Affinché non si pensi che la storia, in quanto rivolta al passato, sia una disciplina scarsamente utile a comprendere il presente, consideriamo quanto accade in questi giorni sotto i nostri occhi e chiediamoci se e quanto la storia ci aiuti ad intenderlo.
Domenica 1 ottobre 2017, in Catalogna, come sa chi ha seguito i telegiornali o letto i giornali (del giorno dopo), si è tenuto, nonostante il tentativo della polizia spagnola di impedirlo (tentativo segnato anche da qualche intervento, per così dire, piuttosto “robusto”), un referendum per l’indipendenza di questa regione dalla Spagna (referendum considerato illegale, perché incostituzionale, dal governo di Madrid).
Si tratta di un evento che, probabilmente, sarà inserito nei futuri libri di storia, soprattutto se ne seguisse un conflitto con la Spagna o, anche, l’acquisizione pacifica dell’indipendenza della regione catalana.
Come si è arrivati a tanto? E che cosa è ragionevole attendersi per il futuro?
Innanzitutto, perché il referendum è stato giudicato illegale? Perché la costituzione spagnola, approvata nel 1978, dopo decenni di dittatura franchista, nel suo art. 2, pur riconoscendo la possibilità a regioni come la Catalogna, i Paesi Baschi o la Galizia, fino ad allora “negata” dal regime falangista, di acquisire un’ampia autonomia (la Catalogna, ad es., dispone ad oggi di una polizia regionale, di un governo regionale e di diverse altre strutture e organizzazioni che, in genere, sono esclusive degli Stati nazionali), afferma l’intangibile e indissolubile unità della Spagna.
Ma noi ricordiamo che, ad es., i sovrani della Spagna che finanziarono e sostennero la spedizione di Cristoforo Colombo, erano Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, sposati da qualche anno. I due rispettivi regni, nonostante il loro matrimonio, rimasero separati ancora per due secoli, anche se furono retti da un solo monarca. Ciascun regno (l’Aragona corrispondeva sostanzialmente all’attuale Catalogna) conservava la propria lingua e le proprie istituzioni. Da quando, dunque, l’indipendenza della Catalogna venne meno?
Bisogna arrivare a Filippo V di Borbone, figlio di Luigi XIV di Francia, primo sovrano della dinastia borbonica a insediarsi in Spagna, antenato dell’attuale re Filippo VI di Borbone, riconosciuto definitivamente dalle altre potenze europee dopo l’aspra guerra di successione spagnola, conclusasi con le paci di Utrecht e Rastatt (1713-14). Sul modello dello Stato francese, fortemente centralizzato, oltre che esemplarmente assolutistico, Filippo V abolì tutte le istituzioni autonome dell’Aragona, della Navarra e degli altri regni che componevano, allora, la Spagna, imponendo a tutte le regioni l’adozione del castigliano come lingua ufficiale e sottoponendole al controllo di funzionari nominati da Madrid.
Tale situazione non mutò sostanzialmente nei secoli successivi e fu ribadita durante la dittatura di Francisco Franco (iniziata nel 1939, dopo la sanguinosa guerra di Spagna).
A questo punto ci si potrebbe chiedere come mai, dopo la caduta del regime, la nuova Spagna democratica non abbia riconosciuto alle regioni la possibilità di conseguire l’indipendenza. Ma la stessa domanda andrebbe fatta ai costituenti italiani che, nella nostra costituzione del 1948, inserirono il principio dell’unità e indivisibilità del Paese.
Qui tocchiamo una questione delicata di filosofia politica.
Dai moti del 1848 (e anche da prima, nel quadro della nuova sensibilità romantica per la cultura di ciascun popolo) fino ai celebri 14 punti del Presidente americano Wilson, linee guida che ispirarono i trattati di pace che seguirono alla Prima Guerra Mondiale (1914-18), si è spesso caldeggiato il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Secondo questo principio è giusto e legittimo che ciascun popolo si dia il tipo di governo che preferisce e, soprattutto, nessun popolo può dipendere da un altro. Ciò ha ispirato, ad esempio, i moti risorgimentali italiani contro la dominazione austriaca nel XIX sec (moti che talora comportarono gesti che oggi definiremmo terroristici).
Gli indipendentisti catalani, all’obiezione di chi facesse loro notare che la loro azione (suscitata magari soltanto da “egoistici” fini di tipo economico, ad esempio dal fine di trattenere per spese e investimenti “locali” l’intero ammontare del gettito fiscale catalano) viola la costituzione spagnola , potrebbero sempre opporre il diritto all’autodeterminazione come popolo. Se uno Stato opprime un popolo è abbastanza tipico che tale oppressione si svolga secondo le regole della costituzione dello Stato medesimo. Ma questo basta delegittimare un moto rivoluzionario? Una rivoluzione, come tale, implica la violazione di un antecedente ordine costituzionale. Si tratta di una questione politica che non può essere risolta facendo appello solamente a principi di tipo giuridico. Consideriamo, del resto, che molti Stati europei attuali rivendicano le loro radici in una Rivoluzione (come p.e. la Rivoluzione Francese del 1789). Gli Stati Uniti derivano da una rivoluzione che consistette in un moto di secessione dell’Inghilterra seguito alla proclamazione unilaterale della loro indipendenza (1776).
Tuttavia in tutto ciò si annida un’aporia. Come determinare i confini del “popolo” che avrebbe diritto ad autodeterminarsi? Attraverso questa stessa autodeterminazione? Supponiamo che la Catalogna si separi dalla Spagna in nome del principio di autodeterminazione. Come bloccare un eventuale regresso all’infinito nell’applicazione del principio? Una regione catalana, una città, il quartiere di una città catalana potrebbe essere abitato da una maggioranza di persone che desiderano mantenersi legati alla Spagna o, magari, costituire un’ennesima nuova entità politica… Anche tale gruppo di persone potrebbe autodeterminarsi? E chi non fosse d’accordo? Potrebbe anch’egli autodeterminarsi? Si arriverebbe così all’anarchia, cioè all’autodeterminazione politica di ciascun singolo individuo che non ammetterebbe alcun potere sopra di sé (sarebbe sovrano a se stesso, secondo la dottrina p.e. di Stirner, esposta nell’Unico e la sua proprietà).
Probabilmente è per evitare queste implicazioni o, più concretamente, un effetto domino in tutta l’Europa (cioè di legittimare le rivendicazioni indipendentistiche di Baschi, Scozzesi, Fiamminghi del Belgio, Ungheresi di Romania ecc.) che l’Unione Europea è apparsa piuttosto fredda e silente, finora, nei confronti del governo regionale catalano. Se la Catalogna dovesse costituirsi in uno Stato indipendente, essa sarebbe comunque fuori dall’Unione e dovrebbe trattare per venirvi accolta (questo sarebbe accaduto alla Scozia se si fosse separata dall’Inghilterra, ad esempio). Ma, appunto, la questione non è solo formale o giuridica, ma sostanziale o politica.