Come si passa dal “cogito” al superamento del dubbio iperbolico e alla giustificazione di tutto l’edificio del nuovo sapere (fisico-matematico) a cui Cartesio aderisce e che egli stesso, come scienziato, contribuisce a sviluppare?
In effetti, il rischio che il pensiero moderno corre, da Cartesio in poi, è quello di sfociare in una forma di radicale solipsismo (la dottrina secondo la quale “solo io esisto”, che ciascuno di noi può enunciare per se stesso), dottrina tanto indimostrabile, quanto inconfutabile. L’esistenza del mondo esterno e degli altri potrebbe essere frutto dell’inganno del demone malvagio che mi farebbe credere reale quello che sarebbe soltanto un sogno.
La soluzione di Cartesio di questo problema è la seguente. Poiché tra le cose che penso c’è anche Dio, grazie alla prova ontologica (e ad altre due simili) posso dimostrare che anche Dio (il Principio) esiste.
La prova ontologica, nella versione classica di Anselmo d’Aosta (XI sec. d. C.), suona così: poiché Dio è qualcosa di cui non si può pensare alcunché di maggiore (cuius magis cogitare nequit) egli deve esistere, perché, se gli togliessi l’esistenza, lo renderei minore di come è pensato.
Ora, poiché Dio è, tra l’altro, infinitamente buono, Egli né mi può ingannare, né può permettere che io venga ingannato. Ciò esclude che esista il demone ingannatore e mi garantisce che tutto quello che percepisco come “chiaro e distinto” (ovvero ciò su cui non si esercita il dubbio metodico, ma solo quello iperbolico) anche esiste (i principi fondamentali delle scienze in quanto idee innate).
N. B. Arnauld, Gassendi e molti altri (fino a Kant) avanzano varie obiezioni al tentativo cartesiano di fondare il sapere sul “cogito”. Queste si possono ridurre al seguente ragionamento:
fondare il criterio dell’evidenza (p.e. dei principi fisici) sull’evidenza stessa dell’esistenza di Dio, che si ricaverebbe da uno sviluppo del “cogito”, appare un circolo vizioso (quella stessa evidenza di cui devo dimostrare che è un criterio valido di conoscenza la utilizzo per procedere nella dimostrazione stessa);