In Niccolò Cusano e in Giordano Bruno la dottrina dell’infinità dell’universo ha implicazioni filosofiche che eccedono ampiamente il solo ambito astronomico e scientifico, contribuendo a caratterizzare la prospettiva filosofica inaugurata dal Rinascimento, continuata in età barocca, e propria della civiltà moderna.
Ricordiamo l’argomento puramente filosofico attraverso il quale Cusano, nella Dotta ignoranza e altrove, sostiene l’infinità dell’universo: se Dio è onnipotente è impossibile che l’universo da Lui creato, per quanto grande, sia finito (di diametro – poniamo – x), perché in questo caso si potrebbe sempre immaginare un Dio più potente di Dio capace di creare un universo più grande (diciamo di diametro: x + n); ma non potendoci essere un Dio più potente di Dio, che è onnipotente, l’universo, la Sua creatura, è necessariamente infinito.
Ma se l’universo è infinito, che cosa ne consegue? Dio (a sua volta infinito) non è “al di sopra” dei cieli, come sembra suggerire la Bibbia e afferma esplicitamente Aristotele (sulla base del quale Tommaso d’Aquino e Dante Lo collocano nell’Empireo, sopra il cielo dello stelle fisse), ma ovunque (come una sfera di raggio infinito, la cui circonferenza e il cui centro coincidono e sono ovunque), così come ogni “parte” dell’universo, essendo a sua volta infinita (se divido l’infinito in parti ottengo sempre “infinito”), è contenuta in ogni altra.
Cusano, in particolare, parla di un’implicatio dell’universo in Dio e di un’explicatio di Dio nell’universo, in ciascun punto del quale Dio sarebbe anche simultaneamente contratto (contractio), nonché di una complicatio di ogni cosa in ogni cosa.
Ciò ha una serie di conseguenze.
Innanzitutto “fonda” e giustifica magia, astrologia e alchimia (scienze a cui si dedicò ad esempio lo stesso Bruno), poiché implica che ogni punto del cosmo sia in rapporto con ogni altro secondo relazioni (intuite già da stoici e neoplatonici) di simpatia e antipatia (per cui, ad esempio, certe azioni compiute in un certo luogo in un certo modo potrebbero “magicamente” influenzarne altre, certe configurazioni astrali potrebbero “influenzare” certi eventi terrestri o, infine, separando e rimescolando certi elementi o composti si potrebbero generare nuove sostanze).
Al riguardo può essere curioso ricordare il legame “triangolare” che il mago, medico e alchimista Teofrasto Bombasto Paracelso istituiva tra il ferro, il pianeta Marte e l’attività militare. Ritenendo che l’influsso di Marte (dio della guerra per Greci e Romani) favorisse la vittoria in guerra e che l’elemento del ferro fosse in “simpatia” col pianeta, Paracelso somministrava preparati a base di ferro ai soldati che mostravano segni di particolare spossatezza, conseguendo – a quanto pare – buoni risultati (questi soldati si ristabilivano e potevano tornare a combattere). Oggi si può interpretare questo risultato in modo un po’ diverso: probabilmente i soldati in questione erano affetti da anemia e la somministrazione di ferro compensava la carenza, dovuta alla malattia, di questo metallo nel sangue di questi uomini d’arme.
Sebbene tutto ciò sia considerato oggi pseudoscientifico (nonostante i risultati raggiunti da Paracelso e da altri: come ci insegna l’epistemologia contemporanea, Popper in particolare, non ogni teoria verificata empiricamente nelle sue previsioni è necessariamente vera), non bisogna dimenticare che i principali protagonisti della rivoluzione scientifica si dedicavano a stilare oroscopi per principi e alti prelati (e alcuni di loro verosimilmente credevano anche davvero nell’astrologia e nella magia, come Bruno); inoltre la dottrina magico-astrologica della simpatia cosmica è alla radice, se ci riflettiamo, della stessa dottrina di Newton della gravitazione universale (secondo la quale ogni particella di materia dell’universo è legata ad ogni altra da una forza di attrazione reciproca proporzionale alle rispettive masse e inversamente proporzionale al quadrato delle rispettive distanze) e, più in generale, delle moderne teorie dei “campi” gravitazionale, elettromagnetico, quantistico (cfr. nozione di entanglement quantistico) ecc.
Sul rapporto sorgivo tra magia e scienza moderna cfr. questa puntata di Passato e Presente su Rai Storia.
A proposito dell’alchimia in particolare si può ricordare l’inesausta ricerca della “pietra filosofale” che sarebbe stata in grado di trasformare il piombo in oro e di donarci l’elisir di lunga vita (come panacea, o medicina di tutti i mali) e l’onniscienza.
