Come risolve il filosofo tedesco Gottfried Wilhelm (von) Leibniz la questione che ci sta a cuore, ossia quella del libero arbitrio?
Partiamo dalla constatazione – ci suggerisce Leibniz – che esistono due ordini di verità: le verità di fatto e le verità di ragione.
Le verità di ragione sono assolutamente necessarie e possono essere ricondotte al principio di non contraddizione, in quanto la loro negazione è contraddittoria, mentre le verità di fatto si riferiscono a fatti che si verificano solo se ce n’è una ragione sufficiente, ma non sono strettamente necessarie; si dicono, pertanto, contingenti (dal latino “contingere” = “toccare in sorte”, “accadere”).
I principi fondamentali della scienza, per essere universalmente e necessariamente veri (altrimenti la scienza sarebbe solo “opinione”), devono essere verità di ragione.
Osserviamo che Leibniz, qui, per fondare la verità della scienza, abbandona il criterio dell’evidenza, che aveva consentito a Cartesio di “bloccare” il regresso all’infinito nelle dimostrazioni paventato dagli scettici antichi, e ritorna al criterio della “dimostrazione per assurdo” (è vero ciò la cui negazione implica contraddizione).
Naturalmente Leibniz ignora la possibilità che possano darsi antinomie e considera, come tutti gli scienziati della prima età moderna, le principali ipotesi scientifiche (p.e. quella dell’impenetrabilità della materia) come veri e propri principi logici ossia leggi fondate sul principio di non contraddizione.
Altro discorso per le singole misurazioni del valore di queste “leggi di natura” nei diversi casi.
Così se la legge di gravitazione di Newton deve essere una verità di ragione, il valore che assume la forza di gravità al livello del mare può essere conosciuto solo empiricamente. Ma è proprio perché dispongo (razionalmente) della legge universale che posso calcolarmi, ad esempio, la massa complessiva della Terra sulla base dell’accelerazione di gravità che registro empiricamente!
Le proposizioni che illustrano una verità di ragione presentano il predicato incluso nel soggetto (un giudizio analitico, nella denominazione di Kant), mentre le proposizioni che illustrano le verità di fatto presentano il predicato indipendente dal soggetto (un giudizio sintetico).
- Esempio di verità di ragione: il triangolo equilatero (soggetto) è equiangolo (predicato). La negazione di questa verità implicherebbe contraddizione. Il predicato è incluso nel soggetto (nessun triangolo equilatero potrebbe non essere anche equiangolo).
- Esempio di verità di fatto: questo triangolo equilatero (soggetto) è rosso (predicato). La negazione di questa verità non implica contraddizione. Essa, se effettiva, dipenderà da una x ragion sufficiente (la causa dell’esser rosso di questo triangolo). Il predicato non è incluso nel soggetto (un triangolo equilatero potrebbe anche non essere rosso).
Le verità di ragione, secondo Leibniz, sono innate in noi. L’esperienza non le può, infatti, dimostrare, ma solo suscitare per via di reminiscenza (come aveva argomentato già Platone).
Sotto questo profilo Leibniz difende la prospettiva razionalistica di Cartesio e si oppone all’empirismo di Locke (che critica nei Nuovi saggi sull’intelletto umano, scritti nei primi anni del Settecento, ma non mai pubblicati durante la vita di Leibniz). Cfr. questa videolezione a riguardo:
N.B. In realtà quelle che per noi sono verità di fatto, perché il loro contrario non sembra implicare contraddizione (p.e. “Cesare varcò il Rubicone”), in Dio, che conosce gli infiniti predicati di ogni individuo (p.e. tutto quello che Cesare fu, è o sarà) e, quindi, anche le infinite ragioni delle sue azioni sono, in un certo senso, verità di ragione (chi non avesse varcato il Rubicone non sarebbe stato quel Cesare…).
Quest’ultima considerazione sembra inficiare la nozione di libero arbitrio che, invece, Leibniz difende.
N. B. La geniale, per quanto discutibile, soluzione di questo problema, non costituisce soltanto una conciliazione tra determinismo e libero arbitrio, ma anche tra protestantesimo e cattolicesimo, nella misura in cui i protestanti, soprattutto Calvino, sostengono la predestinazione (sicché saremmo salvati o dannati a seconda che Dio ci conceda o meno la grazia), mentre i cattolici difendono il libero arbitrio (sicché, oltre alla grazia, un ruolo importante, ai fini della salvezza, è assegnato ai nostri meriti).
Innanzitutto, possiamo osservare che, mentre un triangolo non può non avere tre lati, esso deve essere azzurro, solo se qualcuno lo dipinge di quel colore, azione che a sua volta è determinata da ragioni o cause, a loro volta determinate da altre ragioni o cause e così via, in un regresso all’infinito. Ora questa catena di cause non è affatto, nel suo complesso, necessaria. Posso immaginare un altro universo possibile in cui la catena è differente e questo triangolo è – poniamo – rosso. Non posso, invece, immaginare un universo in cui un triangolo abbia quattro lati.
Possiamo quindi immaginare, come fa Leibniz, infiniti mondi possibili, tra loro non compossibili (questo triangolo non può essere simultaneamente azzurro e rosso), tra i quali Dio sceglie il migliore e lo fa passare dalla possibilità alla realtà (diviene reale, ma resta “contingente”, cioè non necessario). Si noti che in tutti gli universi possibili le verità di ragione sono sempre uguali, mentre cambiano le verità di fatto (possiamo rappresentarci gli universi possibili come insiemi circolari che condividono una regione di interferenza che contiene le verità di ragione comuni a tutti gli universi).
