La soluzione del problema del libero arbitrio escogitata da Leibniz, gli permette di conciliare
a) tanto il determinismo della natura, messo in luce della scienza moderna,
b) quanto prescienza e predestinazione divine (derivanti rispettivamente da onniscienza e onnipotenza di Dio), già note agli antichi stoici (che parlavano di destino e provvidenza), care alla tradizione cristiana (ed esaltate in ambito protestante),
con la libertà di scelta dell’uomo.
La chiave di tutto consiste nel distinguere tra necessario (ciò il cui contrario è assurdo) e contingente (ciò il cui contrario è sempre possibile). Ora secondo Leibniz solo le verità logico-matematiche sono davvero necessarie (“verità di ragione”), mentre, a differenza di quello che pensavano p.e. Cartesio e Spinoza, con il loro sogno di “geometrizzazione” della fisica, la natura è radicalmente contingente: gli eventi potrebbe essere diversi da quello che sono, anche se ciascuno di essi (“verità di fatto”) si verifica perché, evidentemente, vi deve essere stata una “ragion sufficiente” affinché si verificasse.
Come si nota subito, Leibniz reintroduce, in un certo senso, le cause finali (sotto il termine “ragione sufficiente”), cosa che non presenta particolari problemi, se si considerano le scelte effettuate da Dio (che sceglie sempre per il meglio) o dall’uomo (che sceglie sempre per ciò che gli sembra meglio, come diceva anche Socrate); qualche problema potrebbe sorgere per gli animali e, ancora di più, per le piante (nel caso degli animali, tuttavia, possiamo osservarli in situazioni in cui essi sembrano “scegliere” o meno di aggirare, p.e., un ostacolo, in modo indeterminabile a priori); decisamente più difficile intendere come le cose inanimate potrebbero “scegliere” di fare una cosa piuttosto che un’altra secondo il criterio del meglio.
La soluzione è offerta dalla reintroduzione, apparentemente “retrograda”, dell’ipotesi di origine neoplatonica (ancora viva in autori come Giordano Bruno e Keplero) che, in un certo senso, tutto sia “vivo”, “animato”. Leibniz, tuttavia, adatta questa ipotesi alle scoperte della scienza moderna e se ne serve per rendere conto del fenomeno altrimenti inesplicabile dell’attrazione a distanza tra corpi apparentemente inanimati (e anche dei fenomeni che noi oggi definiamo di adesione e coesione molecolare, come la capillarità, per quanto riguarda i corpi a contatto reciproco).
Leibniz fa una serie di considerazioni come le seguenti.
Un sasso non è cosciente delle proprie “percezioni” ed “appetiti”. Cionondimeno non può esserne del tutto privo, come attesta l’attrazione verso il basso che lo contraddistingue.
Analogamente, l’albero germoglia in un certo periodo dell’anno perché deve vivere attraverso la fotosintesi clorofilliana, che è la causa efficiente della sua vita (ciò che meccanicamente lo fa vivere). Ma perché spunta la foglia? Affinché avvenga la fotosintesi, come se l’ albero “sapesse” che fuori c’è il sole.
Tutto ciò che fa la pianta appare, dunque, avere uno scopo. Tutto ciò che fa l’ uomo ha uno scopo. Ma anche la disposizione dei suoi organi interni, che pure egli non ha mai voluto, sembra seguire un “disegno”. Quale la causa di tutto questo apparente finalismo?
Secondo Leibniz è, dunque, utile (re)introdurre nella spiegazione dei comportamenti tanto degli uomini, quanto di animali, piante e, perfino, creature minerali le cause finali, a cui già ricorreva Aristotele. La sola scienza galileiana non riuscirebbe a spiegare questo genere di fatti.
Non c’è difficoltà ad ammettere che un animale abbia percezioni e istinti, ovvero la forma che l’appetitus assume nei viventi (antica nozione di origine stoica). Ma la tesi di Leibniz è che tutti i corpi devono in qualche modo essere capaci di appetito e percezione (anche quando si tratta di corpi appartenenti al regno minerale, ossia apparentemente inanimati). Ogni corpo risente dell’attrazione di un altro corpo a causa di “piccole percezioni” (che noi dobbiamo postulare, cioè presup-porre, ipo-tizzare, porre sotto come fondamento) e dell’appetito (desiderio). Ma un essere che presenta queste caratteristiche è vivente. Dunque, come già voleva Giordano Bruno, tutto necessariamente vive, per il fatto stesso di esercitare una forza fisica, come le forze d’urto e di attrazione gravitazionale.
Per spiegare tali tratti fisici bisogna presupporre l’esistenza di appetiti e percezioni impercettibili ma comunque necessariamente esistenti. L’energia (che Leibniz chiama forza viva, cioè forza per spostamento, mv2) si attribuisce necessariamente a qualcosa di vivo (l’anima nella tradizione platonico-aristotelica). Ricordiamo che Leibniz dimostra, contro Cartesio, che è l’energia, e non la quantità di moto complessiva, di un sistema, a rimanere costante nel tempo.
