La dialettica, riesumata da Hegel, è il metodo filosofico per eccellenza, da distinguersi p.e. dai procedimenti deduttivi (dall’universale all’universale e, quindi, al particolare, come nel sillogismo aristotelico), caratteristici della logica e della matematica, e da quelli induttivi (dal particolare all’universale, cioè dall’esperienza alla teoria) attribuiti a certe scienze (come la geografia o la “storia naturale”).
Possiamo ricordare che per “dialettica” si intende etimologicamente l’arte del dialogo. Socrate, dialogando con i suoi interlocutori, confutava la loro opinione (dòxa), cioè come le cose apparivano loro, per cercare insieme a loro la verità, la scienza (epistéme), cioè come le cose veramente erano.
Hegel, in particolare, (che in gioventù aveva studiato i dialoghi dialettici di Platone, Parmenide, Sofista, Filebo) ci mostra come, quando si pensa a fondo qualcosa, esso si rivela diverso da come appariva inizialmente. Se ne sviscerano, infatti, nascoste contraddizioni o aporie, in modo tale che la cosa, pensata a fondo, si rivela antinomica.
Hegel riprende, dunque, la dialettica con cui già Platone aveva introdotto alla conoscenza del Principio. Per Platone, tuttavia, la dialettica, mettendo in luce le antinomie della ragione, richiedeva una specie di salto mistico (di superare la diànoia o ragione per attingere le essenze tramite il noûs o intuizione intellettuale), che poteva piacere ai romantici, ma non a Hegel. Secondo Hegel (come sarà poi per Marx) la dialettica (cioè l’esercizio della ragione) non si ferma all’antinomia, ma può cogliere l’Assoluto attraverso un processo ulteriore.
Come ricordiamo, Platone mostra, nel Parmenide, a proposito dell’uno, come si possano scoprire come contraddittorie le conseguenze sia delle diverse tesi sull’uno (dimostrando, così, le rispettive antitesi per assurdo), sia delle stesse antitesi, generando così antinomie:
“L’uno se è non è. Infatti se è, o è un tutto o è una parte. Ma, se è un tutto, è un tutto (fatto) di parti, dunque è molteplice, e non uno. Se è una parte è la frazione di un uno, l’intero di cui è parte, e (di nuovo) non un uno. In entrambi i casi se l’uno è qualcosa non è un uno.”
Un altro esempio (neoplatonico) di antinomia (contraddizione insolubile che scaturisce da un esame dialettico) riguarda la causa dell’essere. La “causa dell’essere”, se è (qualcosa), non è più causa dell’essere, a meno che non sia, contraddittoriamente, anche causa di se stessa; ma se non è (alcunché), non può essere causa dell’essere perché, evidentemente, qualcosa che non è alcunché non può causare alcunché.
Si può dire, in sintesi: un discorso è dialettico o antinomico quando ciò che afferma implica (automaticamente, anche se spesso in modo implicito e non immediatamente evidente) la propria negazione.
Al cuore della filosofia Hegel (ma verosimilmente anche di quelle di Eraclito e Platone) c’è quest’idea: ogni discorso razionale (Hegel direbbe: intellettuale), portato alle sue estreme conseguenze, genera (auto)contraddizione, dunque è intrinsecamente antinomico (mentre Kant considera antinomici solo i discorsi della metafisica, non quelli della scienza, in cui la ragione, applicata all’esperienza sensibile, conserverebbe una propria coerenza – ma incontreremo diversi problemi al riguardo, nel Novecento, studiando la crisi dei fondamenti di logica e matematica, culminati nelle antinomie di Russell e nei teoremi di Goedel).