Sull’essenza e il ruolo di Dio si può leggere questo passo della Teodicea del 1710.
Ora, quando compio una qualsiasi azione, anch’io, come Dio, implicitamente faccio una scelta all’interno di una serie di azioni possibili. La ragion sufficiente che mi porta a scegliere un’azione rispetto a un’altra non è deducibile allo stesso modo della tesi di un teorema (che si ricava dall’ipotesi attraverso un numero finito di passaggi). Leibniz dice, a questo riguardo, che la ragione sufficiente inclina, ma non determina.
Possiamo comprendere questa differenza facendo la seguente considerazione. La mia scelta dipende da un numero infinito di circostanze (da un numero infinito di scelte precedenti che risalgono, per così dire, all’origine dell’universo). In questo la mia azione è prevedibile solo ad opera di una mente infinita, ma, di fatto, è libera (poiché in me, per così dire, in quanto monade, si ricapitola da un certo particolare punto di vista tutto l’universo e io godo, un certo senso, ad ogni mia scelta, della stessa libertà di Dio quando ha scelto questo universo come il migliore possibile).
Più semplicemente possiamo dire che, quando agisco in un determinato modo, devo bensì avere una ragione (sufficiente) per agire così (altrimenti non agirei in questo modo), ma questo mio agire non è strettamente necessario, in quanto non sarebbe contradditorio per me agire diversamente. La mia azione non è necessaria, nel senso che non mi sarebbe logicamente impossibile agire diversamente.
Come si concilia tutto questo con l’onniscienza divina? La soluzione di Leibniz è un classico del pensiero cristiano (risale ad Agostino, è ribadita da Anselmo d’Aosta): la prescienza di Dio (il fatto che Egli conosca gli eventi prima che si verifichino) non implica che egli mi costringa a fare quello che Egli prevede che farò (perché Egli prevede ciò che io farò liberamente, non ciò che io farò perché costretto da Lui o da altri).
D’altra parte, non si può neppure affermare che Dio mi lasci fare tutto quello che voglio, senza che lo voglia anche Lui (altrimenti ne sarebbe lesa l’onnipotenza). Sotto questo profilo Dio ci predestina a fare… liberamente ciò che Egli stesso vuole che facciamo.
Per comprendere il senso di quello che Leibniz intende possiamo leggere un passo di un suo scritto non pubblicato relativo alle verità prime.
Come conciliare predestinazione e libertà di scelta? Leibniz suppone quanto segue. Se ammettiamo che Dio sappia in anticipo tutte le scelte che faremmo in tutti i mondi possibili, egli non fa altro che scegliere a sua volta e “creare” quello tra i mondi possibili che egli considera “migliore”, ossia nel quale abbiamo liberamente agito nel modo in cui Lui stesso vuole che agiamo.
Per rendere l’idea di quello che intende Leibniz possiamo fare questo paragone. Supponiamo che io voglia riprendere qualcuno che, del tutto casualmente, lanciando una moneta, ottenga per sei volte di seguito “testa”. Non potendo “costringere” la moneta a mostrare per sei volte la stessa faccia, riprendo con una videocamera centinaia di sequenze di sei lanci, finché non registro, del tutto casualmente, la sequenza attesa. A questo punto cancello tutte le altre registrazioni e carico su Youtube la sequenza desiderata. Chi assiste all’esecuzione dei lanci non può affermare che i risultati siano “pilotati”. La moneta cade del tutto casualmente in un certo modo. Eppure si assiste “miracolosamente” a sei esiti uguali (la cosa sarebbe ancora più impressionante, se si registrasse un video in cui i lanci dessero per risultato, centinaia o migliaia di volte di seguito, sempre e solo “testa”: la moneta sembrerebbe “stregata”, ma, in realtà, si tratterebbe solo di avere infinita pazienza e attendere la sequenza desiderata).
Per avvicinarci al tema della conciliazione leibniziana di predestinazione e libero arbitrio si immagini quest’altra situazione (del tutto realistica). Desidero che un mio studente o una mia studentessa vinca le Olimpiadi di Filosofia a livello – diciamo – nazionale. Se volessi barare (e fossi un professore davvero bravo), potrei semplicemente produrre io stesso l’elaborato e farlo firmare al mio studente o alla mia studentessa. Ma, se volessi, invece, rispettare la libertà dei miei studenti e lasciare che siano veramente loro a competere, che potrei fare? Potrei esercitarli, naturalmente, e poi fare loro scrivere centinaia, migliaia di elaborati, quindi scegliere il migliore (da spedire – poniamo – alla commissione concorsuale). Non sarebbe più necessario che mi sostituissi ai miei studenti, basterebbe che fossi in grado di valutare le loro opere. Se alla fine lo studente o la studentessa vincesse il concorso, di chi sarebbe il merito? Suo certamente, ma anche mio, nella misura in cui avessi saputo scegliere l’elaborato migliore. Avendo a disposizione un numero enorme, quasi infinito di elaborati tra cui scegliere, potrei sceglierne uno che sia pressoché identico a quello che avrei scritto io stesso. In questo caso, di chi sarebbe l’elaborato finale? Sarebbe insieme mio e dello studente o della studentessa, totalmente dell’uno e dell’altro/a, liberamente prodotto da entrambi, senza che nessuno abbia costretto nessuno a fare quello che ha fatto…
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