Husserl agli inizi del Novecento radicalizza filosoficamente la prospettiva dello storicismo (Dilthey), che era riferita alle sole scienze umane. Per Husserl non possiamo pensare di conoscere alcunché se non a partire dell’esperienza che facciamo come soggetti (e non oggetti) di conoscenza.
La fondamentale critica che Husserl muove alle psicologie scientifiche, affette da quello che chiama psicologismo (diffuso anche in filosofia), si riferisce al fatto che esso mescola considerazioni tratte da osservazioni di vario tipo con ipotesi antropologiche, tutt’altro che scontate, sulla natura del soggetto studiato, in quanto homo sapiens. Anticipando la critica mossa dall’epistemologia contemporanea al sapere scientifico, Husserl sa che le scienze naturali, compresa la psicologia, non possono che partire da modelli esplicativi, da ipotesi. Ciò che questo sapere coglie, dunque, non è la “realtà”, ma solo quella “faccia” della “cosa” che collima con il modello esplicativo adottato (oggi diremmo: che non lo falsifica). Perciò, se interpretiamo quello che la scienza naturale ci dice dei suoi diversi oggetti (e la psicologia dice dell’uomo) come la verità su questi oggetti, pecchiamo di riduzionismo.
Bisogna, secondo Husserl, tornare, invece, alle cose stesse, per come esse appaiono (fenomeni) al soggetto che le coglie. E questo ritorno può essere opera non della scienza, ma solo della filosofia.
L’approccio genuinamente filosofico è, dunque, fenomeno-logico. Qualunque spiegazione di un oggetto, infatti, sia quelle scientifiche, sia quelle di senso comune, non coglie questo oggetto stesso, ma soltanto qualche suo aspetto; inoltre, una spiegazione, a ben considerare, presuppone già quell’oggetto che spiega. Non potrei spiegare che cos’è, ad esempio, un “numero” (o un”albero”) e neppure definirlo, se già non sapessi che cos’è.
Questo sapere originario dell’oggetto non è discorsivo, verbale, ma intuitivo, essenziale. Ciò che colgo dell’oggetto originariamente è, insieme, questo oggetto qui (il fenomeno) e la sua essenza universale (che, infatti. hanno lo stesso nome e sono entrambi preceduti dall’articolo determinativo: “il cane”, “lo scoiattolo” ecc.). Solo per questo lo posso spiegare, interpretare ecc., in modi diversi a seconda dei diversi saperi.
La fenomenologia, dunque, si rivela, una scienza di essenze (come il platonismo). Si chiede non “perché qualcosa esiste”; ma “che cosa esso sia”. Ma l’essenza delle diverse cose, si badi, non coincide con la definizione (p.e. aristotelica). Qualunque definizione impoverirebbe l’intuizione, la ricondurrebbe a un punto di vista, a una “tesi” particolare. La “Luna” non è riducibile né alla sua massa, come pretenderebbe la fisica, né a ciò che essa significa o esprime per il poeta o per l’innamorato. La “Luna” (o il “sacro”) è tutte queste cose assieme, anzi è al di qua di esse.
Questa intuizione essenziale vale anche per il soggetto. Qualunque sua “oggettivazione” psicologica lo perde in ciò che il soggetto ha di più essenziale: il suo essere appunto soggetto e non oggetto di conoscenza!
Il passo ulteriore è quello di rendersi conto che non c’è soggetto senza oggetto e oggetto senza soggetto. Il “mondo” scaturisce dalla correlazione necessaria e indissolubile di soggetto (o io) e di oggetto. Husserl rifiuta sia l’idealismo sia il materialismo. Non si può tentare di dedurre la realtà dall’Io, come facevano gli idealisti, perché non c’è nessun Io che non sia incarnato, già in relazione con il mondo: la coscienza è sempre “coscienza di” qualcosa (cioè è coscienza intenzionale). Ma non si possono rappresentare oggetti al di fuori della coscienza che se li rappresenta (che Husserl, come Kant, chiama, per questo, trascendentale). Dunque è assurdo il tentativo delle neuroscienze di ricavare la coscienza dal cervello, come se ne fosse una funzione: la coscienza è piuttosto la condizione di possibilità delle stesse neuroscienze e della percezione che noi abbiamo di quell’oggetto che chiamiamo “cervello”!
Ma come può, il filosofo, cogliere quell’essenza delle cose e di se stesso come soggetto che sfugge allo scienziato e anche all’uomo comune? Secondo Husserl ciò è possibile esercitando innanzitutto l’epoché, ossia sospendendo il giudizio naturale sul mondo (diremmo: i nostri pregiudizi, anche di derivazione scientifica).
Una volta fatta epoché, si tratta di osservare con estrema attenzione tutti i fenomeni per come ne possiamo fare esperienza, per come li possiamo vivere. Le cose sono quello che sono in relazione al soggetto che le vive, che ne fa dei vissuti. Ad esempio: se sapessi spiegare che cosa succede a una persona innamorata e, grazie alla mia teoria, p.e. di matrice psicoanalitica o comportamentistica, fossi in grado di prevederne il comportamento, ma non avessi mai fatto esperienza diretta e personale di innamoramento, non avrei alcuna conoscenza del fenomeno dell’innamoramento, nel senso fenomenologico del termine.
Analogamente, se sono cieco e studio scientificamente le caratteristiche del colore “rosso” (la banda di frequenza che lo contraddistingue, gli effetti che fa su certi animali ecc.), non posso ancora dire di “conoscere” il rosso, in senso fenomenologico (mi dovrebbe essere ridonata la vista).
Da questa attenta descrizione dei diversi fenomeni posso sviluppare tutta una serie di “ontologie regionali”, cioè di campi della conoscenza fenomenologica, che vanno da quello che raccoglie gli oggetti sensibili, a quello che concerne i vari tipi di sentimenti con le loro varie sfumature e così via. La filosofia si risolve in una specie di mappa di tutte le “cose” possibili, con le loro irriducibili peculiarità, da Dio agli oggetti naturali, dal “sacro” all’ “amore”, dalla “paura” al “riso”, dall’ “arte” alla stessa “scienza” e così via.
All’interno di questa mappa una distinzione fondamentale è quella che distingue i vissuti in senso stretto, che sono come appaiono (per esempio una sensazione dolorosa, il colore rosso o un sentimento d’amore), dagli oggetti, detti trascendenti perché possono essere diversi da come appaiono (un uomo che si rivela una sagoma di cartone ecc.).
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