Ora, ciò che ha appetito e percezione ed esercita forza non può essere costituto semplicemente da massa. Ciò che è dotato di forza deve essere a-spaziale e puntiforme perché deve agire nello spazio, mentre l’estensione cartesiana è caratterizzata dall’inerzia, che è l’opposto della forza.
Devono, dunque, esistere entità che non possono avere dimensioni, per quanto infinitesimali, ma devono essere meta-fisiche, inestese, ossia prive di dimensione.
Queste “anime” puntiformi che pervadono l’universo Leibniz le chiama monadi ( (o “punti metafisici” o “centri di forza” o “atomi inestesi”).
Leibniz suppone, dunque, che la materia sia, in realtà, “piena” di punti metafisici animati, ciascuno dei quali sarebbe dotato di “percezioni” e “appetiti”, che giungono a livello di piena coscienza solo nella “monade” che costituisce l’anima umana.
Se l’universo è infinito e le monadi pure, esse sono, però, tutte diverse tra loro. Le monadi, che non possono essere nate naturalmente essendo punti metafisici, non possono neppure morire naturalmente: sono folgorazioni di Dio (che, così come le ha create, può sempre anche distruggerle), ovvero sostanze eterne ed indistruttibili. Le monadi, come l’energia per la fisica, si trasformano ma rimangono costanti come quantità: solo Dio, come detto, può crearle e distruggerle.
Attraverso la sua monadologia Leibniz cerca di spiegare sia il comportamento dei viventi, sia quello della materia inanimata.
Avendo, ad esempio, due sfere lo stesso volume, ma densità diversa, la loro energia cinetica o forza viva sarà diversa: la più densa è anche la più energetica perché quanto maggiore è la massa (volume per densità) tanto sarà maggiore la sua forza viva (la somma degli appetiti di ogni singola monade che compone la sfera).
Una pianta, che pure, come un sasso, tende verso il basso, “desidera” anche, grazie a monadi più complesse di quelle che costituiscono i sassi, la luce del Sole e si protende nella direzione dei raggi luminosi allo scopo di effettuare la fotosintesi clorofilliana.
Uno spadaccino, guidato dalla monade spirituale che coincide con la sua mente, pur non potendo, ovviamente, prescindere dall’attrazione gravitazionale, “gioca” con le sue complesse percezioni sensoriali (di cui, a differenza di sassi e piante, ha “coscienza” o “appercezione”) per conseguire il proprio scopo marziale (ferire l’avversario, ad esempio), ossia ciò che desidera o vuole.
Come mai la Luna “sa” dove è la terra? Tutto ciò è spiegato di nuovo dai punti forza (o monadi).
Boscovich, un allievo di Leibniz, riuscirà a spiegare perfino la ragione per la quale, secondo la legge di Newton, la forza esercitata su ciascun punto è inversamente proporzionale al quadrato della distanza tra questo punto e quelli da cui è attratto: se immaginiamo che ciascun punto percepisca l’immagine degli altri su uno “schermo” bidimensionale, infatti, al raddoppiare della distanza la superficie percepita si riduce di tre quarti. Si noti che Newton propendeva per una spiegazione meccanicistica (analoga alla teoria dei vortici di Cartesio) della legge di gravitazione che prende il suo nome, ma, interrogato su tale interpretazione, non riuscendo a darne ragione, si trincerava dietro il suo celebre “boh” (in latino: “hypotheses non fingo”,“non faccio ipotesi”).
La forza è concepita come un’entità reale, fisica (non una grandezza puramente matematica, derivata da massa e accelerazione, come in Cartesio e, in parte, perfino in Newton), donde la nascita della scienza che ancor oggi chiamiamo “dinamica“, associata a punti privi di dimensioni (le monadi, all’intero delle quali essa si manifesta come appetito e percezione, quasi che l’appetito costituisse il modulo o valore del vettore che la esprime e la percezione il verso e la direzione), mentre lo spazio è vuoto.
L’ipotesi di Leibniz è, insomma, che per spiegare anche gli avvenimenti fisici bisogna ricorrere all’ipotesi di un desiderio infinitesimale connesso alle percezioni dei punti forza, ossia all’ipotesi di una certa vita nelle cose. Ogni monade è una ricapitolazione dell’universo da un particolare punto di vista (questo punto di vista è sempre diverso l’uno dall’altro) e tutte le monadi sono l’universo intero.
