Se Kant ha introdotto la distinzione tra il mondo come appare a noi (fenomeno) e le cose come sono (cosa in sé), la compiuta “soggettivazione” del mondo che caratterizza il romanticismo richiede un passaggio filosofico ulteriore: l’abolizione della cosa in sé.
Per Kant, che, sotto questo profilo, rimane un realista, “là fuori” esiste qualcosa di “reale”, che non dipende da noi, cieco davanti ai nostri sogni, che si impone irresistibilmente (al punto che, come sappiamo, non possiamo percepire se non quello che percepiamo e non possiamo arbitrariamente sostituire le nostre percezioni con le nostre fantasie). Anche se non conosciamo che cosa sia veramente questa “cosa in sé”, la dobbiamo presupporre, ne dipendiamo.
L’idealismo nasce nel momento in cui la “cosa in sé” viene abolita, mostrandone la duplice contraddittorietà.
- In primo luogo la cosa in sé ha senso, in Kant, solo come “causa” delle nostre percezioni. Ma Kant stesso dimostra che la categoria di “causa-effetto” vale solo per i fenomeni. Dunque la “cosa in sé” non può essere causa di alcunché. I fenomeni devono potersi spiegare da soli. Ciascuno è effetto di quello che precede e causa di quello che segue. La cosa in sé, anche se esistesse, sarebbe inutile.
- In secondo luogo, la “cosa in sé” altro non è che il concetto di quello che sarebbe fuori della nostra mente. Ma, in quanto è un “concetto”, essa stessa è nella nostra mente (infatti Kant stesso la chiama anche “noumeno”, cioè oggetto dell’intelligenza). Al di fuori di noumeni e fenomeni per noi non c’è alcunché. Qualunque cosa postulassimo come esterna a noi, saremmo sempre noi a postularla, dunque sarebbe un oggetto della nostra mente.
La conclusione è che noi siamo tutto e niente esiste fuori di noi.
- Noi chi?
Una prima risposta è quella che ciascuno di noi potrebbe darsi. Ciascuno (tu che leggi queste righe, ad esempio) potrebbe essere tutta la realtà e gli altri potrebbero non essere altro che “ombre” nel suo sogno ad occhi aperti. Questa posizione estrema, inconfutabile ma anche indimostrabile, va sotto il nome di solipsismo.
Gli idealisti, invece, ricollegandosi alla tradizione pitagorico-platonica, pensano che “noi” che siamo “tutto ciò che è” siamo lo Spirito o l’Assoluto (o il Principio), inteso però non come un Dio trascendente, ma come l’umanità stessa che agisce nella Storia. La Natura è il fenomeno che balena allo Spirito ma non è che un suo prodotto, dal momento che la cosa in sé non esiste.
Senza umanità, niente universo. L’universo, senza Uomo, non sarebbe cosciente di se stesso, dunque non esisterebbe. L’universo che noi immaginiamo disabitato, senza umanità, è appunto il frutto della nostra immaginazione.
Questa dottrina si è espressa nel modo più semplice e radicale nella filosofia di Fichte, che si considera il vero erede di Kant.
Fichte considera sostanzialmente valida l’intera filosofia di Kant (la scienza dei fenomeni e la teoria morale), con questo emendamento: la cosa in sé non esiste.
Che cosa sono allora i fenomeni? Sono una sorta di “sogno” dell’io, del soggetto. Fichte chiama questo sogno Non-Io. Si tratterebbe di ciò che l’Io infinito e universale “pone fuori di sé” per individualizzarsi, per “rinascere” come ciascuno di noi, circondato, in uno “spaziotempo” illusorio, dagli altri e dalla natura. Questa posizione originaria avviene inconsciamente. Questo spiega perché i fenomeni ci sembrano esterni e non ci appaiono frutto della nostra immaginazione (né possiamo cambiarli a volontà). In fondo anche quando sognamo non ci accorgiamo di sognare.
L’immaginazione produttiva, da cui scaturisce il mondo dei fenomeni e che agisce inconsciamente, corrisponde all’attività generatrice dell’Uno dei neoplatonici.
Quale la missione dell’Io, cioè di ogni uomo? La nostra missione è duplice: mediante la conoscenza assimilare il Non-Io all’Io, strappando il velo dei suoi segreti attraverso le scoperte scientifiche (che mostrano come la Natura obbedisca, in realtà, alla Ragione umana da cui originariamente deriva); mediante la vita morale resistere alla natura in noi stessi (le tentazioni del piacere) e affermare la nostra dignità umana seguendo l’imperativo categorico, vera sorgente di libertà.
In Fichte, in particolare, l’imperativo categorico assume una fondazione più solida. Agire secondo “regole universali” significa, in ultima analisi, agire in quanto espressione dell’Io assoluto (il cui unico interesse è il trionfo dell’ordine razionale nel mondo) e non come singoli Io empirici (apparentemente separati gli uni dagli altri e agitati dai nostri “interessi privati”).
Vediamo qui fondati filosoficamente diversi motivi romantici: il titanismo del soggetto che si afferma contro la natura, l’idealismo in senso morale (per cui si dice che una persona è un “idealista”, ossia disposto a tutto per sostenere i propri “ideali”), l’attivismo infinito dell’uomo che lotta contro ogni ostacolo e supera ogni peripezia e che si riconosce come soggetto proprio in questa lotta contro l’oggetto.
La Natura, però, è ancora concepita come meccanica, come priva di vita, come mero ostacolo dell’affermazione del soggetto. Viene completamente ignorata l’interpretazione della Natura come vivente, come guidata da scopi e contraddistinta da bellezza, esaminata da Kant nella Critica del giudizio e tema di molte espressioni della cultura romantica.