Ecco l’esito americano della guerra dei Sette Anni (pace di Parigi, 1763):
Come si vede, gli estesi domini francesi che andavano dal Quebèc alla Louisiana (così chiamata in onore di re Luigi XIV, la cui capitale era Nouvelle Orléans, attuale New Orleans) passano agli Inglesi.
Ciò costituisce la premessa immediata della crescente conflittualità tra i coloni americani di lingua inglese e la madrepatria. Il re Giorgio III, infatti, pretende che le ingenti spese belliche siano in parte rifuse dai coloni per i vantaggi dell’avvenuta annessione dei domini francesi, che aprono le porte all’espansione verso Ovest (la successiva epopea del Far West). D’altra parte vieta loro per il momento di attaccare le “nazioni indiane” (gli Irochesi, i Cheyennes ecc.), cioè i nativi americani che abitavano nelle regioni governate dai Francesi, per non doversi sobbarcare le ulteriori spese militari. Il “combinato disposto” delle due pretese determina l’imposizione di nuove tasse ai coloni e il blocco dell’espansione a Occidente, suscitando la crescente irritazione della popolazione bianca delle Tredici colonie costiere….
La guerra d’indipendenza americana (o rivoluzione americana) scaturisce, dunque, indirettamente, dai risultati della guerra dei Sette anni (1756-63). Gli Inglesi, dopo essere riusciti a strappare la valle del Mississippi ai Francesi, ritenevano che fosse giusto far pagare parte dei costi dell’impresa, che aveva dissanguato le casse dello Stato, ai beneficiari dell’operazione, ossia ai coloni americani, imponendo loro nuove tasse. In pari tempo, per evitare nuove costose guerre con i nativi americani, essi ritenevano che i coloni, almeno per un certo tempo, non dovessero espandersi oltre i monti Appalachi. Il “combinato disposto” di queste due istanze produsse, comprensibilmente, un forte malcontento tra i coloni che si videro oberati da nuove tasse e impediti nell’auspicata espansione verso l’Ovest (il leggendario West che sarebbe diventato la nuova frontiera americana nell’Ottocento).
I coloni americani, dunque, dopo un primo tentativo, nel primo congresso di Filadelfia del 1774, di farsi riconoscere da re Giorgio III il diritto di deliberare a favore o contro l’imposizione di nuove tasse (sulla base del principio lockiano e montesquieiano “no taxation without representation“, peraltro già operante per i sudditi inglesi della madrepatria, in quanto le loro istanze erano rappresentate in Parlamento), dopo il rifiuto del re e diversi scontri tra ribelli e forze regolari inglesi, deliberarono nel secondo congresso di Filadelfia, riunito il 4 luglio 1776, l’indipendenza dall’Inghilterra delle colonie che assunsero il nome di Stati Uniti d’America (e si ressero, in questa prima fase, come confederazione di Stati liberi e indipendenti, collegati quasi solo per gli scopi della guerra). Rilevanti sono i principi messi in gioco dai coloni nella Dichiarazione d’indipendenza, ispirati chiaramente alle dottrine illuministiche francesi (per il tramite soprattutto di Benjamin Franklin), oltre che alla teoria politica di John Locke.
La guerra si concluse con la pace di Parigi (o Versailles) del 1783 dopo alterne vicende che videro un sostanziale controllo del territorio da parte dei ribelli (come si può verificare su questa mappa dinamica) e una maggior efficienza militare dell’esercito inglese (sostenuto anche da numerose tribù pellerossa interessate a difendersi dalla minacciata espansione dei coloni nei loro territori), che, tuttavia, come si comprese dopo la sconfitta di Yorktown e, soprattutto, l’intervento a fianco dei ribelli di Francia e Spagna, non avrebbe mai potuto avere la meglio sui ribelli.
Conseguita l’indipendenza gli americani si resero conto (ispirati ancora da Franklin, che collaborò nella stesura della Dichiarazione d’indipendenza e nella stipulazione dell’alleanza con la Francia, nonché da Hamilton, Madison e Jay, autori di diversi articoli apparsi sul giornale Federalist) che sarebbe stato meglio rafforzare i legami tra i nuovi stati passando da una costituzione confederale (che lasciava una sostanziale indipendenza ai singoli stati) a una vera e propria costituzione federale, ispirata alla teoria della tripartizione dei poteri di Montesquieu (dunque, indirettamente, alla stessa costituzione inglese, con la differenza che il re era sostituito dal presidente degli Stati Uniti e la camera dei Lords da un Senato rappresentativo dei singoli Stati) e alla teoria della sovranità popolare di Rousseau (già risonante nella Dichiarazione d’indipendenza). Nasceva così nel 1789 l’attuale Costituzione degli Stati Uniti, che è la più antica costituzione scritta ancora vigente (dal momento che la costituzione inglese è tale di fatto, ma non corrisponde ad alcun testo organico definito una volta per tutte).
Sulla costituzione americana e in particolare la figura del Presidente cfr. anche questo documentario. Sulla rivoluzione americana in generale cfr. questo documentario, articolato in 1, 2, 3 segmenti.
Rilevante che nel 1791, cioè due anni dopo lo scoppio della Rivoluzione Francese e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata a Parigi (ispirata anch’essa ai principi dell’illuminismo), gli americani avvertirono il bisogno di approvare i primi 10 emendamenti alla Costituzione (che si limitava a stabilire il funzionamento degli organi dello Stato secondo la teoria della divisione dei poteri), ossia il cosiddetto Bill of rights, che conteneva e contiene i principali diritti civili e politici di cui ancor oggi godono di americani.
Quale rivoluzione, dunque, ha ispirato l’altra? Alcuni storici, esagerando un po’, parlano non di due, ma di una sola rivoluzione atlantica, la quale avrebbe compiutamente realizzato sul piano politico quei principi illuministici che ancora non avevano potuto essere tradotti in altrettanti diritti dal riformismo settecentesco (dei vari Federico II, Maria Teresa, Caterina II, Giuseppe II ecc.).