Le monadi, come è chiaro dagli esempi fatti, non sono tutte uguali: variano da quelle più semplici ad altre più complesse. Per esempio quelle che compongono i sassi sono molto più semplici di quelle che compongono il cuore o il cervello di un uomo. Infatti le monadi delle rocce hanno appetito solo per quelle della Terra mentre le monadi del cuore devono assolvere compiti più specifici e difficili. Al vertice della gerarchia delle monadi vi sono le anime umane o spiriti.
Le stesse monadi del corpo animale non sono tutte uguali: alcune sono più intelligenti di altre (ordine gerarchico) fino alla più nobile, detta “egemone”, come quella in cui risiede la coscienza o anima dell’uomo.
Fin qui questa teoria di Leibniz, pur abbastanza complessa, può apparire abbastanza convincente, nella misura in cui riesce ad esempio a rendere conto dell’azione a distanza tra corpi apparentemente inanimati (come nel caso delle forze gravitazionali o magnetiche). In sostanza è come se Leibniz distinguesse tra massa inerziale, passiva, impenetrabile, e massa gravitazionale, viva, attiva (una forza che deriva dalla sommatoria degli “appetiti” delle monadi, che “riempiono” la massa inerziale, intese come punti metafisici più o meno fitti, a seconda della “densità” del corpo dotato di quella determinata massa).
Ciò che ha suscitato forti perplessità è quella che possiamo chiamare la “svolta idealistica” di Leibniz. Convinto che le monadi, in quanto entità attive e puntiformi, non possano realmente esercitare azioni reciproche (nel senso che ciascuna di esse può solo essere attiva, ma non mai subire l’azione delle altre), Leibniz ne conclude che esse siano “prive di porte e di finestre”. Il “gioco” degli appetiti e delle percezioni si svolge, cioè, tutto internamente a ciascuna monade, come se il mondo fosse solo un “film” proiettato all’interno della sala cinematografica costituita da ciascuna monade.
Facciamo un esempio riferito alle monadi superiori, cioè agli spiriti umani. Vedo che Giovanni mi si avvicina e mi stringe la mano. Questa visione deriva da un’iniziale percezione di Giovanni e dal mio desiderio, magari inconscio, che mi si avvicini e faccia quello che fa. Insomma tutto si svolge come in un sogno. Giovanni, a sua volta, mi vede e desidera avvicinarsi a stringermi la mano. Anche lui percepisce l’evento all’interno del suo spirito. Poiché siamo entrambi dotati di libero arbitrio, perché non si potrebbe dare il caso che nel “mio mondo” mentale Giovanni se ne vada, mentre nel suo egli mi si avvicini? Si avrebbe un’incoerenza! Ma sappiamo che Dio crea il migliore dei mondi possibili. Primo requisito di tale mondo è la perfetta sincronizzazione delle esperienze interiori di ciascuna monade. Leibniz fa il paragone di un negozio di orologi: un bravo orologiaio carica tutti gli orologi (precedentemente costruiti in modo perfetto) in modo tale che siano sempre sincronizzati, indichino tutti sempre la stessa ora, anche se non comunicano in alcun modo gli uni con gli altri.
La teoria dell’harmonia praestabilita non è altro che questa idea: l’idea che tutti gli eventi dell’universo, in quanto percepiti nelle infinite prospettive delle infinite monadi, siano coerenti tra loro (cioè che le percezioni delle monadi siano perfettamente sincronizzate, come le immagini in 3D che appaiono sul monitor di un videogame multiplayer al quale giocassero un gran numero di giocatori in diverse parti del mondo) perché fin dall’inizio Dio ha scelto (prestabilito) un universo contraddistinto da tale interna coerenza (insomma ha programmato il gioco in modo sopraffino).
Come giudicare questa bizzarra teoria di Leibniz? Se non ci lasciamo condizionare dalla terminologia un po’ arcaica e strana (di “monade” avevano parlato Plotino e Giordano Bruno, anche se in un senso un po’ diverso), possiamo ammirare come Leibniz riesca a conciliare, oltre che libero arbitrio e predestinazione divina, anche meccanicismo moderno e finalismo classico, antica dottrina dell’anima (che assumerà presto la forma della moderna teoria del campo) e principio di inerzia, principio di conservazione dell’energia (che anticipa, in un certo senso, la risoluzione della materia in energia secondo la celebre equazione di Einstein) e principio di conservazione della materia. Da notare, infine, che Leibniz considera spazio e tempo come interni alla percezione di ciascuno monade, ossia grandezze “relative” al rapporto tra le monadi piuttosto che grandezze assolute, anticipando, anche sotto questo profilo, moderne vedute relativistiche. Per tacere della sue fondamentali scoperte in campo logico (teoria dei mondi possibili) e matematico (calcolo infinitesimale o differenziale).
Sulla filosofia e sulla figura di Leibniz in generale cfr. questa puntata del programma Zettel della Rai con Piergiorgio Odifreddi.
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