Kant, nella sua terza grande opera, la Critica del Giudizio del 1790, introduce alcune nozioni fondamentali della cultura romantica.
La Critica della ragion pura aveva giustificato il sapere scientifico, mediante la rivoluzione copernicana e l’introduzione delle categorie dell’intelletto.
Ma questo sapere appariva cieco non solo nei confronti della libertà morale dell’uomo (a cui è dedicata la Critica della ragion pratica), ma anche verso il misterioso finalismo che sembra pervadere (anche se, secondo Kant, non è possibile dimostrarlo), la natura vivente.
Bisogna ricordare che Kant, come poi Schelling e Hegel, ancora non dispone del potente strumento esplicativo ereditato dalla biologia del XX secolo, ossia la teoria della selezione naturale di Darwin. A questi autori, come a Platone e Aristotele, sembra impossibile spiegare la meravigliosa armonia dei viventi e delle loro parti senza ipotizzare un progetto o di un artefice divino o della Natura stessa concepita come vivente e capace di organizzare se stessa.
D’altra parte l’azione misteriosa di Dio e della Natura stessa, in quanto intenzionale, rivolta a scopi (p.e. il bene dell’uomo, la conservazione delle specie ecc.), non può essere oggetto di giudizio determinante, ossia di un giudizio dato secondo le categorie dell’intelletto, perché la finalità esula dal campo dei fenomeni.
Essa, tuttavia, può essere oggetto di un giudizio riflettente (ossia problematico, aperto, non definitivo), che, in particolare, assume la denominazone di giudizio teleologico (ossia giudizio sul fine [in greco: tèlos] delle cose).
Questo giudizio viene dato da una particolare facoltà (che non coincide con l’intelletto): la facoltà del giudizio (o, semplicemente, Giudizio, come quando si dice, ad esempio, “Tizio non ha giudizio, è un matto”). Questa facoltà interviene quasi sempre nella vita umana, ossia quando non disponiamo di tutti i dati per poter esprimere un giudizio oggettivo, scientifico, determinante, uguale per tutti. All’esercizio del Giudizio, in questo senso, si accompagna sempre un sentimento (Gefühl).
Kant esamina in particolare l’esercizio di questo tipo di giudizio (in cui interviene, dunque, una componente discrezionale, soggettiva), oltre che nel campo biologico e delle scienze della terra, in quello artistico. Lì noi esercitiamo il giudizio estetico che può riguardare il bello (e allora si tratta di “gusto”) o il sublime.
Il bello è, essenzialmente, qualcosa per cui non proviamo interesse (altrimenti sarebbe semplicemente piacevole e desiderato come tale), ma a cui riconosciamo una finalità intrinseca (finalità senza scopo), come a un organismo vivente, perfettamente armonioso nelle sue parti. Ci sembra che le parti di una cosa bella (necessità apparente) siano tutte necessarie (se ne togliamo anche una sola, la bellezza si dissipa), eppure, a differenza che in un teorema matematico, non sapremmo dire perché. Infine, chi trova che qualcosa è bello sente (anche erroneamente) che tutti dovrebbero provare lo stesso sentimento (universalità pretesa), proprio perché si tratta di qualcosa che viene avvertito bello con distacco.
Attraverso il bello, dunque, Kant ci introduce in una forma di conoscenza da cui la scienza esatta è esclusa. I romantici, con Kant, considereranno il “sentimento” l’organo fondamentale che ci consente di penetrare questa sfera di realtà (che supera i fenomeni e quasi tocca la “cosa in sé”).
Kant conosce anche un altro oggetto del giudizio estetico: il sublime. Si tratta di qualcosa di enorme, infinito, che ci affascina e schiaccia insieme, sia che sia statico come un oceano o un cielo stellato (sublime matematico), sia che sia in movimento come un cielo tempestoso o un eruzione vulcanica (sublime dinamico). In ultima analisi, però, quel soggetto che appare schiacciato dal fenomeno che gli appare sublime è anche colui senza il quale il sublime non esisterebbe. Il soggetto ne viene quindi altrettato schiacciato che esaltato. Nell’idea di sublime si esprime la passione tipicamente romantica per l’infinito anche se Kant non sembra riuscire a giustificare fino in fondo il senso di questa passione.
Nella sua terza Critica, dunque, Kant tenta di conciliare le immagini dell’uomo e del mondo che risultavano dalle sue due prime Critiche. Se da un lato tutto gli appare meccanicamente ordinato senza alcun fine e, dall’altro lato, l’uomo gli appare la sola creatura che può credere di disporre di quella libertà che è presupposta nel suo senso del dovere, grazie alla facoltà del Giudizio (che, tuttavia, si estrinseca in giudizi riflettenti e non determinanti, cioè soggettivi, non scientifici) tutto, tanto l’uomo quanto il mondo, gli appare ora organizzato finalisticamente, dominato da una causalità circolare, causalità libera e indipendente, tipica del vivente, che, spezzando l’altrimenti inevitabile regresso all’infinito, spiega la parte sulla base del tutto e viceversa e interpreta (pur senza poterlo scientificamente dimostare) gli effetti come cause (finali, cfr. l’es. della fotosintesi clorifilliana delle piante) delle loro cause meccaniche.
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