È interessante osservare che il motto degli alchimisti “solve e coagula“, cioè “separa e riunisci”, sembra anticipare il metodo scientifico nella forma teorizzata da Cartesio nel Seicento, in particolare i due momenti dell’analsi (di un problema nelle sue parti costituenti) e della sintesi (cioè la ricombinazione della parti in tutto artificiale conoscibile). La differenza, tuttavia, messa in luce p.e. dagli studi di Carl Gustav Jung, psicologo del Novecento che si è molto occupato di alchimia, è che le formule alchemiche, anche se si riferiscono a processi materiali (e sotto questo profilo anticipano i procedimenti della chimica), implicano sempre una corrispondenza a processi spirituali, di cui i processi materiali sono una rappresentazione simbolica (si veda l’esempio sopra riportato del rapporto, in Paracelso, tra il ferro, Marte e il coraggio del combattente). Ad esempio la purificazione degli elementi dello zolfo e del mercurio per produrre oro dal piombo è un processo alchemico che richiede e, insieme, comporta la purificazione dell’anima di colui che in tal modo è alla ricerca della pietra filosofale.
Inoltre, se ogni cosa è contenuta in ogni altra e Dio è in ogni cosa, in ciascuno di noi c’è Dio, noi stessi lo “siamo”, in un certo senso, e quando operiamo (cfr. l’esaltazione dell’operosità umana in Bruno e la sua critica al cristianesimo biblico e al principio di autorità) o conosciamo potremmo non essere da meno di Lui (antropocentrismo rinascimentale, centralità del “soggetto” nella filosofia moderna).
Si noti che questa centralità del soggetto è rivelata anche dalla prospettiva in pittura, scoperta tipicamente rinascimentale. La prospettiva, innanzitutto, presuppone un universo infinito, come quello intuito da Cusano (altrimenti non vi sarebbe un punto di fuga della linee prospettiche, ma queste, anche se a grande distanza, dovrebbero terminare incontrando il “confine” del mondo, senza convergere in un punto). Ma, se chi guarda un quadro rinascimentale, qualunque cosa vi sia rappresentata, guarda un universo infinito, “sa” anche, magari inconsciamente, di essere al “centro” dell’universo (perché ogni punto di una sfera infinita è sia centro sia periferia della sfera). Infine, come hanno ampiamente mostrato gli studi di iconologi come Erwin Panofsky, la prospettiva va considerata, per questa ragioni, una forma simbolica, non meno della forma p.e. dell’icona bizantina, contraddistinta da immagini ieratiche su fondo oro. In entrambi i casi la tecnica pittorica suggerisce una “visione del mondo”. Sarebbe, però, un errore considerate “teologica” soltanto la visione incorporata nell’arte bizantina, dal momento che anche l’arte rinascimentale, celebrando la bellezza e l’armonia del mondo terrestre e immergendolo nell’infinito, lo idealizza e, in un certo senso, lo divinizza (si pensi ai quadri allegorici di Sandro Botticelli, dedicati alla primavera o a Venere che esce dalle acque, che non hanno alcunché di “realistico”). Soltanto: l’arte rinascimentale, perfettamente in linea con la filosofia dell’epoca, incorpora una visione “panteistica”, che suggerisce di riconoscere il divino non in un Principio fuori o al di sopra del mondo (trascendente), come suggerito dal fondo oro dell’arte bizantina, ma nella stessa Natura divinizzata, nella quale l’occhio dell’osservatore, in qualche modo, vede se stesso.
N.B. Tale visione prospettivistica è tutt’altro che inattuale, come si potrebbe credere, ma anzi costituisce il fondamento di un nuovo paradigma (un ri-nascimento) nell’interpretazione della natura, a partire da una radicale messa in discussione dello spaziotempo isotropo di matrice cartesiana che ha innervato per secoli la rappresentazione scientifica (meccanicistica) del mondo.
La stessa Natura, infatti, se “tutto è in tutto”, risulta “neopaganamente” divinizzata: in Giordano Bruno amare la Natura è amare Dio; donde l’elogio dell’amore sensuale identificato con l’amore mistico – cfr. il mito di Atteone e Diana (magnificamente rappresentato p.e. nel parco della Reggia borbonica di Caserta): desiderando il divino (rappresentato dalla dea Diana, nuda, al bagno) il cacciatore, mosso da “eroico furore”, finisce divorato dai suo stessi levrieri, che rappresentano i suoi stessi desideri in ultima analisi rivolti a se stesso – e il disprezzo per l’ascetismo monastico di matrice medioevale. Conoscere la Natura è conoscere Dio (cioè noi stessi). Di qui il “naturalismo mistico” di Bruno, che implica l’animazione universale (tutto è vivo e divino, come per i pre-socratici), la vita extraterrestre e una serie di dottrine, ben oltre l’eliocentrismo copernicano, ricondotte alla “filosofia perenne” (risalente, come sappiamo, a Ermes Trismegisto, Zoroastro ecc.), che fruttarono a Bruno la condanna a morte per eresia.
Cfr. questa breve sintesi video o questa silloge di citazioni corredata di immagini evocative. Su Bruno nel contesto della sua epoca, segnata da platonismo, magia, astrologia ecc., cfr. questo video con Ciliberti.
Cfr. anche questo intervento di Carlo Sini.
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