Hegel, tuttavia, non può ammettere che la filosofia si arresti all’antinomia proposta alla ragione dalla dialetticità intrinseca dei concetti perché come potrebbe altrimenti “superare” tale arresto – come pretendono i filosofi “irrazionali”, romantici, come Schelling – per “cogliere” qualcosa di reale, se, rinunciando alla ragione, la filosofia rinunciasse anche a se stessa, a “pensare”? Se il filosofo ammette come “reale” qualcosa che è al di là di ciò che può razionalmente porre o riconoscere (per esempio l’oggetto della fede o del sentimento) si cade di nuovo nel paradosso della cosa in sé, ossia si pretende di conoscere l’inconoscibile, di pensare l’impensabile. Nel momento in cui esprimo l’esigenza di qualcosa che sia al di là della contraddizione o che ne sia il principio non posso che farmi appunto il “concetto” di una tale cosa. Il “reale” dunque, per il filosofo, non può che coincidere sempre con ciò che egli stesso razionalmente determina come tale, ossia con il razionale, che è universale e necessario (anche se scaturisce da una contraddizione).
Ora, questo “reale” che scaturisce come necessario per la ragione dalla contraddizione di un concetto non può essere altro che il “movimento” stesso del concetto (automovimento), la sua dialettica, presa come un tutt’uno. Perciò Hegel parla di Aufhebung, ossia superamento/toglimento dei momenti contraddittori del concetto. Questo termine significa che i momenti del concetto (i suoi lati, come anche Hegel li chiama, contraddittori) sono sì “aboliti” come assoluti, come unilaterali, (come si presentavano per l’intelletto, cioè al pensiero immediatamente), ma “conservati” come relativi, appunto come momenti del “tutto” che ne risulta (la sintesi oltre tesi e antitesi), il quale a sua volta si rivelerà contraddittorio, dunque momento di un “tutto” ulteriore in cui tale contraddizione sarà “tolta” (= abolita e conservata) ecc.
Dal momento, poi, che Hegel è idealista, come Fichte e Schelling, e pensa che la “realtà” sia identica al pensiero, il movimento dialettico della ragione tra i diversi opposti coincide con il movimento naturale delle cose dall’essere al non essere: la dialettica (= la logica del pensiero) è la molla della realtà, oltre che del pensiero.
Ogni sintesi costituisce a sua volta una tesi contraddittoria che implica una nuova sintesi tra sé e la propria antitesi e così via, nel processo logico sistematico del pensiero che è anche quello della realtà, fino al sistema completo della filosofia in cui sono contenute tutte le determinazioni (essere, nulla, divenire, essenza, concetto, vita, natura, diritto, morale, Stato, spirito ecc.).
Se in generale il metodo della filosofia consiste nello sviscerare criticamente i presupposti di ciò si afferma, si può intendere la sintesi in Hegel semplicemente come il presupposto nascosto sotto l’apparente contraddizione di un concetto. Per esempio (vedi oltre) l’essere presuppone il nulla, il nulla l’essere, e la loro stessa contraddizione presuppone il divenire dell’uno nell’altro e viceversa. La sintesi suprema (lo Spirito Assoluto) di tutto il movimento dialettico sarà quindi anche il principio primo, il presupposto di tutti i presupposti, la condizione che fin dall’inizio, ma segretamente, rendeva possibile tutto il movimento.
Tale principio coincide con la stessa attività dialettica, col percorrimento filosofico di tutti i concetti; in ultima analisi con la stessa filosofia di Hegel!
Ciò si può anche esprimere evocando la tesi esposta da Hegel nella giovanile Fenomenologia della Spirito (1807): il vero è l’intero. Ciò significa che nessun finito è quello che è se non in relazione a ogni altro e al tutto (in Hegel, come nei romantici, pensato come infinito). “A è A”, dal momento che l’uguaglianza presuppone la differenza degli eguagliati, implica che “A è non A” e le due identità comportano che ciascuno dei due termini implica l’altro, negandolo e così determinandosi come quello che è. Poiché, in generale, una cosa non è tutte le altre, in ogni cosa in nuce è presente l’intero, il riferimento al tutto di cui è parte. Così in tutte le opposizioni che Hegel mette in luce (p.e. reale/razionale, spirito/natura ecc.) sono da rilevare sia la differenza sia l’identità.
Il sistema, che Hegel espone nelle sue opere e particolarmente nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche (1817 e ss.), ripercorre, in una certa misura, la “storia della filosofia” intesa come Storia dello Spirito, attraverso la quale lo Spirito (l’Io o Soggetto assoluto) perviene progressivamente a coscienza di sé (quel processo che in Schelling riguarda soprattutto la Natura e in Fichte l’autoaffermazione morale del singolo).
