La tendenza tipica e dominante tra i filosofi “continentali” (ossia i professori di Filosofia delle università dell’Europa non insulare, esclusi quindi i Paesi di lingua e cultura anglosassone, come la Gran Bretagna e gli U.S.A.) è quella rappresentata dalla cosiddetta ontologia “ermeneutica“, il cui massimo esponente è stato Hans Georg Gadamer, allievo di Heidegger, che incentra la sua riflessione sulla nozione (già introdotta da Heidegger) di circolo ermeneutico.
Come dice Heidegger, noi partiamo sempre da una certa precomprensione del mondo che ci circonda, che ci consente di interpretarlo e di comprenderlo. In questo mondo sono compresi gli altri, il cui discorso noi, generalmente, intendiamo (così quella che Heidegger chiama la “visione ambientale preveggente” o Umsicht ci permette di usare le cose che ci circondano, conferendo loro implicitamente senso, senza chiederci nulla riguardo alla loro essenza).
Possiamo immaginare il “mondo” come un “testo” le cui parole sono le “cose” da cui è popolato e che noi riempiamo di “senso” abitandolo (un senso diverso a seconda della nostra rispettiva precomprensione, cioè dalle diverse prospettive da cui partiamo).
Puoi leggere qui un esempio di “circolo ermeneutico” che prende le mosse da una frase in cui figura la parola “legno”. Tale termine assume connotazioni via via diverse via via che allarghiamo lo sguardo al “contesto” in cui si trova, senza guadagnare tuttavia mai la propria “verità” (un significato definitivo), poiché il suo senso dipende sempre e comunque dalla nostra prospettiva di lettura.
Quando qualcosa (un intoppo, ad esempio) rende problematica la comprensione delle cose del mondo (che prima sembrava scontata, non interrogata) sorge la domanda (filosofica) sul senso, la cui sola possibile risposta presuppone una certa interpretazione dell’esperienza, la quale, tuttavia, a sua volta è resa possibile dalla precedente precomprensione. L’esperienza, aggiungendo sempre nuove informazioni, ci costringe a un continuo esercizio di reinterpretazione di se stessa, che muove dalla precomprensione iniziale. Ogni reinterpretazione coinvolge anche le prime acquisizioni che, dunque, non sono mai stabili. Il circolo si protrae all’infinito, poiché, come esseri storici, noi non ci possiamo sottrarre alla nostra finitezza e non possiamo cogliere la verità “dall’alto”, ossia facendo totale epoché delle nostre precomprensioni, come pretendeva Husserl. Ogni “verità” è quindi contestuale, relativa, anche se non può neppure essere considerata come semplicemente “arbitraria” (come nel relativismo puro), perché dipende da un insieme di precomprensioni (la tradizione) che, a sua volta, possono avere un qualche rapporto con la verità stessa (come suggerisce la loro persistenza).
Di qui l’importanza di interrogarci, quando ci interroghiamo su qualcosa (per esempio su “che cos’è bene?”, o “esiste Dio?” ecc.), sulle risposte che sono state storicamente date alle medesime questioni (da Platone, Kant ecc.), non solo come esempi “astratti” di possibili risposte, ma come risposte che, per gli effetti che hanno avuto sulla storia del pensiero fino ad oggi (la cosiddetta “storia degli effetti”), anche attraverso tutti i fraintendimenti che hanno generato, ci influenzano culturalmente senza che ce ne rendiamo conto (p.e. la risposta cristiana al problema di Dio ci influenza culturalmente anche se siamo diventati atei: dunque, per l’approccio ermeneutico, prima di chiederci se Dio esiste fingendo di essere – come vorrebbe Husserl – “ingenui” e “puri” davanti a questa domanda, dovremmo interrogarci sul senso dell’interpretazione cristiana della medesima questione e sul modo in cui tale senso ci influenza, anche per contrapposizione, attraverso per esempio la reazione illuministica o marxistica).
La riflessione di Gadamer è culturalmente importante per la “giustificazione” filosofica che fornisce agli esercizi di storia della filosofia (in termini di recupero della nostra tradizione culturale per il suo potere illuminante circa la nostra precomprensione del mondo). Grazie anche alla rivalutazione di una sorta di “principio di autorità”, molti esponenti della filosofia universitaria contemporanea continentale, in Italia e all’estero, si richiamano, come accennato, in vario modo a questo approccio.
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