Per comprendere meglio il significato della rivoluzione scientifica, scaturita dalla rivoluzione astronomica del Cinque-Seicento, è opportuno richiamare, ora, la fisica aristotelica, che pretende di giustificare filosoficamente il geocentrismo e a cui la nuova fisica si contrappone. Tale Fisica discende dalla Metafisica di Aristotele (l’opera che tratta p.e. dei 4 tipi di cause, dell’essenza e delle altre categorie, di atto e potenza ecc.).
La Fisica di Aristotele (la prima opera ad avere questo titolo, che significa semplicemente “scienza della natura [physis]”) tratta soprattutto dei moti, celesti e terrestri.
Per quanto riguarda i moti celesti Aristotele fa suo il modello dei 55 cieli di Eudosso (a cui aggiunge le sfere sublunari di fuoco, aria, acqua e terra), ma lo interpreta fisicamente, non matematicamente. Ciò significa che per Aristotele non si tratta di una semplice ipotesi, volta a “salvare i fenomeni”, ma di una teoria “vera”, che descriverebbe gli effettivi principi e le effettive cause che regolano i moti celesti. Aristotele, infatti, a differenza di Platone, crede che i principi possano essere dimostrati “per induzione” o “per assurdo”, senza necessariamente cadere nelle antinomie in cui incorre la dialettica in senso platonico.
Va, soprattutto, tenuto conto dei seguenti tratti della teoria aristotelica:
- geocentrismo
- finitezza dell’universo
- distinzione tra mondo celeste e mondo sublunare (obbedirebbero a leggi naturali diverse)
- teoria del moto (moti naturali sarebbero quelli circolari degli astri e quello verticale di caduta dei gravi, mentre il “nostro” moto rettilineo uniforme richiederebbe un motore vivente e sarebbe pertanto un moto violento)
- misconoscimento della forza di gravità (Aristotele conosce solo il peso come proprietà naturale dei corpi)
- negazione del vuoto
- sopravvalutazione dei dati qualitativi rispetto a quelli quantitativi (p.e.: per Aristotele “i corpi pesanti cadono” sarebbe una “legge fisica” che può essere tranquillamente enunciata senza “misurare” le accelerazioni e le forze in gioco)
- adozione delle cause finali (scopi, funzioni) nella spiegazione dei fenomeni
Si tenga conto anche del fatto che la fisica di Aristotele può essere considerata (come diversi esperimenti psicologici hanno confermato) molto vicina alla “fisica ingenua” di un bambino o di una persona che ignori le scoperte della scienza moderna. Aristotele, infatti, prende molto sul serio la testimonianza dei sensi (che ci dice, ad esempio, che la Terra non si muove), mentre, a differenza di Pitagora e Platone, non dà la dovuta importanza alle matematiche per lo studio della natura, soprattutto terrestre (asserendo che il mondo sublunare è caotico, soggetto al divenire, privo di moti regolari, inadatto a un’interpretazione matematica).
La teoria di Aristotele è sembrata soddisfacente per quasi duemila anni, anche se nel mondo antico, prima di affermarsi, dovette “combattere” a lungo con teorie rivali, comprese teorie eliocentriche, come quella di Aristarco e (forse) Archimede, per poi affermarsi definitivamente nel Basso Medioevo cristiano. Essa appare compatibile con la Bibbia e l’esperienza ingenua.
Tuttavia essa presenta alcuni problemi.
Per quanto riguarda la teoria del cielo, il modello di Eudosso, che Aristotele prende come “vero”, non rende ragione (non salva il fenomeno) della variazione di luminosità dei pianeti. Come sappiamo, questo fenomeno può essere spiegato, oltre che, ovviamente, dal modello eliocentrico di Aristarco-Copernico, dal modello tolemaico, grazie agli epicicli.
Il modello tolemaico, tuttavia, presuppone il vuoto, che Aristotele nega. Infatti, se il vuoto esistesse, i corpi celesti si muoverebbero a velocità infinita, cioè istantanea, dato che per Aristotele la velocità di un corpo è direttamente proporzionale alla forza che lo muove e inversamente proporzionale alla resistenza che questo corpo incontra. Ma ciò non si verifica. Dunque, nei cieli vi dev’essere della materia sottile, l’etere o quint’essenza, che “frena”, per così dire, il moto altrimenti istantaneo dei corpi. Ma, se vi è questo “etere” (sorta di “cristallo” perfetto), non possiamo più accettare gli epicicli tolemaici (come potrebbe la sfera dell’epiciclo, sui cui è collocato il determinato pianeta, ruotare attraverso la sfera, altrettanto “solida”, del “deferente”?). Dobbiamo tornare ai 55 cieli di Eudosso, che, tuttavia, non spiegano la variazione di luminosità dei pianeti…
Per quanto riguarda la teoria dei moti sublunari, la spiegazione aristotelica del moto dei gravi lanciati verso l’alto o che, comunque, si staccano dal proprio motore risulta insoddisfacente. La teoria del moto di Aristotele, infatti, richiede che ogni movimento dipenda da un motore (essenzialmente un vivente, contraddistinto da un’anima semovente), dunque dall’azione di una forza motrice, direttamente applicata al mobile, e tale da esercitare o trazione o spinta (un esempio può essere l’aratro spinto da una coppia di buoi). Secondo Aristotele il grave, quando abbandona il motore, conserverebbe lo stato di moto, per un certo tratto, a causa dell’azione dell’aria che circonda il grave stesso e che fungerebbe da propulsore. Tale teoria apparve talmente inverosimile che fin dai tempi antichi se ne cercarono di migliori. La più “gettonata” fu per secoli la teoria dell’impetus (accennata da Giovanni Filopono nel mondo antico e ripresa da Buridano, Cusano e Giordano Bruno), secondo la quale il motore trasmetterebbe al corpo mosso un “impeto”, ossia la stessa forza motrice che, tuttavia, nel corso del moto residuo, tenderebbe a esaurirsi.
La soluzione definitiva dei problemi del moto sarà quella offerta del moderno “principio di inerzia“, anticipato da Erone in età greco-romana, ripreso pari pari da Galileo ed enunciato in modo chiaro solo da Cartesio e Newton.
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