Nell’Enciclopedia, a differenza che nella giovanile Fenomenologia dello Spirito (1807), si parte già dall’idea che tutto sia Spirito e si svolge l’articolazione (con metodo dialettico) di questo stesso Spirito nei suoi momenti fondamentali, ossia
- come esso è in se stesso (argomento della logica hegeliana che, nelle parole di Hegel, ha per oggetto “Dio prima della creazione del mondo”, qualcosa di paragonabile al Lògos degli stoici o al Noûs o Intelligenza dei neoplatonici, cioè al mondo delle idee o archetipi fondamentali di ogni cosa) ;
- come esso esce fuori di sé e si “oblia” o “aliena” nella Natura;
- come esso ritorna in sé con consapevolezza (è in sé e per sé) nell’uomo come individuo e come specie che si sviluppa nella Storia.
Un esempio chiaro di dialettica è offerto dal “cominciamento” del “sistema”.
Il principio più immediato gli appare l’essere (in quanto pensato), come il primo modo in cui lo Spirito appare a se stesso (come qualcosa che semplicemente è). L’ essere sta dietro ciascun oggetto, come l’elemento fondamentale di cui è imprescindibilmente costituito. Ma, così astrattamente concepito, privo di “determinazioni”, di qualità, essere è nulla.
Se mi limito a riconoscere che qualcosa è, con questo non riesco a distinguere una cosa da un’altra cosa, sicché non afferro alcunché di determinato, di preciso; ma dicendo che questo “immediato indeterminato” non è alcunché (è nulla) parto comunque dal presupposto che anche il nulla esista in quanto è appunto il nulla. Dunque ciascuna delle due tesi (essere e nulla) implica quella contraria (antinomia). Hegel, tuttavia, a questo punto non si ferma colmo di meraviglia all’antinomia [come Platone, Kant, la mistica ecc.], ma pretende di indovinare una sintesi tra i due contrari: il divenire, come passaggio dall’essere al non essere (perire) e dal non essere all’essere (nascere).
Si noti che, implicitamente, Hegel qui ci mostra come si possa passare dialetticamente dalla filosofia di Parmenide a quella di Eraclito (dalla dottrina dell’essere a quella del divenire), come tra due figure dello Spirito (ossia due modi in cui lo Spirito pensa se stesso, equivocando). La “storia” del pensiero, dunque, si svolge dialetticamente (anche se non bisogna cercare forzatamente una corrispondenza biunivoca tra momenti della storia del pensiero e triadi dialettiche).
Non seguiamo analiticamente tutte le figure del “sistema”, né ci preoccupiamo di giustificare il passaggio logico-dialettico dall’una all’altra.
- Diciamo semplicemente che nella Logica (1816), complessivamente, identica a una Metafisica, in forza dell’identità di pensiero ed essere, Hegel deduce e colloca al proprio “luogo logico” i principali concetti della filosofia pura (sostanza, qualità, quantità, misura, essenza ecc.), nonché della logica (universale, particolare, sillogismo ecc.).
- Nella filosofia della natura Hegel esamina il passaggio dal meccani(ci)smo all’organi(ci)smo attraverso il chimismo (dal semplice al complesso) per giungere alla coscienza dell’uomo (inteso, alla maniera di Schelling, come la natura stessa che prende coscienza di sé).
- Infine, nella filosofia dello spirito soggettivo egli esamina lo sviluppo della coscienza individuale, in parte già svolto nella giovanile Fenomenologia, per pervenire alla dimensione oggettiva o collettiva dello spirito (spirito oggettivo). La trattazione di quest’ultimo costituisce, forse, la maggiore fatica di Hegel, esposta in maniera analitica nei Lineamenti di filosofia del diritto (1821). Il sistema, esposto complessivamente nell’Enciclopedia delle scienza filosofiche (1841), culmina, infine, con la trattazione dello spirito assoluto (arte, religione, filosofia), ossia nella filosofia di Hegel (dunque, in un certo senso, l’ultima figura non è altro che l’intero sistema).
Sulla filosofia dello Spirito di Hegel ecco una mia videolezione introduttiva:
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