositi egoistici?
Evidentemente si tratta di fare il proprio dovere per amore del dovere stesso e non per altri scopi (secondi fini: il plauso degli altri, i vantaggi economici che ne potrebbero derivare, il Paradiso ecc.).
Kant, evidentemente, muove da un’antropologia pessimistica (di ascendenza, come abbiamo visto, protestante). L’uomo tenderebbe spontaneamente a soddisfare i propri interessi egoistici.
Se non fossimo, tuttavia, che “animali egoisti”, non ci sarebbe “polizia” sufficientemente organizzata che potesse impedire che, segretamente, gli uomini non minassero le elementari regole delle convivenza sociale (a meno di non immaginare una società controllata da un Grande Fratello orwelliano). Dai sofisti a Machiavelli, molti autori hanno pensato alla religione come alla forza che, agendo sulla coscienza dei singoli, li induce a rispettare le regole anche in assenza di controlli. Tuttavia, secondo Kant, che è un campione dell’illuminismo, l’uomo che non si fa spaventare dalla minaccia delle punizione divina, magari perché più intelligente degli altri, trova in se stesso, nella propria ragione, una motivazione sufficiente ad agire secondo giustizia anche in assenza di sanzioni esterne.
La ragione, cioè, secondo Kant, è in grado sia di stabilire una legge morale di valore universale, dunque ancora più “valida” delle leggi positive dello Stato di appartenenza, sia di avere la forza per imporla al pur riluttante individuo umano.
Il rispetto della legge morale dettata dalla ragione non rende, tuttavia, – attenzione! – felici (come avrebbero pensato i Greci), ma semplicemente degni della felicità.
Secondo Kant la ricerca della felicità, suggerita dai sensi, è irrimediabilmente affare individuale. L’obbedienza alle leggi, per paura della sanzione, è ancora dipendente dall’egoismo (mera legalità dell’azione). Resta la ragione, comune a tutti gli uomini, come facoltà capace sia di fissare una legge morale universale, sia di darci la forza, se liberamente lo vogliamo, di osservarla.
Mentre lo scopo dell’etica classica – da Aristotele agli illuministi – è, come sappiamo, la felicità (eudemonismo), per Kant si tratta sempre solo del dovere per il dovere (rigorismo).
Agisco moralmente solo se obbedisco alla ragione. Se aspiro a qualche forma di premio, seguo una passione e, perciò, non agisco moralmente.
La legge deve avere dunque la forma di imperativo categorico, ossia assoluto (“tu devi!”), e non ipotetico (“tu devi questo se vuoi quello”) .
Distinguiamo, infatti, tra:
imperativi ipotetici: il loro scopo è per es. la felicità (empirico a posteriori): è suscitato dalla passione, non è morale.
Tu devi x, se vuoi y
imperativo categorico: ha per fine se stesso (razionale a priori): è morale
Tu devi x
La legge morale è dunque auto-noma perché la ragione la dà a se stessa a prescindere da motivazioni esterne (come sarebbe se la legge fosse dettata da altro, fosse etero-noma).
Lo stesso ragionamento che ispira a Kant la sua dottrina morale ispira anche la sua dottrina politico-giuridica, esposta soprattutto nella Metafisica dei costumi (1797). Tale dottrina costituisce una sorta di “implementazione” filosofica dei principi della Rivoluzione Francese, espressi nella celebre Dichiarazione del 1789 e che si possono riassumere nella formula “La mia libertà finisce dove comincia la libertà dell’altro” o, per usare le parole di Kant riferite al fondamento a priori del diritto:
Agisci esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa coesistere con la libertà di ognuno, secondo una legge universale.
Vi si può riconoscere, a partire dal radicale rifiuto di ogni forma di paternalismo, anche di matrice illuministica (cfr. le teorie che assegnano allo Stato il compito di assicurare la pubblica felicità attraverso l’educazione, come quella di Cesare Beccaria che vi lega la sua condanna della pena di morte, non condivisa da Kant), la fondazione del liberalismo politico secondo il quale ciascuno è il miglior giudice del proprio bene.
Su questi temi cfr. questa mia videolezione (soprattutto la sua seconda parte):
etica, storia della filosofia, storia della filosofia moderna, storia della scienza
assolutezza, autonomia, Critica della ragion pratica, disinteresse, dovere per il dovere, eteronomia, formalità, Immanuel Kant, imperativo categorico, imperativo ipotetico, incondizionatezza, Kant, legge morale, libertà, ragion pratica, razionalità, universalità